il manifesto 21.2.18
Scuola, il nuovo concorso è il fallimento del renzismo
Il
caso. E' riservato ai docenti in possesso di abilitazione. Notizia
positiva, ma non bisogna farsi ingannare: questo è lo specchio di una
gestione fallimentare che ha generato la Buona scuola
di Jacopo Rosatelli
Ieri
si sono aperti i termini di iscrizione al concorso riservato ai docenti
in possesso di abilitazione: migliaia di persone vedono finalmente
avvicinarsi la stabilizzazione del loro lavoro nelle scuole secondarie
(cioè medie e superiori). Non ci sono sbarramenti: tutti i partecipanti,
in base alla valutazione ottenuta, finiranno in graduatorie regionali
dalle quali verranno chiamati, nei prossimi anni, i nuovi insegnanti di
ruolo. Una buona notizia, impossibile negarlo. Di quelle che un governo
può trasformare facilmente in argomento propagandistico per mostrare le
proprie virtù nell’amministrare un settore, quello dell’istruzione
pubblica, funestato dalla piaga del precariato. Ma non bisogna farsi
ingannare: il concorso a venire è semmai lo specchio di una gestione
fallimentare, quella che ha generato la Buona scuola, che ha avuto in
Matteo Renzi l’ispiratore e nelle ministre Giannini e Fedeli le zelanti
esecutrici.
A sostenere la prova che farà da viatico
all’assunzione in ruolo saranno quelle migliaia di insegnanti che erano
risultati «bocciati» al concorsone imbastito nel 2016, in pieno renzismo
trionfante. Riservato già quello ai soli abilitati, con oltre 60mila
posti in palio, fu una mega-macchina infernale che generò infinite
polemiche sull’assurdità dei quesiti e delle modalità di svolgimento,
con inevitabile sequela di contenziosi. Quello che doveva essere un
monumento imperituro all’ideologia della meritocrazia si rivelò un
enorme pasticcio. Ma per Renzi e il suo Pd tutto era andato bene, e le
migliaia di «bocciati» erano gente che non meritava di salire in
cattedra. Peccato che in cattedra ci fossero già, e che ci siano saliti
nei due anni successivi, da precari. Senza di loro, il sistema non
andrebbe avanti. E non si tratta di abusivi, ma di professori e
professoresse con un’abilitazione, cioè un titolo acquisito dopo il
superamento di un precedente concorso (nel gergo scolastico Ssis o Tfa) o
di un corso abilitante dopo almeno tre anni di servizio da supplenti
(Pas).
Che senso ha avuto un concorso come quello del 2016,
costoso e farraginoso, se due anni dopo si fanno entrare quei «bocciati»
che l’allora ministra Giannini tacciava di indegni all’insegnamento?
Nessuno. Come già due anni fa sostenevano sindacati, associazioni e
movimenti. Inascoltati, proponevano un piano pluriennale di
stabilizzazione di tutti i docenti abilitati. Da attuarsi magari dopo un
concorso non selettivo che servisse solo a determinare una graduatoria.
Cioè, esattamente quello che accadrà ora.
Se avesse dato retta
agli odiati corpi intermedi del mondo della scuola, a quelle forme di
rappresentanza ignorate in nome della «disintermediazione», il governo
del Pd avrebbe fatto risparmiare alle casse pubbliche denaro
irrazionalmente speso e alle nuove leve di prof ansia, inutili fatiche e
umiliazioni.
Quello che si è messo in moto ieri è forse un
tardivo risarcimento, ma soprattutto è l’implicita ammissione di avere
sbagliato tutto.