mercoledì 21 febbraio 2018

Il Fatto 21.2.18
Il triplo salto mortale di Calenda, da ministro a delegato della Fiom
di Alessandro Robecchi


Tra le magie della campagna elettorale e gli incantesimi pronta cassa della propaganda, ecco l’ultimo genio della lampada. Strofina, strofina, e voilà: il ministro dell’Industria (2 punto 0, 3 punto 0, 4 punto 0, variare a piacere) che si trasforma in delegato Fiom e chiama “gentaglia” i dirigenti della multinazionale che va a fare i compressori in Slovacchia rovinando cinquecento famiglie. Carlo Calenda si è fermato un attimo prima di andare a tirare i sassi alle finestre, ma insomma: il messaggio è chiaro, un pugno sul tavolo, basta coi padroni che se ne approfittano.
È davvero un caso di mimetismo strategico degno di animali come l’insetto-foglia o il polpo mimetico dell’Indonesia: all’avvicinarsi minaccioso delle elezioni, il fiero liberista diventa una specie di Di Vittorio, come tale salutato dai giornali, hurrà.
Che Calenda sia incazzato ci sta, non c’è niente di più sfiancante di gente (“gentaglia”) che “si siede a un tavolo” e poi fa quel che vuole. E divertente è anche l’assenza totale dal dibattito del ministro del Lavoro, uno che andava bene per truccare i dati sul Jobs act, e teorizzare il trasporto di verdura in cassette come scuola di vita, bene, grazie, il suo l’ha fatto.
Un po’ meno divertente, specie per chi ci rimane stritolato in mezzo, è il maledetto mondo reale. Di aziende che si insediano (magari rilevando qualche disastro e passando per salvatrici della patria), prendono soldi, agevolazioni e incentivi pubblici, e poi fanno quello che gli pare, è piena la storia recente del paese. Chi compra e scappa con gli impianti, chi trasferisce le produzioni dove conviene di più, chi disattende accordi e contratti. Da anni e anni i lavoratori italiani (e parliamo di quelli con un contratto, pensa gli altri!) vivono in uno stato di agitazione perenne, di allarmata insicurezza. Le crisi diventano vertenze, e diventano “tavoli”, e diventano “trattative”, e diventano “interventi” e poi, passano sei mesi, passa un anno, ecco che si riparte (quando va bene) con meno lavoratori, o salari più bassi, o condizioni di lavoro peggiorate, coi sindacati quasi sempre costretti a ingoiare rospi e a gioire per il “meno peggio” raggiunto. i dirà: è il mercato, bellezza.
Ma è anche interessante andare a vedere come nell’ultima legislatura (cinque lunghi anni) si è risposto a questa insicurezza di massa, a questo timore-tremore che si può perdere il lavoro da un momento all’altro. In buona sostanza, i lavoratori italiani sono stati irrisi costantemente e con regolare pervicacia.
Prima con la favoletta bella della disintermediazione, poi evocando il vecchiume delle battaglie sindacali (“Mettono il gettone nell’iPhone”, il più volgare schiaffo ai lavoratori mai arrivato dal giovane segretario Pd in trance agonistica).
Poi si innestò una guerra generazionale, indicando i lavoratori assunti come indecenti privilegiati. Poi fu il turno della legge sul lavoro col nome inglese, scritta a quattro mani con Confindustria (due mani di Confindustria, le altre due di Confindustria), il tutto con l’aggiunta dei ricami teorici-filosofici del sor Poletti, quello che “per trovare lavoro è meglio giocare a calcetto che mandare il curriculum”.
Lo stesso Renzi, ma sì, lo statista, incontrava il capo di Amazon e lo definiva “un genio”, ma ammetteva poi in tivù – in occasione di uno sciopero ad Amazon – di non conoscere le condizioni di quei lavoratori. Indicare ad esempio i padroni come nuovi signori rinascimentali, coprirli con miliardi di incentivi, stargli accanto quando brillano per catturare un po’ del riflesso: questo è stato fatto in questi anni (e soprattutto nei nefasti mille giorni di Renzi). E ora, a dieci giorni dalle elezioni, ecco un membro del governo sbottare come un Cobas inviperito. Che spettacolo!