il manifesto 2.2.18
Razzismo, un piano inclinato sul quale stiamo scivolando
Migranti.
Dello sterminio di ebrei, rom e sinti erano complici i popoli (i
tedeschi insieme a quelli soggiogati). E’ così anche con gli immigrati.
Il razzismo dei governi si è già spinto molto avanti
di Guido Viale
Il
giorno della memoria o, meglio la memoria della Shoah e del Porrajmos,
cioè dello sterminio di ebrei, rom e sinti da parte del nazismo, una
memoria coltivata tutto l’anno, potrebbe e dovrebbe essere utilizzata
come una lente attraverso cui esplorare il nostro presente.
Quello
che occorre tener presente è la dinamica del razzismo: il suo esito
estremo, ma anche i suoi inizi, perché anche la Shoah non è cominciata
con le camere a gas ma con il disprezzo – anche l’invidia – del diverso.
Della
Shoah e del Porrajmos va ricordato e ribadito che il suo fine non era
lo sfruttamento del lavoro schiavo a cui adibire le razze ritenute
inferiori; uno sfruttamento comunque largamente sviluppato nei tanti
campi secondari costruiti accanto ad alcuni di quelli dedicati allo
sterminio e a cui erano sottoposti gli uomini e le donne valide prima di
essere soppresse. Il fine principale di Shoah e Porrajmos era lo
sterminio, il genocidio, la cancellazione dalla faccia della terra di
interi popoli.
NON È VERO CHE IL POPOLO tedesco non ne sapesse
niente; sapeva tutto, anche se non c’erano ancora i mezzi di
comunicazione di cui disponiamo noi oggi. Se gli ebrei italiani in
“viaggio” verso Auschwitz sapevano quello che li aspettava – e ne
abbiamo testimonianza – lo sapevano anche tutti gli altri. E infatti lo
scopo fondamentale del genocidio era proprio quello di renderne
complice, seppur indirettamente, il popolo tedesco – e poi tutti i
popoli dei paesi soggiogati, dove erano stati immediatamente attivati
rastrellamenti e deportazioni.
Quella complicità, sottaciuta e per
lo più nascosta anche a se stessi, era lo strumento fondamentale di
“fidelizzazione” delle popolazioni ai regimi che si rendevano
responsabili di quei crimini; il sistema più sicuro per garantirsi che,
in chi si sentiva ormai, in qualsiasi modo, complice di quell’eccidio,
si spegnesse per sempre il desiderio e la volontà di dissociarsene, così
come la partecipazione ad un crimine particolarmente efferato è il modo
con cui le gang criminali si procurano la fedeltà dei nuovi adepti.
QUESTO
MECCANISMO al tempo stesso militare, culturale e psicologico va tenuto
presente quando analizziamo le “deportazioni” e gli eccidi di profughi e
migranti che si svolgono oggi sotto i nostri occhi. Chi continua a
sostenere che il fine delle sofferenze, delle violenze e del massacro a
cui i nostri governi – intendo quello italiano, ma anche e soprattutto
quello dell’Unione europea e quelli di tutti i paesi membri – è mettere
in condizioni di inferiorità, e poi di schiavismo, una manodopera
straniera per poterla sfruttare meglio; o, addirittura, con l’evocazione
di un fantasioso “Piano Kalergi” che vede uniti sovranisti e razzisti
di destra e di sinistra, sostituire la popolazione europea con una
manodopera schiava di origine europea, non tiene conto del fatto che lo
sfruttamento della manodopera straniera in condizioni di violenta
emarginazione, in Europa ben prima che in Italia, era stato alla base di
gran parte dello sviluppo economico del continente ben prima che
suonasse l’allarme per una presunta “invasione dei profughi” contro cui
oggi l’Unione europea e i governi suoi complici stanno mobilitando una
mole crescente di risorse finanziarie, legislative, militari, ma anche
sociali e culturali.
LO SFRUTTAMENTO della manodopera resa
“clandestina” dalla legge è un byproduct, un effetto secondario,
ancorché gradito e ben utilizzato – senza di esso gran parte
dell’agricoltura italiana, e non solo, scomparirebbe – di qualcosa di
molto più profondo: il coinvolgimento della popolazione italiana, sia
quella consenziente che quella contrariata, in una corsa verso
l’affermazione di una propria “identità” e, conseguentemente, di una
propria superiorità, da salvaguardare nei confronti di persone e popoli
da respingere; cioè in una pratica dalle evidenti connotazioni razziste.
Il
razzismo è un piano inclinato che inizia con manifestazioni quasi
impercettibili nascoste nel linguaggio o in sorrisi e allusioni
malevole, apparentemente innocue, ma lungo cui è sempre più facile
scivolare, e in modi sempre più accelerati, verso le sue forme più
estreme; ma da cui è sempre più difficile risalire per tornare indietro,
come hanno dimostrato, prima ancora della Shoah e del Porrajmos, la
conquista delle Americhe, il colonialismo e lo schiavismo, il genocidio
degli Armeni ed altro ancora.
OGGI NON C’È PIÙ BISOGNO di
ricorrere a pseudo enunciati scientifici di carattere biologico per
giustificarlo; basta coltivare un autocompiacimento per la propria
miseria spirituale, soprattutto se sostenuto da leggi, norme e
regolamenti che condannano l’altro all’emarginazione, all’esclusione e a
una povertà peggiore della nostra; poi si potrà anche inveire contro
ricchi calciatori di colore negli stadi o ministre di origine africana
su facebook (senza però scandalizzarsi se sceicchi arabi o tycoon cinesi
si comprano mezzo paese, perché il razzismo odierno nasce soprattutto
dal disprezzo e dalla paura della povertà).
Così, passo dopo
passo, senza che neppure ce ne accorgiamo, le politiche di
respingimento, ma che di criminalizzazione e di disumanizzazione di
profughi e migranti messe in atto dai governi (dai governi, e non solo
dalle destre; o dai governi perché non fanno che copiare e inseguire le
“ricette” delle destre) ci trascinano verso forme di assuefazione,
prima, e di più o meno inconsapevole coinvolgimento, poi, da cui poi è
sempre più difficile uscire.
Perché poco per volta, diventa la
“normalità”: quella che Liliana Segre, riferendosi all’epoca del
fascismo, delle leggi razziali, delle deportazioni e della Shoah,
chiama, mettendola sotto accusa e in primo piano, “indifferenza”.
I
NOSTRI GOVERNI – O ALCUNI dei loro esponenti – sono perfettamente
consapevoli di questo meccanismo: sanno che dai fatti compiuti è sempre
più difficile tornare indietro e cambiare rotta; e per questo spingono
l’acceleratore in direzione di politiche che, a dir loro, dovrebbero
mettere fuori gioco le destre, perché le renderebbero superflue; e che
invece le rendono sempre più forti e, alla fine vincenti.
Lungo
quel piano inclinato siamo già andati, in tutta Europa – ma anche
altrove – molto avanti. Basta pensare, da un lato, al linguaggio
apertamente razzista ormai sdoganato da una certa parte politica, da TV e
giornali e, conseguentemente, al bar; dall’altro alle politiche di
respingimento promosse dall’Unione europea e dal nostro governo passando
sopra alle più elementari forme di rispetto dei diritti della persona.
Quello
a cui dobbiamo fare attenzione ora è solo cercare di non superare il
punto di non ritorno, che è il punto in cui ciascuno si sente talmente
solo e isolato da non ritenere più di poter reagire.
QUANDO SI
RIFLETTE sull’indifferenza che ha accompagnato la persecuzione prima e
lo sterminio, dopo degli ebrei durante il fascismo e il nazismo ci si
chiede spesso perché di fronte a tanta mostruosità, nessuno, o meglio,
ben pochi, abbiano trovato la forza e la capacità di reagire, mentre la
maggioranza ha assistito indifferente a quello che succedeva sotto i
suoi occhi.
La risposta, forse, è che non si trattava, e non si
tratta, solo di cinismo, bensì soprattutto di un senso di impotenza che
paralizza.
Bisognava forse pensarci – e provvedere prima – quando
ancora c’era la possibilità di farlo. Prima quando? Gli storici non ce
lo sanno dire; o hanno opinioni diverse rispetto alla resistibile ascesa
del razzismo che ha accompagnato fin dal nascer fascismo e razzismo. Ma
dobbiamo cominciare a chiedercelo noi, rispetto al tempo presente. Per
non ritrovarci poi a dire e a pensare che ormai è troppo tardi.