venerdì 2 febbraio 2018

Il Fatto 2.2.18
Stefano Massini

Salvate Freud, dimenticate i sogni
di Camilla Tagliabue


Di Freud o l’interpretazione dei sogni la cosa meno interessante è l’interpretazione dei sogni: passi invece per Freud, che qui però astutamente è un abile teatrante più che un pioneristico analista, dal momento che lo spettacolo vira in chiave metateatrale, anche fin troppo esplicitamente, deflagrando in un finale potente, su un palco, manco a dirlo, seminudo (così fan tutti, vedi affianco).
Ma andiamo con ordine: Freud o l’interpretazione dei sogni è un testo di Stefano Massini tratto dal suo recente romanzo L’interpretatore dei sogni (Mondadori), testo che a sua volta è stato ridotto e adattato dal regista Federico Tiezzi insieme con Fabrizio Sinisi: non si sa chi abbia avuto l’idea di dirottare la pièce, facendone una recita nella recita, ma è un’idea che salva in toto l’operazione, prodotta dal Piccolo. La trama è evanescente, non solo perché parla di sogni: è una lunga serie di casi clinici, affabulati dal medico e dai suoi pazienti. Prima incauta considerazione, dopo qualche minuto di replica: gli psicoanalisti vengono pagati parecchio per sopportare la noia dei racconti di gente un po’ fusa. Non c’è niente di più tedioso delle paturnie altrui, oltretutto qui edulcorate ed epurate da qualsiasi pruderie o perversione polimorfa, tanto di moda nell’Austria Felix. Pian piano, però, i monologhi iniziano a inanellarsi gli uni negli altri organicamente e i pazzi, in tutta la loro irrilevanza, si palesano per quel che sono: fantasmi, incubi, proiezioni nella mente, e quindi negli studi, del dottor Freud. Per questo il regista si è concentrato su di lui, imbastendo “un racconto di formazione, la messa in scena di un lungo pensiero, forse di un sogno nella testa di Freud”.
Il risultato è uno spettacolo lussuoso, impeccabile in ogni dettaglio, fin nelle maschere di animali impagliati che sfilano sulla scena museale e gelida di Marco Rossi. Il merito è da imputarsi soprattutto a Tiezzi: dirige splendidamente l’ottimo cast di interpreti, dando a ciascuno un colore, un suono, un ritmo, che gli sciapi psicopatici non avrebbero mai avuto altrimenti. Le follie sono sempre banali: si assomigliano tutte. Poi certo, forse non c’era bisogno di esplicitare la chiave metateatrale o cinematografica: “Il nostro racconto ha molti punti in comune con una sceneggiatura: si sviluppa attraverso diversi setting”, chiosa il regista, ma lo sanno tutti che si va in psicoanalisi come su un “set” e che lo psicodramma è teatro. L’eleganza dell’allestimento è garantita anche dalle validissime maestranze (Raffaella Giordano, Gianluca Sbicca, Gianni Pollini…) e dai bravissimi attori: Giovanni Franzoni, Valentina Picello, Umberto Ceriani, Sandra Toffolatti, Alessandra Gigli, Michele Maccagno, Nicola Ciaffoni, Stefano Scherini. Su tutti spiccano Fabrizio Gifuni e Debora Zuin nei panni di Freud e di sua moglie e i pazienti interpretati da Marco Foschi, Elena Ghiaurov, Bruna Rossi e David Meden, che insinuano nei loro personaggi una nota di briosa perversione. Tutto il resto è noia.