Il Fatto 2.2.18
Stefano Massini
Salvate Freud, dimenticate i sogni
di Camilla Tagliabue
Di Freud o l’interpretazione dei sogni la cosa meno interessante è l’interpretazione dei sogni: passi invece per Freud, che qui però astutamente è un abile teatrante più che un pioneristico analista, dal momento che lo spettacolo vira in chiave metateatrale, anche fin troppo esplicitamente, deflagrando in un finale potente, su un palco, manco a dirlo, seminudo (così fan tutti, vedi affianco).
Ma andiamo con ordine: Freud o l’interpretazione dei sogni è un testo di Stefano Massini tratto dal suo recente romanzo L’interpretatore dei sogni (Mondadori), testo che a sua volta è stato ridotto e adattato dal regista Federico Tiezzi insieme con Fabrizio Sinisi: non si sa chi abbia avuto l’idea di dirottare la pièce, facendone una recita nella recita, ma è un’idea che salva in toto l’operazione, prodotta dal Piccolo. La trama è evanescente, non solo perché parla di sogni: è una lunga serie di casi clinici, affabulati dal medico e dai suoi pazienti. Prima incauta considerazione, dopo qualche minuto di replica: gli psicoanalisti vengono pagati parecchio per sopportare la noia dei racconti di gente un po’ fusa. Non c’è niente di più tedioso delle paturnie altrui, oltretutto qui edulcorate ed epurate da qualsiasi pruderie o perversione polimorfa, tanto di moda nell’Austria Felix. Pian piano, però, i monologhi iniziano a inanellarsi gli uni negli altri organicamente e i pazzi, in tutta la loro irrilevanza, si palesano per quel che sono: fantasmi, incubi, proiezioni nella mente, e quindi negli studi, del dottor Freud. Per questo il regista si è concentrato su di lui, imbastendo “un racconto di formazione, la messa in scena di un lungo pensiero, forse di un sogno nella testa di Freud”.
Il risultato è uno spettacolo lussuoso, impeccabile in ogni dettaglio, fin nelle maschere di animali impagliati che sfilano sulla scena museale e gelida di Marco Rossi. Il merito è da imputarsi soprattutto a Tiezzi: dirige splendidamente l’ottimo cast di interpreti, dando a ciascuno un colore, un suono, un ritmo, che gli sciapi psicopatici non avrebbero mai avuto altrimenti. Le follie sono sempre banali: si assomigliano tutte. Poi certo, forse non c’era bisogno di esplicitare la chiave metateatrale o cinematografica: “Il nostro racconto ha molti punti in comune con una sceneggiatura: si sviluppa attraverso diversi setting”, chiosa il regista, ma lo sanno tutti che si va in psicoanalisi come su un “set” e che lo psicodramma è teatro. L’eleganza dell’allestimento è garantita anche dalle validissime maestranze (Raffaella Giordano, Gianluca Sbicca, Gianni Pollini…) e dai bravissimi attori: Giovanni Franzoni, Valentina Picello, Umberto Ceriani, Sandra Toffolatti, Alessandra Gigli, Michele Maccagno, Nicola Ciaffoni, Stefano Scherini. Su tutti spiccano Fabrizio Gifuni e Debora Zuin nei panni di Freud e di sua moglie e i pazienti interpretati da Marco Foschi, Elena Ghiaurov, Bruna Rossi e David Meden, che insinuano nei loro personaggi una nota di briosa perversione. Tutto il resto è noia.
il manifesto 2.2.18
Razzismo, un piano inclinato sul quale stiamo scivolando
Migranti. Dello sterminio di ebrei, rom e sinti erano complici i popoli (i tedeschi insieme a quelli soggiogati). E’ così anche con gli immigrati. Il razzismo dei governi si è già spinto molto avanti
di Guido Viale
Il giorno della memoria o, meglio la memoria della Shoah e del Porrajmos, cioè dello sterminio di ebrei, rom e sinti da parte del nazismo, una memoria coltivata tutto l’anno, potrebbe e dovrebbe essere utilizzata come una lente attraverso cui esplorare il nostro presente.
Quello che occorre tener presente è la dinamica del razzismo: il suo esito estremo, ma anche i suoi inizi, perché anche la Shoah non è cominciata con le camere a gas ma con il disprezzo – anche l’invidia – del diverso.
Della Shoah e del Porrajmos va ricordato e ribadito che il suo fine non era lo sfruttamento del lavoro schiavo a cui adibire le razze ritenute inferiori; uno sfruttamento comunque largamente sviluppato nei tanti campi secondari costruiti accanto ad alcuni di quelli dedicati allo sterminio e a cui erano sottoposti gli uomini e le donne valide prima di essere soppresse. Il fine principale di Shoah e Porrajmos era lo sterminio, il genocidio, la cancellazione dalla faccia della terra di interi popoli.
NON È VERO CHE IL POPOLO tedesco non ne sapesse niente; sapeva tutto, anche se non c’erano ancora i mezzi di comunicazione di cui disponiamo noi oggi. Se gli ebrei italiani in “viaggio” verso Auschwitz sapevano quello che li aspettava – e ne abbiamo testimonianza – lo sapevano anche tutti gli altri. E infatti lo scopo fondamentale del genocidio era proprio quello di renderne complice, seppur indirettamente, il popolo tedesco – e poi tutti i popoli dei paesi soggiogati, dove erano stati immediatamente attivati rastrellamenti e deportazioni.
Quella complicità, sottaciuta e per lo più nascosta anche a se stessi, era lo strumento fondamentale di “fidelizzazione” delle popolazioni ai regimi che si rendevano responsabili di quei crimini; il sistema più sicuro per garantirsi che, in chi si sentiva ormai, in qualsiasi modo, complice di quell’eccidio, si spegnesse per sempre il desiderio e la volontà di dissociarsene, così come la partecipazione ad un crimine particolarmente efferato è il modo con cui le gang criminali si procurano la fedeltà dei nuovi adepti.
QUESTO MECCANISMO al tempo stesso militare, culturale e psicologico va tenuto presente quando analizziamo le “deportazioni” e gli eccidi di profughi e migranti che si svolgono oggi sotto i nostri occhi. Chi continua a sostenere che il fine delle sofferenze, delle violenze e del massacro a cui i nostri governi – intendo quello italiano, ma anche e soprattutto quello dell’Unione europea e quelli di tutti i paesi membri – è mettere in condizioni di inferiorità, e poi di schiavismo, una manodopera straniera per poterla sfruttare meglio; o, addirittura, con l’evocazione di un fantasioso “Piano Kalergi” che vede uniti sovranisti e razzisti di destra e di sinistra, sostituire la popolazione europea con una manodopera schiava di origine europea, non tiene conto del fatto che lo sfruttamento della manodopera straniera in condizioni di violenta emarginazione, in Europa ben prima che in Italia, era stato alla base di gran parte dello sviluppo economico del continente ben prima che suonasse l’allarme per una presunta “invasione dei profughi” contro cui oggi l’Unione europea e i governi suoi complici stanno mobilitando una mole crescente di risorse finanziarie, legislative, militari, ma anche sociali e culturali.
LO SFRUTTAMENTO della manodopera resa “clandestina” dalla legge è un byproduct, un effetto secondario, ancorché gradito e ben utilizzato – senza di esso gran parte dell’agricoltura italiana, e non solo, scomparirebbe – di qualcosa di molto più profondo: il coinvolgimento della popolazione italiana, sia quella consenziente che quella contrariata, in una corsa verso l’affermazione di una propria “identità” e, conseguentemente, di una propria superiorità, da salvaguardare nei confronti di persone e popoli da respingere; cioè in una pratica dalle evidenti connotazioni razziste.
Il razzismo è un piano inclinato che inizia con manifestazioni quasi impercettibili nascoste nel linguaggio o in sorrisi e allusioni malevole, apparentemente innocue, ma lungo cui è sempre più facile scivolare, e in modi sempre più accelerati, verso le sue forme più estreme; ma da cui è sempre più difficile risalire per tornare indietro, come hanno dimostrato, prima ancora della Shoah e del Porrajmos, la conquista delle Americhe, il colonialismo e lo schiavismo, il genocidio degli Armeni ed altro ancora.
OGGI NON C’È PIÙ BISOGNO di ricorrere a pseudo enunciati scientifici di carattere biologico per giustificarlo; basta coltivare un autocompiacimento per la propria miseria spirituale, soprattutto se sostenuto da leggi, norme e regolamenti che condannano l’altro all’emarginazione, all’esclusione e a una povertà peggiore della nostra; poi si potrà anche inveire contro ricchi calciatori di colore negli stadi o ministre di origine africana su facebook (senza però scandalizzarsi se sceicchi arabi o tycoon cinesi si comprano mezzo paese, perché il razzismo odierno nasce soprattutto dal disprezzo e dalla paura della povertà).
Così, passo dopo passo, senza che neppure ce ne accorgiamo, le politiche di respingimento, ma che di criminalizzazione e di disumanizzazione di profughi e migranti messe in atto dai governi (dai governi, e non solo dalle destre; o dai governi perché non fanno che copiare e inseguire le “ricette” delle destre) ci trascinano verso forme di assuefazione, prima, e di più o meno inconsapevole coinvolgimento, poi, da cui poi è sempre più difficile uscire.
Perché poco per volta, diventa la “normalità”: quella che Liliana Segre, riferendosi all’epoca del fascismo, delle leggi razziali, delle deportazioni e della Shoah, chiama, mettendola sotto accusa e in primo piano, “indifferenza”.
I NOSTRI GOVERNI – O ALCUNI dei loro esponenti – sono perfettamente consapevoli di questo meccanismo: sanno che dai fatti compiuti è sempre più difficile tornare indietro e cambiare rotta; e per questo spingono l’acceleratore in direzione di politiche che, a dir loro, dovrebbero mettere fuori gioco le destre, perché le renderebbero superflue; e che invece le rendono sempre più forti e, alla fine vincenti.
Lungo quel piano inclinato siamo già andati, in tutta Europa – ma anche altrove – molto avanti. Basta pensare, da un lato, al linguaggio apertamente razzista ormai sdoganato da una certa parte politica, da TV e giornali e, conseguentemente, al bar; dall’altro alle politiche di respingimento promosse dall’Unione europea e dal nostro governo passando sopra alle più elementari forme di rispetto dei diritti della persona.
Quello a cui dobbiamo fare attenzione ora è solo cercare di non superare il punto di non ritorno, che è il punto in cui ciascuno si sente talmente solo e isolato da non ritenere più di poter reagire.
QUANDO SI RIFLETTE sull’indifferenza che ha accompagnato la persecuzione prima e lo sterminio, dopo degli ebrei durante il fascismo e il nazismo ci si chiede spesso perché di fronte a tanta mostruosità, nessuno, o meglio, ben pochi, abbiano trovato la forza e la capacità di reagire, mentre la maggioranza ha assistito indifferente a quello che succedeva sotto i suoi occhi.
La risposta, forse, è che non si trattava, e non si tratta, solo di cinismo, bensì soprattutto di un senso di impotenza che paralizza.
Bisognava forse pensarci – e provvedere prima – quando ancora c’era la possibilità di farlo. Prima quando? Gli storici non ce lo sanno dire; o hanno opinioni diverse rispetto alla resistibile ascesa del razzismo che ha accompagnato fin dal nascer fascismo e razzismo. Ma dobbiamo cominciare a chiedercelo noi, rispetto al tempo presente. Per non ritrovarci poi a dire e a pensare che ormai è troppo tardi.
il manifesto 2.2.18
È di Stato il revisionismo storico polacco
di Moni Ovadia
Il senato della Polonia ha approvato con larga maggioranza la legge 104 che, qualora firmata dal presidente della repubblica, Andrzej Duda, punirebbe penalmente, fino a tre anni di carcere chiunque sostenga complicità polacche nello sterminio nazista o neghi i crimini dei nazionalisti ucraini di Bandera contro i polacchi.
Il senato della repubblica polacca è dominato dal partito ultraconservatore Diritto e Giustizia (Pis) del leader Jaroslaw Kaczynski. La legge è evidentemente improntata ad una sorta di delirio revisionista storico.
Che da sempre, ma in particolare dall’89, dal crollo del «socialismo reale» in avanti si è sviluppato con crescente virulenza nei paesi dell’ex blocco sovietico orientale, ma non solo.
Ora, al di là della fattispecie della legge approvata in Polonia sarebbe interessante capire cosa il fenomeno culturale e politico rappresenti, quali ne siano le caratteristiche e cosa esso significhi nel contesto di un’Europa unita.
Questo revisionismo appartiene chiaramente alla sottocultura delle destre estreme, ultra nazionaliste e fascistoidi e, non di rado conseguentemente antisemite ma non necessariamente anti-israeliane.
Si origina nel concetto fondamentale di ontologica innocenza della propria gente. I colpevoli sono sempre gli altri (in questo caso gli ucraini, che vengono accusati di essere stati collaborazionisti dei nazisti. E i polacchi invece no?).
Ne consegue l’ assunto che i nostri morti sono santi, quelli degli altri no. In Italia, per esempio, questo sentiment ha preso la nota e frusta forma del «italiani brava gente».
Il revisionismo revanscista si caratterizza per un furioso anticomunismo viscerale per il quale chiunque sia di sinistra o supposto tale è come se fosse Lenin in persona.
Il fascismo, in forma di nostalgia per i bei tempi andati o per vocazione mai estinta è sempre presente almeno sottotraccia. Ma appaiono sotto forme e maschere «nuove», come ha denunciato l’Appello presentato ieri al Museo della Liberazione di Roma.
I «mai morti» della passione nera riemergono in questa temperie sia per la crisi sociale profonda che rischia di non trovare risposte a sinistra, sia perché il processo di defascistizzazione dell’Europa non è mai stato realmente e autenticamente voluto. In primis anche per volontà dei governi degli Stati uniti di cui l’Europa occidentale è sempre stata fedele e servile alleata.
E dopo il crollo del muro di Berlino anche quella orientale si è più che allineata e ben prima di entrare nell’Ue, è passata con entusiasmo da neofita sotto l’ombrello della Nato che irresponsabilmente si allarga sempre più ad Est.
Questa alleanza militare – si illudeva qualcuno – avrebbe via via perso funzione con la fine della Guerra fredda, invece si è rinforzata e attizza nuovi conflitti (Georgia, Ucraina ecc…) perché la guerra fredda è stata sempre più un pretesto per affermare l’egemonia assoluta di un unica superpotenza occidental-atlantica.
I paesi dell’Est-Europa del blocco di Vysegrad, i più entusiasti e partecipi di questo assetto geopolitico, rappresentano ormai una nuova frattura, tra le tante, dell’Unione europea, erigendo muri e srotolando nuove matasse di fili spinati contro la disperazione dei migranti, ma anche contro lo stato di diritto, sul controllo delle libertà interne, della stampa e perfino della magistratura.
E l’Unione europea che fa?
Nano politico, privo di un orizzonte unico nel campo della politica estera, incapace di difendere i propri principi è stato a guardare mentre morso a morso, proprio gli ultimi arrivati nell’Unione, sbranavano l’idea democratica e inclusiva fondativa, e insieme il senso stesso di Europa Unita: la ripulsa di ogni nazionalismo, che per sua natura cerca nemici da dare in pasto ai propri sostenitori e così si alimenta dell’odio per l’altro e per le minoranze interne sempre sospettate di essere quinta colonna dello straniero.
Ovviamente per dare autorevolezza alla propria chiamata alle armi la destra nazional-revisionista deve attaccare anche i propri omologhi ultranazionalisti di altri paesi e questo spiega l’altro articolo di legge, punitivo dei nostalgici di Bandera, il filo-nazista ucraino durante la Seconda guerra mondiale.
In tutto ciò la posizione più ambigua e debole mi pare purtroppo quella che viene da Israele.
Basta ascoltare il premier israeliano Netanyahu, il quale essendo ultranazionalista, revisionista – è arrivato ad incolpare i palestinesi per la Shoah – reazionario, razzista e segregazionista (vedi il suo governo in carica), accusa ora di negazionismo la Polonia, che in realtà è stata finora ed è la sua migliore alleata, come il suo interlocutore Kaczynski e come del resto il fraterno sodale ungherese Viktor Orbán.
La Stampa 2.2.18
Se il potere vuole scrivere la Storia
di Giovanni Sabbatucci
La memoria storica di un popolo è di per sé un’entità impalpabile e difficile da maneggiare, fatta com’è della somma di infinite memorie individuali non sempre riducibili a un’unica sintesi. Diventa materia pesante e scivolosa quando il potere politico pretende di ricostruirla ex novo, di depurarla d’autorità dalle pagine oscure o addirittura di imporne una versione ufficiale. È quanto purtroppo rischia di accadere, anzi sta già accadendo, nella Polonia di oggi: dove il Senato ha approvato a larga maggioranza una legge che, se definitivamente approvata, vieterebbe a chiunque, pena la reclusione fino a tre anni, di stabilire qualsiasi collegamento tra la nazione polacca e la tragedia della Shoah che si consumò, in parte rilevante, nel suo attuale territorio.
Ora è vero che la Polonia ha combattuto dall’inizio alla fine la guerra dalla parte giusta, e in quella guerra ha subito, in rapporto alla popolazione, più perdite di qualsiasi altro Paese (sei milioni circa, di cui la metà ebrei); che fra il ’39 e il ’45 è stata cancellata come Stato e soggetta a una doppia e crudelissima occupazione (tedesca e sovietica); che visse queste tragedie dopo quasi due secoli di eroismi e di tragedie, di spartizioni, aggressioni e oppressioni di ogni genere (che sarebbero state il preludio a un altro e mezzo secolo di servitù). E hanno ragione coloro che si offendono quando sentono parlare di Auschwitz come di «un campo di sterminio polacco». Ma l’orrore di queste vicende non può giustificare la cancellazione di una parte della storia: una storia che pure esiste e pesa e che riguarda proprio le colpe dei polacchi. Non mi riferisco solo all’antisemitismo diffuso e radicato, ma anche e soprattutto all’attiva partecipazione a pogrom e massacri avvenuti nel corso dell’occupazione tedesca (a Jedwabne, nel luglio del 1941, a invasione dell’Urss appena iniziata, furono centinaia gli ebrei massacrati da «volonterosi carnefici» polacchi) e, quel che è più grave, anche dopo: era il luglio del 1946, la guerra era finita da più di un anno quando, a Kielce, circa quaranta ebrei furono uccisi con armi rudimentali dai loro vicini e conoscenti sulla base della falsa notizia di un infanticidio. Né si può dimenticare che, fra i regimi comunisti dell’Europa dell’Est, quello polacco fu, negli Anni 60, l’unico ad annoverare nei suoi vertici una corrente organizzata - i «partigiani» del generale Moczar - in cui l’antisemitismo aveva libero corso.
Certo, queste e altre analoghe sono vicende «minori», per quanto orribili, rispetto al contesto generale entro cui si consumarono. Ma anch’esse contribuiscono a formare quel quadro: occultandole o censurandole non si rende un buon servizio alla conoscenza storica e si fa ancora una volta torto alle vittime della Shoah, sottraendo arbitrariamente a un metaforico banco degli imputati una parte, seppur minoritaria, dei loro carnefici: in questo senso, parlare di negazionismo dall’alto non è per nulla fuori luogo.
Qualcuno potrebbe poi obiettare che un certo grado di manipolazione, o di reinvenzione della memoria, è tipico di tutti i processi di costruzione nazionale. Ovunque le autorità politiche e gli apparati pedagogici tendono a valorizzare i momenti alti della storia della loro nazione, a coltivarne le glorie e a custodirne i miti fondativi. Vero, ma c’è una differenza sostanziale. Nei Paesi liberi questi temi sono oggetto di continuo, e spesso aspro, dibattito. Anzi, la messa in discussione dei miti e la rivisitazione delle pagine buie costituiscono, quali che siano i loro esiti, una premessa e un passaggio necessario della riflessione storiografica e poi della costruzione di una memoria condivisa (che non significa imposta da una legge). Per fare solo qualche esempio, gli storici francesi hanno studiato i massacri in Vandea e, sia pur con ritardo, il regime di Vichy, gli americani gli orrori della guerra di secessione; i tedeschi hanno avviato negli Anni 80 la discussione sui crimini nazisti e sul «passato che non passa», gli inglesi hanno affrontato senza reticenze la storia del colonialismo; gli italiani non hanno mai smesso di discutere sulla «conquista regia» e sui limiti e le colpe del movimento risorgimentale nemmeno quando celebravano il 150° anniversario dell’unità; e infine - è storia di questi giorni - hanno fatto solennemente ammenda, per bocca del capo dello Stato, del contributo fornito dal regime fascista alla persecuzione degli ebrei fra il 1938 e il 1945. Viene allora da pensare che anche la capacità di accettare il proprio passato, e di discuterne in libertà senza eludere i temi scabrosi, rappresenti un discrimine significativo per misurare la qualità di una democrazia.
Corriere 2.2.18
Nessuna «verità di Stato» può alterare la realtà dei fatti
di Giovanni Belardelli
Nessuna «verità di Stato» può alterare la realtà dei fatti
di Giovanni Belardelli
È stata appena approvata in Polonia una legge che vieta, pena una sanzione che può arrivare fino a tre anni di carcere, di attribuire ai polacchi qualunque responsabilità nei crimini contro l’umanità commessi dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. La legge ha suscitato le proteste del governo israeliano che vi ha visto il tentativo di negare ogni responsabilità di quel Paese nello sterminio degli ebrei: ad esempio in tutto ciò che riguardava i rifornimenti e la manutenzione dei campi che, come Auschwitz, si trovavano in territorio polacco. In Italia questa legge non ha suscitato particolare attenzione, benché abbia implicazioni molto rilevanti, che vanno al di là della questione riguardante la presenza, nella società polacca, di comportamenti antisemiti durante la guerra, e non soltanto allora. Presenza, questa, innegabile indipendentemente da ciò che sostenga o meno la nuova legge polacca. Uno storico americano, Jan Gross, dedicò anni fa un libro ( I carnefici della porta accanto , Mondadori) all’eccidio di ebrei compiuto in un villaggio polacco dai loro «vicini di casa» non ebrei. Ne ha scritto poi un altro sul più sanguinoso pogrom in tempo di pace nell’Europa del secolo XX, quello avvenuto nella cittadina polacca di Kielce il 4 luglio 1946, che testimoniava il permanere di sentimenti antisemiti anche nella Polonia diventata comunista.
Ma la legge voluta in Polonia dal partito nazional-conservatore al governo, Diritto e Giustizia, dovrebbe essere criticata anche, e direi soprattutto, per un altro motivo d’ordine più generale. Questa legge infatti conferma quanto sia sbagliato in sé — cioè a prescindere dalla tesi che si vuole vietare o prescrivere — varare norme che fissino una sorta di «verità storica» di Stato. Qualcuno potrebbe osservare che le leggi sul negazionismo, che colpiscono chi nega la realtà storica della Shoah, sanzionano una tesi manifestamente infondata; mentre nel caso della legge polacca è vero e documentato proprio ciò che si proibisce di sostenere, il rapporto tra la popolazione della Polonia e lo sterminio degli ebrei. È un’obiezione sbagliata per due motivi. In primo luogo perché sottende l’idea che la libertà di espressione debba essere garantita, sì, purché non la si usi poi per sostenere tesi chiaramente erronee. Ma una simile concezione della libertà di opinione, pur molto diffusa, si adatta più alla Russia di Putin che a Paesi come l’Italia, la Germania o la Francia. In una democrazia, infatti, la libertà di espressione si misura proprio sulla possibilità di sostenere tesi che la maggioranza ritiene sbagliate (e naturalmente sulla facoltà di criticarle anche duramente).
In secondo luogo, cosa o chi può mai certificare che una tesi storica è infondata oppure no? La nostra rappresentazione del passato — sempre provvisoria e in evoluzione — dovrebbe prendere forma attraverso una libera ricerca e una libera discussione; al contrario, se ci si mette sulla strada di una versione ufficiale sancita per legge, c’è poco da fare: ci si deve affidare alla maggioranza parlamentare che approva le leggi, accettando dunque che in Paesi diversi si sanzionino (o impongano) tesi diverse, anche manifestamente (per noi) assurde. Oltre al caso polacco, pensiamo a quello della Repubblica Ceca dove non solo è vietato negare i crimini del regime comunista ma essi devono essere obbligatoriamente definiti quali «crimini contro l’umanità», cosa a dir poco discutibile.
È stato soprattutto in Francia che sono state approvate varie «lois mémorielles», leggi sul passato che sanzionavano il negazionismo della Shoah o del genocidio degli armeni, che obbligavano a definire lo schiavismo un crimine contro l’umanità oppure, qualche anno dopo, chiedevano che i programmi scolastici riconoscessero «il ruolo positivo della presenza francese oltremare». Non a caso fu proprio in quel Paese che venne fondata da alcuni studiosi un’associazione in difesa della «libertà per la storia», il cui manifesto iniziava con queste parole: «La storia non è una religione. Lo storico non accetta alcun dogma, né rispetta alcun divieto, né conosce tabù. Lo storico può essere disturbante». Era il 2005 e da allora molti Stati, tra i quali l’Italia, si sono dotati di leggi — sul negazionismo e non solo — che fissano una versione ufficiale del passato, nel sostanziale disinteresse delle opinioni pubbliche e in barba alle proteste degli storici. C’è solo da sperare che la legge polacca, mostrando a quali esiti si possa arrivare una volta che venga accettato il principio di una verità di Stato, ci induca a riflettere sulla connessione tra ricerca storica e libertà.
Repubblica 2.2.18
La legge sulla Shoah
L’immaginario antisemita
di Wlodek Goldkorn
Era l’anno 1967, quando le allora autorità comuniste polacche scoprirono un fenomeno nuovo: lo chiamarono “ antipolonismo”. Il significato di quella scoperta era semplice nonostante la retorica fosse un po’ contorta. L’antipolonismo era l’espressione e parte di un presunto complotto, tutto ebraico, ma con la partecipazione delle potenze ostili, ai danni della nazione polacca. La legge, appena approvata dal Parlamento di Varsavia, e che prevede condanne penali per chi facesse uso dell’espressione “ campi polacchi”, in riferimento ai lager nazisti, trae le sue origini dalla campagna antisemita, perché di questo si trattava, che ebbe inizio cinquantun anni fa in concomitanza con la Guerra dei sei giorni tra Israele e i suoi vicini arabi, e che culminò nel 1968 con l’espulsione dal Paese di quasi tutti gli ebrei rimasti fino ad allora.
Così mentre sui giornali di regime si moltiplicavano le storie e le analisi sull’alleanza presunta e immaginaria tra Israele, i sionisti e i “ neonazisti tedeschi con lo scopo di privare la Polonia dei suoi territori occidentali”, delle città ex tedesche come Stettino e Breslavia, e mentre venivano propinate narrazioni su come i poliziotti ebrei collaborassero con l’occupante nazista nei ghetti, affiorò anche la storia dell’antipolonismo, appunto. In parole povere: c’erano in giro ebrei influenti al servizio dei nemici di Varsavia che accusavano i polacchi di antisemitismo e di aver consegnato i loro concittadini, ebrei appunto, nelle mani dei tedeschi durante la Seconda guerra mondiale.
La propaganda di cinquant’anni fa esigeva invece che si raccontassero solo storie di polacchi che avevano aiutato gli ebrei. Per la verità, c’erano stati molti eroi che avevano sacrificato o avevano rischiato la vita per salvare gli ebrei, e basta una visita a Yad Vashem a Gerusalemme, per accorgersi quanto numerosi siano stati i polacchi “Giusti tra le nazioni”. Oggi il punto è questo: il governo e il Parlamento polacco, dominati da Jaroslaw Kaczynski, presidente del Pis (Diritto e Giustizia), sin dal loro insediamento al potere avevano detto che avrebbero promosso “ una politica storica”. Politica storica significa l’esaltazione delle virtù nazionali ma anche un tentativo di controllo della narrazione della storia da parte della politica. Ora, la questione dell’antisemitismo in Polonia non è marginale (per usare un equivoco). Va dato atto a Kaczynski di non essere personalmente antisemita e di non aver mai usato esplicitamente una retorica ostile agli ebrei così come non è antisemita il presidente della Repubblica Andrzej Duda. Ma il fatto è che da quando il Paese ha conquistato la libertà il principale tema della discussione pubblica sono i crimini perpetrati dai polacchi ai danni degli ebrei sotto l’occupazione nazista: dai pogrom finiti con gente bruciata viva, alla prassi di denunciare i concittadini fuggiti dai ghetti. Era ed è una discussione che portava e porta alla messa in questione dell’identità polacca, intesa come appartenenza alla nazione cattolica, etnicamente omogenea, generosa con le minoranze (ebrei) e vittima dei vicini (russi e tedeschi).
In questi mesi il potere polacco attraverso la televisione di Stato e i giornali amici sta scatenando una campagna di odio nei confronti dell’Europa, della Germania, dei traditori interni al servizio di Berlino. E in questo contesto si inserisce la legge sui campi di sterminio per chi conosce le regole (non tanto) segrete della retorica polacca è ovvio che si tratta di un provvedimento in fin dei conti xenofobo e che si richiama all’immaginario antisemita. Lo ha capito perfino Benjamin Netanyahu, di solito amico delle destre centroeuropee.
Che poi, i campi di sterminio fossero tedeschi in terra polacca e non polacchi è un’altra storia.
Corriere 2.2.18
«I Lager erano nazisti Ma la Polonia vuole fuggire dal suo passato»
Lo storico Pezzetti: responsabilità collettive innegabili
di Maria Serena Natale
La norma approvata dal Senato di Varsavia per contrastare qualsiasi sovrapposizione tra la nazione polacca e la responsabilità storica nello sterminio degli ebrei ha risollevato un dibattito che intreccia senso d’identità di un Paese spesso in guerra con il passato, rapporti di forza politici, complicità istituzionali e legge morale. Dibattito inconciliabile, per stratificazioni e complessità, con il rigore semplificatorio di un testo che prevede fino a tre anni di carcere per chiunque si discosti dalla verità ufficiale definendo «campi polacchi» i Lager nazisti. «Che la Shoah sia stata progettata e realizzata dai nazisti è una verità indiscutibile — dice al Corriere lo storico Marcello Pezzetti, tra i massimi esperti dell’Olocausto —. Ma trasformare in reato un’espressione storicamente infondata come “campi polacchi” è inaccettabile. Una manovra che rivela la volontà di prendere le distanze dal passato annullandolo, una fuga».
L’obiettivo della nuova legge del governo nazional-conservatore è respingere l’accusa di collaborazionismo e complicità con il regime nazista rivolta a un’intera popolazione.
«È innegabile la responsabilità di una società profondamente antisemita, come testimoniano fatti atroci, dal pogrom del villaggio di Jedwabne nel 1941 all’omicidio dell’unico sopravvissuto del campo di Belzec, ucciso a Lublino dopo la fine della guerra. Tuttavia sarebbe sbagliato presentare la Polonia come un’enclave di antisemitismo nell’Europa del tempo. Nel 1938 le posizioni di Varsavia erano assai vicine a quelle di Berlino, ma alla fine degli anni Trenta anche Slovacchia, Italia, Romania, Ungheria avevano approvato legislazioni antiebraiche. In tutto il Centro-Est il pregiudizio antiebraico era vivo e forte, ben prima della Shoah».
La società svolse un ruolo più attivo nelle attività di delazione e deportazione?
«Ci furono i delatori, che taglieggiavano gli ebrei e li vendevano ai nazisti. E i Giusti, come Irena Sendler che salvò centinaia di bambini del ghetto di Varsavia. Ricordiamo che in Polonia chiunque aiutasse un ebreo era messo a morte con l’intera famiglia. E i polacchi non lavoravano nei campi: tra le guardie c’erano polacchi-tedeschi, assimilabili ai tedeschi, e ucraini».
Come interagivano la comunità ebraica e la maggioranza della popolazione?
«Prima dello sterminio gli ebrei erano 3.350.000, pari a circa il 10% della popolazione, il 30% di quella urbana. Una presenza vivacissima nelle professioni e nell’impresa. Lo stesso sviluppo della rete ferroviaria intorno ad Auschwitz era frutto dell’industrializzazione alla quale gli ebrei avevano dato slancio ai primi del Novecento. Una popolazione però — e questo è il punto centrale — che è sempre stata considerata altro da sé, una nazione nella nazione dalla quale prima o poi separarsi. Percezione che si traduce nell’esclusione sistematica degli ebrei dalle amministrazioni pubbliche, nella sostanziale assenza di matrimoni misti — che invece in Germania sono la norma —. Per questo, quando cominciano i rastrellamenti, gli ebrei formano già un blocco separato, facilmente identificabile».
Dinamiche che s’innestano su una storia nazionale segnata da conquiste e spartizioni tra potenze.
«Una storia che amplifica la ricerca di fattori interni destabilizzanti. Una figura emblematica di questi complessi rapporti è Maximilian Kolbe, il prete ucciso ad Auschwitz e santificato da Giovanni Paolo II, espressione di ambienti dell’opposizione al nazismo che erano anche anticomunisti, nazionalisti, spesso antisemiti. Se la grande mistica nazionale identifica l’essere polacco con il cattolicesimo, l’ebreo è subito il diverso. Sullo sfondo, la questione mai risolta della restituzione dei beni confiscati, tabù per le forze politiche post-comuniste. Questa memoria divisa della Shoah sta alla base dello straziante amore-odio che lega ogni sopravvissuto all’Olocausto a questa terra».
Corriere 2.2.18
«Ai tedeschi non si chiedeva ragione di ciò che facevano»
di Marcel Reich-Ranicki
Marcel Reich-Ranicki (1920-2013) è stato il più importante critico letterario tedesco del dopoguerra. Nato a Wloclawek, in Polonia, è a Varsavia nell’autunno 1939, quando la Wehrmacht entra in città. Avrà un ruolo importante nella resistenza del ghetto. Nella sua autobiografia, «La mia vita» (Sellerio), così racconta le umiliazioni inflitte agli ebrei, mentre i polacchi distolgono lo sguardo.
«Qualunque tedesco che indossasse una divisa e avesse un’arma poteva fare di un ebreo ciò che voleva, costringerlo a cantare, a ballare, a farsela addosso, a cadere in ginocchio implorando di aver salva la vita. Poteva ordinare a un’ebrea di spogliarsi, di pulire il selciato con le mutande e poi urinare davanti a tutti. Ai tedeschi che si permettevano simili scherzi nessuno guastava il divertimento, nessuno chiedeva loro ragione di ciò che facevano. Così potemmo vedere di cosa sono capaci degli esseri umani, quando viene concesso loro un potere illimitato su altri esseri umani».
Il Fatto 2.2.18
“I volenterosi carnefic fai-da-te non attesero gli ordini dei nazisti”
di Stefano Citati
Per non provocare i tedeschi, gli assassini non usavano armi da fuoco, ma oggetti a portata di mano: pali, bastoni chiodati, baionette, accette o seghe per il legname. A Wasosz utilizzano i pesi della stazione ferroviaria per spaccare le teste. La bestialità delle uccisioni deriva dalla natura stessa degli strumenti di omicidio delle tante vittime. Si arriva agli annegamenti in laghi e canali di drenaggio. Gli assassini affermano anche che se gli ebrei sono uccisi per strada, i loro corpi giacciono, marciscono e devono essere rimossi, perché potrebbe scoppiare un’epidemia. A Radziłów, l’infermiere M. ordina di ricoprire i cadaveri di ebrei con la calce viva per prevenire il diffondersi di malattie. Fuori città si uccide nei fossati anticarro, nelle trincee, nelle foreste. A Radziłów, i locali usano una ghiacciaia – un ‘frigorifero’ pre-bellico, una fossa profonda nel terreno – dove trasportavano e uccidevano ebrei che non erano stati in grado di bruciare prima nella stalla. I bambini ebrei catturati venivano uccisi sull’orlo della ghiacciaia; uno dei poliziotti usò anche un’arma da fuoco, sparando su dieci bambini messi in fila, per risparmiare i proiettili. Una parte era solo ferita, quindi venivano sepolti vivi. Il metodo più efficace per uccidere in modo massiccio, tuttavia, era il fuoco, si ammassava gli ebrei nei fienili e si dava fuoco”.
Questo e molto altro è riportato in un libro polacco, pubblicato nel 2015: Le città della morte – Pogrom degli ebrei fatti dai vicini di casa e racconta crimini commessi in parte nel periodo tra la ritirata dei sovietici dalla Polonia e l’arrivo dei nazisti. L’autore, Mirosław Tryczyk, ha raccolto documenti ufficiali depositati nei tribunali alla fine della Seconda guerra mondiale, quando cause furono intentate per i crimini legati allo sterminio degli ebrei (dei 6 milioni di ebrei che è stato calcolato furono trucidati nei campi di sterminio del III Reich, 3 milioni vivevano in Polonia, ndr). Katarzyna Zmijska, che sta traducendo il libro in italiano, spiega come nell’attuale clima di “catto-fascismo” che incombe sulla Polonia, questa memoria sia divenuta sempre più difficile da conservare.
il manifesto 2.2.18
La Polonia approva legge sull’Olocausto. Protesta di Israele
Polonia. Per chi utilizzerà l’espressione «Campi della morte polacchi» prvisti fino a tre anni di carcere. Critiche anche da Washington
di Giuseppe Sedia
VARSAVIA Tolleranza zero e fino a tre anni di carcere per chi utilizza espressioni come «Campi della morte polacchi». Il Senat, la camera alta del parlamento polacco, ha approvato senza modifiche un emendamento alla legge sull’Istituto nazionale di memoria (Ipn), che ha scatenato un putiferio internazionale.
CI SONO LE CRITICHE di Israele e Stati uniti in testa. Adesso manca soltanto la firma del presidente polacco Andrzej Duda. Il testo approvato a Varsavia, grazie ai voti della maggioranza della destra populista di Diritto e giustizia (PiS), non mira solo a condannare chi attribuisce alla Polonia la corresponsabilità della Shoah ma anche coloro che «deliberatamente ridurranno la responsabilità dei veri colpevoli di questi crimini». «Questa legge non ha senso. Mi oppongo fermamente: la storia non può essere cambiata ed è proibito negare la shoah», ha commentato il premier israeliano Benjamin Netanyahu.
Anche il dipartimento di Stato Usa ha ammonito il PiS: «Incoraggiamo a riconsiderare il provvedimento alla luce del suo potenziale impatto sulla libertà di espressione e sulla possibilità di mantenere una partnership efficace con gli Usa». Intanto la rappresaglia diplomatica di Tel Aviv è dietro l’angolo: grazie a un accordo trasversale tra i vari partiti, i deputati della Knesset con 61 voti su 120 a favore hanno iniziato i lavori su una proposta di legge mirante a criminalizzare il negazionismo.
A NULLA SONO VALSI i colloqui tra la Polonia e Israele cominciati a inizio settimana dopo che la legge era stata approvata venerdì scorso dal Sejm, la camera bassa del parlamento polacco. «Questa legge apre alla possibilità di punire le testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto», ha commentato l’ambasciatrice israeliana a Varsavia Anna Azari, dopo il nie di Varsavia ad ogni forma di dialogo. In una nota ufficiale il ministero della giustizia polacco, ha lasciato intendere che Israele non dovrebbe sentirsi sorpreso per l’iniziativa polacca. «Questa legge non inibirà la libertà di espressione», ha sottolineato il premier polacco Mateusz Morawiecki. In effetti il testo della legge prevede che storici e artisti resteranno al riparo da ogni condanna.
NON SONO PREVISTE invece eccezioni per le iniziative di divulgazione storica dalla parte dei media o di altri soggetti. Alcuni artisti, intelletuali e politici, tra i quali la cineasta Agnieszka Holland, l’ex presidente Aleksander Kwasniewski e l’ex ministro degli esteri Radoslaw Sikorski, hanno fatto fronte comune firmando un appello per eliminare con un emendamento la criminalizzazione delle espressioni offensive per la Polonia. È intervenuto anche il vice-presidente della Commissione europea, Frans Timmermans che ha ancora un conto aperto con il governo del PiS per il rischio di violazione grave allo stato di diritto in Polonia: «Tutti i paesi che erano sotto occupazione nazista hanno avuto degli eroi che hanno resistito, ma in tutti questi paesi c’erano anche collaborazionisti. Questa è la realtà con cui confrontarsi».
L’EMENDAMENTO APPROVATO a Varsavia riguarda anche gli altri «crimini contro l’umanità, contro la pace nonché altri crimini durante la guerra». Ogni tentativo di attribuire un delitto o un massacro bellico perpetrato o compiuto con la complicità o presunta tale dei polacchi rischia così di rientrare nell’ambito di applicazione della legge. Il provvedimento mira anche a criminalizzare ogni posizione negazionista nei confronti delle «azioni commesse dai nazionalisti ucraini dal 1925 al 1950, caratterizzate dall’uso della forza, del terrore o di altre forme di violazione dei diritti umani contro la popolazione polacca». Le tensioni diplomatiche tra il governo polacco e israeliano avrebbero potuto subire un’ulteriore escalation mercoledì pomeriggio a causa delle manifestazioni annunciate nella capitale polacca da diverse sigle della destra radicale e ultranazionalista.
ALLA FINE PER EVITARE di gettare ulteriore benzina al fuoco, il voivodato della Masovia (unità amministrativa il cui capoluogo è Varsavia ndr) ha negato il suo via libera alle proteste e ai picchetti di fronte all’ambasciata israeliana che erano stati organizzati da alcuni gruppi come l’Onr (Oboz Narodowo-Radykalny).
il manifesto 2.2.18
Legge sull’Olocausto, lo sdegno di Israele
Polonia. Il mondo politico israeliano unanime nel condannare quella che descrive come una «falsificazione della storia» attuata da Varsavia. Ma lo scrittore Etgar Keret esorta a permettere un libero dibattito.
«Non lasceremo che questa decisione passi senza reazioni. L’antisemitismo polacco ha alimentato la Shoah». È stato perentorio il ministro israeliano Yoav Gallant nel bocciare la legge sull’Olocausto approvata dal Senato polacco.
Ieri per tutto il giorno un’ondata di sdegno ha attraversato il mondo politico israeliano, unanime nel descrivere la mossa della Polonia come una «falsificazione della storia» volta a cancellare le responsabilità polacche nello sterminio degli ebrei attuato dai nazisti.
L’ex ministra degli esteri Tzipi Livni ha accusato Varsavia di «un doppio sputo in faccia ad Israele, sia come nazione del popolo ebraico che contro il primo ministro Netanyahu che aveva detto di aver raggiunto un accordo con i polacchi». Livni ha perciò chiesto al governo di «rispondere con fermezza e di porre in agenda la documentazione dei crimini dei polacchi durante l’Olocausto».
Israele assicura che non resterà a guardare e alcuni deputati esortano la Knesset ad approvate leggi sulla Shoah di contrasto a quella votata in Polonia.
Non manca chi invita ad andare oltre la rabbia e lo sdegno.
Secondo lo scrittore Etgar Keret si deve permettere un libero dibattito sulla storia. Israele, ha ricordato Keret, con la legge sulla Nabka non permette alla minoranza araba di considerare l’anniversario della nascita di Israele come un giorno tragico per il popolo palestinese.
il manifesto 2.2.18
Lorde non suonerà a Tel Aviv, tre ragazze fanno causa
Musica. Sotto accusa Justine Sachs e Nadia Abu-Shanab, due attiviste contro l'occupazione della Palestina che avevano scritto un appello alla cantautrice perché non si esibisse in Israele
di Giovanna Branca
L’accusa è di aver arrecato un «danno morale». Le accusate due attiviste neozelandesi contro l’occupazione della Palestina, ree di aver scritto una lettera aperta alla cantautrice Lorde per chiederle di cancellare le tappe del suo tour in Israele. Tutto è cominciato lo scorso dicembre, quando Justine Sachs – membro di un gruppo ebraico neozelandese contro l’occupazione – e Nadia Abu-Shanab – di origini palestinesi – hanno firmato un appello chiedendo alla cantante di riconsiderare la sua decisione di esibirsi in Israele: «Le settimane che hanno preceduto il tuo annuncio – scrivono a proposito delle date del tour – sono state un momento difficile per i palestinesi. In particolare dopo la decisione dell’amministrazione Trump di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme».
Le due attiviste citano anche l’ingiusta incarcerazione della sedicenne Ahed Tamimi, e aggiungono: «In questo contesto, una performance in Israele manda il messaggio sbagliato. Un concerto a Tel Aviv verrebbe visto come un endorsement alle politiche del governo israeliano».
All’appello, Lorde aveva risposto su twitter ringraziando le due attiviste e dicendo che avrebbe considerato le loro parole. Una settimana dopo, le date israeliane del tour sono state cancellate. È di ieri invece la notizia che tre teenager israeliane fan della popstar – rappresentate da uno studio legale del Paese – hanno intentato a Sachs e Abu-Shanab una causa per danni per l’equivalente di circa 10.000 euro.
Probabilmente si tratta del primo procedimento legale in cui si ricorre a una legge del 2011 che consente proprio di intentare delle cause civili a chi chiede il boicottaggio di Israele. Come osservato dalla stessa avvocata delle tre ragazze, Nitsana Darshan-Leitner, è certamente la prima volta in cui si istituisce un nesso causale tra l’appello al boicottaggio e il «danno». «Queste ragazze sono idealiste – ha detto – entreranno nell’esercito l’anno prossimo, e si sentono disonorate e ferite dalle accuse rivolte dalle attiviste neozelandesi a Israele. Vogliono che si sappia che chi boicotta Israele o ne chiede il boicottaggio sarà considerato responsabile e dovrà pagare».
In un comunicato, Sachs e Abu-Shanab hanno accusato il governo israeliano di voler mettere a tacere le voci critiche. «Invece che impaurirci, queste tecniche intimidatorie ci rendono più forti».
il manifesto 2.2.18
Poroshenko contro Varsavia ma i «banderisti» sono i suoi «vigilantes»
Ucraina. Il nuovo «Corpo Nazionale» di Kiev è composto da ex-membri del battaglione neofascista Azov
di Yurii Colombo
MOSCA Ieri il senato polacco ha approvato in via definitiva la «Legge anti-Bandera» come l’ha rinominata la stampa; il provvedimento prevede condanne fino a tre anni di reclusione per chi nega le stragi in Polonia dell’esercito nazionale ucraino diretto da Stepan Bandera durante l’ultimo conflitto mondiale.
STEPAN BANDERA e il suo esercito insurrezionale ucraino collaborarono con i nazisti e nei territori polacchi da loro controllati, si macchiarono di eccidi e pulizie etniche che portarono alla morte di oltre 10mila persone. Dopo l’ascesa di Petr Poroshenko al potere in Ucraina si è assistito a un recupero del leader fascista a cui sono state dedicate strade nelle città del paese. Il 14 ottobre, data di fondazione del suo esercito, è diventata festa nazionale.
A POCHE ORE DI DISTANZA il presidente ucraino ha reagito alla decisione polacca con una dichiarazione in cui afferma di essere «profondamente preoccupato per la decisione del parlamento polacco». Ma avendo fatto richiesta di adesione all’Ue, Poroshenko ha invitato la Polonia «a ricordare la nostra vittoria comune (nella Seconda Guerra Mondiale ndr) e la lotta contro i regimi totalitari»; ha poi aggiunto – a scanso di equivoci sulle sue reali intenzioni – che la “verità storica esige un dialogo e un confronto aperti. E le valutazioni contenute nella decisione polacca sono assolutamente non obiettive e categoricamente inaccettabili». Un «dialogo e un confronto aperti« di cui si vedono ben poche tracce proprio nel suo paese.
Che Poroshenko non voglia fare marcia indietro sul recupero del nazionalismo fascista al fine di costruire i «miti fondatori» della nuova Ucraina militarista è stato dimostrato dal fatto che il 28 gennaio, dopo aver marciato inquadrati militarmente per le vie del centro di Kiev a volto coperto, 600 giovani membri del partito di estrema destra del «Corpo nazionale» hanno prestato in Piazza Maidan «giuramento di lealtà agli ucraini».
QUESTI «VIGILANTES» sono stati inseriti ufficialmente dal ministero degli interni tra i reparti della polizia ucraina per intervenire «dove le autorità non possono o non vogliono arrivare» ha dichiarato a Radio Hromadske il loro leader Roman Chernyshov. Il corpo opererebbe per «mantenere l’ordine pubblico» nelle città e ha come motto «Non abbiamo paura di usare la forza per imporre l’ordine ucraino per le strade!»
Queste formazioni sono già attive da mesi in alcune città ucraine come Odessa. Zaparoze e Cernigov. Il nuovo «Corpo nazionale» è composto principalmente da ex-membri del battaglione Azov, una struttura militare neofascista che si richiama alle gesta proprio di Stepan Bandera e si è già distinto nel teatro di guerra del Donbass per efferatezza e violenze contro la popolazione civile. In un rapporto pubblicato dall’Alto Commissariato delle nazioni unite per i diritti umani si afferma che il battaglione «commette regolarmente crimini di guerra: saccheggio, pestaggio di civili, tortura, violenza sessuale».
«LA CONNIVENZA tra strutture dello Stato e formazioni di estrema destra non avrebbe potuto essere dimostrata più evidentemente» sostiene Volodomyr Ishchenko professore di Sociologia di Kiev, che da anni studia l’evoluzione dei gruppi neofascisti nel paese. «Esiste un’emergenza democratica in Ucraina su cui l’Europa non può continuare a tenere gli occhi chiusi».
Il video dell’«evento» del 28 gennaio postato sui social-media è diventato subito virale, creando più di una preoccupazione. Le organizzazioni democratiche e dei diritti umani ucraine hanno sollecitato il ministro degli interni Ivan Varchenko a chiarire il ruolo di questo gruppo, visto che «la legislazione non consente a organizzazioni civiche di tutelare l’ordine pubblico». Una risposta dal diretto interessato, però, non è ancora arrivata.
il manifesto 2.2.18
«Vietare la presentazione di liste legate ai neofascisti»
di Carlo Lania
Per l’occasione si potrebbe rispolverare un vecchio slogan usato dai Radicali negli anni ’80: «Fermali con una firma». Chi va fermato è l’arcipelago di gruppi e grupposcoli di estrema destra che sotto una miriade di sigle – alcune più conosciute, altre meno – da troppo tempo si sono appropriati della scena e della strade italiane. A volte appendendo uno striscione inneggiante al fascismo, altre volte, purtroppo la maggioranza, con aggressioni contro stranieri, militanti di sinistra o semplici cittadini finiti nel mirino solo perché aiutano i migranti, come dimostra l’irruzione compiuta lo scorso novembre dal Veneto fronte skinhead nella sede dell’associazione «Como senza frontiere». Ma anche dando vita a una sorta di welfare, distribuendo cibo e vestiti «solo agli italiani». «Casapound e Forza Nuova esercitano esplicitamente un presunto compito di vicinanza alla popolazione che in realtà è un modo di instillare paura, proporre l’idea della fine delle libertà, della caccia di chi è diverso da te», spiega Susanna Camusso.
La leader della Cgil interviene al Museo della Liberazione di via Tasso, a Roma, dove ieri è stato presentato l’appello «Mai più fascismi» con cui 23 tra associazioni laiche e cattoliche (tra le quali Anpi, Arci, Acli, Aned, Articolo 21, Libera, Uisp), partiti (Leu, Pd, Pci, Prc, L’altra Europa per Tsipras) e sindacati (Cgil, Cisl, Uil) chiedono alle istituzioni di impedire alle formazioni neofasciste di presentarsi alle elezioni e di sciogliere le loro organizzazioni, come previsto dalla Costituzione ma anche dalle leggi Scelba e Mancino. «Il fascismo che riemerge è il sintomo di una democrazia malata o almeno pallida e di una politica che serve poco il bene comune» dice il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti.
La recrudescenza di movimenti legati all’estrema destra non è un fenomeno che riguarda solo l’Italia, come dimostra la legge appena approvata in Polonia che punisce chi ricorda la partecipazione di singoli polacchi alla persecuzione degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Nel nostro Paese sembra però avere particolare vigore. Non a caso mentre ricorrono gli ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali, ci sono politici che tornano a usare senza imbarazzo la parola «razza». Attenzione, avverte allora don Ciotti, perché «quando su riparla di razza bianca la rinascita dei fascismi è un fatto reale e non folcloristico».
In pochi giorni più di ventimila persone hanno sottoscritto l’appello delle 23 associazioni, e gli organizzatori sperano che molte altre facciano lo stesso (si può fare nelle sedi delle organizzazioni promotrici oppure on-line sulla piattaforma change.org). «Vogliamo dare una risposta umana a idee disumane», aggiunge la presidente dell’Anpi, Carla Nespolo. «L’appello esprime una preoccupazione molto forte per i rischi della nostra democrazia per il risorgere del fascismo, ma anche per atteggiamenti di nostalgia. Ci sono formazioni come Casapound o Forza Nuova – prosegue Nespolo – che anche se non portano nel loro nome la parola fascismo tali sono e vanno perseguite». E la presidente dell’Arci, Francesca Chiavacci, ricorda come le leggi per farlo ci siano, ma da sole non bastano. «Non solo con le leggi si sconfigge la cultura fascista, noi abbiamo un ruolo nel diffondere una cultura democratica».
La richiesta, allora, è di rispettare quanto previsto dalla XII Disposizione transitoria della Costituzione che vieta la ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del partito fascista. Per i promotori dell’appello sarebbe un modo anche per cominciare a fare i conti con il passato, come invita a fare la Camusso. «Una lunga stagione di sdoganamenti lascia dietro di sé solo macerie», ricorda la segretaria della Cgil. «Dobbiamo attrezzare i giovani ad avere memoria, riempire quel terribile vuoto che ha lasciato la rappresentanza politica».
L’appello quindi è sempre lo stesso: non dimenticare quanto accaduto in passato, perché potrebbe riproporsi anche oggi. Un monito al quale don Ciotti aggiunge una raccomandazione. Quella ad «alzare la voce quando gli altri scelgono un prudente silenzio».
il manifesto 2.2.18
Boom di spese militari con i governi a guida Renzi
C'eravamo tanto armati. Non solo F35, cresce l’acquisto di armi nel dossier 2018 presentato da Ican-Rete Disarmo
di Rachele Gonnelli
C’è una base militare italiana di cui si erano perse le tracce a Gibuti, tra l’altro ancora intilolata a un «eroe» del Ventennio fascista, il tenente Amedeo Guillet, più noto come comandante Diavolo. E c’è una foto, carpita dal web – una sorta di selfie collettivo di un intero stormo di piloti in divisa grigia, sull’attenti davanti a una bomba B61 con punta rossa – che è la prima prova dell’esistenza di testate nucleari in una base Nato su territorio italiano.
POI C’È LA SCOPERTA di un «tesoretto armato», un fondo investimenti voluto dal governo Renzi per finanziare l’acquisto di droni militari della Piaggio per la bellezza di 13 miliardi di euro, soldi nascosti nella legge di bilancio 2016 votata a scatola chiusa dai parlamentari. Nessuno pare se ne sia accorto. Queste e altre «perle» si leggono nel rapporto MilEx 2018 che squarcia il velo di opacità, per non dire di depistaggi e occultamenti volontari, sulle enormi spese militari sostenute dall’Italia, naturalmente a detrimento di altre priorità, dal welfare, alla sanità.
Il rapporto è stato presentato ieri alla Camera dall’Osservatorio permanente creato da Rete Disarmo , partner italiano di Ican, la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari che quest’anno ha vinto il Nobel per la pace dopo la vittoria dei 120 paesi che hanno firmato a luglio l’accordo per un trattato di messa al bando degli ordigni atomici. Anche se l’Italia non l’ha fatto e questo è ora l’obiettivo di Rete Disarmo, facendo lobbing con tutte le forze politiche in campagna elettorale.
A Montecitorio ieri ha partecipato alla presentazione del dossier italiano anche il coordinatore della campagna Ican, lo svedese Daniel Högsta. E un altro riconoscimento molto prestigioso del lavoro dei ricercatori italiani, annunciato dal coordinatore Francesco Vignarca, è l’avvio di una collaborazione stretta con lo Stockholm International Peace Research Institute, il più importante istituto di ricerca sulle spese militaria che monitora oltre 150 paesi nel mondo.
COSA DICE MILEX 2018? Dice che le spese militari in Italia sono in crescita del 4% soltanto nell’ultimo anno. Ricostruendo i vari capitoli di bilancio nascosti qua e là totalizzano 25 miliardi di euro, pari all’1,4 % del Pil. Una tendenza forte al rialzo – si legge – «avviata dal governo Renzi che riprende la dinamica di incremento delle ultime tre legislature» (+25,8% dal 2006, primo anno di accesso ai dati, per quanto complicato) dopo una «botta di arresto» nel 2008 per effetto della crisi e della spending review.
LA SPESA DELLA DIFESA è sempre al 60% impiegata per il mantenimento di un esercito ipertrofico e di «tutti ufficiali», tipo i Ragazzi della Via Paal, ovvero dove i graduati, super stipendiati e con pensioni d’oro, sono in numero superiore alla «truppa» dei soldati semplici. Ma è nei conti del ministero dello Sviluppo economico che si trovano le sorprese più grosse. È il Mise infatti che finanzia la crescita del budget per armamenti: carri armati, elicotteri militari, la nuova portaerei Thaon di Revel che la Fincantieri di Trieste dovrebbe sfornare nel 2022, e poi droni, caccia, 700 nuovi modelli di blindati Lince (che senz’altro piaceranno ancor di più a Ignazio Larussa) .
VIGNARCA SPIEGA che tra l’altro il Mise utilizza per finanziare queste spese la stragrande maggioranza dei fondi destinati agli incentivi per aumentare la competitività delle imprese, «di fatto sottraendoli ad altre produzioni in grado di creare più posti di lavoro e un fatturato più alto», oltre che una utilità sociale un po’ migliore. Fondi agevolati incanalati in un unico comparto produttivo, quello bellico, che – spiega – funzionano così: è lo Stato committente ad accendere mutui per pagare a stretto giro le commesse destinate a trovare poi canali per l’esportazione. Così, solo di interessi lo Stato paga 427 milioni di interessi l’anno, alle banche, naturalmente. «Tanto quanto per l’assistenza ai disabili».
INFINE IL CAPITOLO F35, i nuovi caccia a tecnologia Usa che dovrebbero subentrare ai Tornado come aerei d’attacco con capacità nucleare in barba all’articolo 11 della Costituzione. Il costo totale del programma, che il Parlamento avrebbe voluto dimezzare (ma che nessuna forza politica si è ricordata di ribadire nel programma elettorale depositato al Viminale ndr), è 14 miliardi. Ma dei 10 già acquistati gli 8 considerati «operativi» hanno ancora problemi tecnici. «Recentemente – spiega Vignarca- abbiamo avuto la conferma della giustezza delle nostre stime: durante lo shutdown la Casa Bianca ha dichiarato che ogni F35 costa 150 milioni di dollari, al netto di gestione e mantenimento.
il manifesto 2.2.18
Sessantotto, un forte antidoto politico per gli smemorati
Alla Sapienza di Roma presentati ieri i due volumi di «MicroMega» a 50 anni dalla contestazione. Luciana Castellina e altri, nell’aula I della facoltà di filosofia dove tutto ebbe inizio
di Alessandro Santagata
Gli anniversari sono momenti insidiosi di utilizzo pubblico della storia. Se poi a ricorrere sono i cinquant’anni dal Sessantotto, il rischio – come ha scritto domenica (sulle pagine di questo giornale) Marco Bascetta – è che la cifra del ricordo diventi quella dell’odio, della leggenda nera. Ci abbiamo dovuto fare l’abitudine di decennale in decennale. Hanno lanciato un segnale in direzione contraria i due dibattiti che si sono svolti ieri nell’aula I della facoltà di Lettere e filosofia della Sapienza – luogo simbolico del movimento studentesco romano – che hanno in un certo modo aperto le danze del cinquantenario nella Capitale. L’occasione l’ha offerta la rivista «MicroMega», che ha scelto la facoltà occupato il 1 febbraio 1968 per presentare di fronte a un’aula piena (anche se con una scarsa presenza di studenti) un numero speciale dedicato ai movimenti di contestazione e chiamando a raccolta un ricco parterre di testimoni.
SI TRATTA, in realtà, di due volumi che ospitano firme importanti del panorama politico-culturale italiano e internazionale. L’obiettivo dichiarato: ricordare e riflettere su «una data cruciale nella storia del dopoguerra» per evitare che le «celebrazioni» si riducano alla «reviviscenza di logore accuse che già allora caratterizzarono l’opinione di establishment (la violenza eccetera) o il reducismo di una sacrosanta nostalgia». La nota «ai lettori» fornisce ulteriori coordinate per comprendere gli intenti che hanno mosso la rivista di Flores d’Arcais, anche lui autore di un breve ricordo sulla sua esperienza, da Valle Giulia al maggio francese: valorizzare le eredità dei «lunghi anni Sessanta» con le loro conquiste civili e sociali e contestare i passi indietro compiuti nei decenni successivi sulla spinta della restaurazione neoliberale e con alcune gravi responsabilità delle forze di sinistra. La giornata di ieri può essere considerata come un secondo momento di approfondimento.
LA MATTINA è stata dedicata al confronto con gli studenti. Nel pomeriggio alcuni tra i testimoni/autori hanno discusso il numero nelle sue molteplici sfaccettature (ricordi, analisi, interviste e fonti d’epoca). Volendo individuare alcuni fili rossi, il tema della violenza e quello delle «specificità» del caso italiano nel contesto internazionale sono stati probabilmente i principali. C’è chi, come Luciana Castellina (e con lei Massimo Cacciari nel testo scritto) hanno teso a valorizzare come elemento principale l’immediato legame tra il movimento studentesco e quello operaio, tra le altre cose, il terreno fertile sul quale sarebbe maturata l’esperienza del manifesto. E chi, invece, come Palo Mieli ha identificato nella gioia della contestazione la dimensione unificante dei movimenti. Alex Zanotelli, partendo da una riflessione sulla sua Napoli, ha ricordato l’esperienza del dissenso cattolico, spesso trascurata nelle narrazioni successive, puntando poi il dito sulla crisi di valori del tempo presente, provocata non certo dal Sessantotto, ma dal successivo riflusso. Affettuoso, infine, il ricordo di Carlo Verdone, che del Sessantotto non fu militante, ma che pure beneficiò dell’onda di liberazione dei costumi arrivata perfino tra i banchi di una scuola cattolica per «figli di papà».
Ora, non c’è dubbio che la giornata in Sapienza abbia rappresentato una boccata di ossigeno alla vigilia di un anno di «celebrazioni» che si preannuncia carico di nuvole, se non alternativamente sterile. È da tenere presente poi che su molti dei nodi affrontati esiste ormai una bibliografia di taglio storiografico (e non solo) che è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni sulla spinta di coloro che il ’68 non l’hanno vissuto.
SE SI VANNO anche solamente a spulciare i titoli delle tesi di laurea e di dottorato degli anni Duemila si troverà un numero incredibile di lavori, spesso di ottima fattura, dedicati ai movimenti sociali e agli anni Settanta in generale. Su un grande tema come quello della violenza politica è fiorita una storiografia che ha preso le distanze dalle «demonizzazioni», cercando semmai di interpretarle nel contesto politico-culturale del «riflusso», ma si è interrogata in modo stringente sulla lunga durata del fenomeno: (almeno) dal secondo dopoguerra fino alla crisi dell’idea di rivoluzione negli anni Ottanta. Sono state investigate poi le culture politiche, le genealogie discorsive provando a riflettere criticamente sugli elementi di continuità nel Novecento.
Per quanto riguarda invece il complicato rapporto tra Sessantotto e modernizzazione, è ancora aperto il dibattito sulle relazioni tra l’avvento della società del benessere e l’esplosione della sua critica più radicale. Castellina ha spiegato efficacemente come la dimensione della critica al sistema, che del Sessantotto fu l’anima, sia venuta meno nel ricordo, lasciando spazio esclusivamente all’equazione contestazione-antiautoritarismo. Da questo punto di vista, gli studi internazionali ci invitano però anche a una maggiore criticità nell’affrontare il paradigma della «restaurazione neo-liberale», da studiare proprio a partire dalle trasformazioni storiche del sistema capitalistico e da quella sua necessità di omogeneizzare le società che negli anni Sessanta travolse appunto le istituzioni tradizionali.
ECCO ALLORA che tra i rischi di questo 2018 c’è quello di perdere, ancora una volta, l’opportunità per andare oltre il piano del talking about my generation. Un limite enorme, soprattutto alla luce di uno dei meriti principali della contestazione: aver introdotto la forma politica del movimento, che è diventata strutturale dopo la crisi del sistema dei partiti (non senza contraddizioni macroscopiche e con esiti talvolta inquietanti). È un filo rosso che è rimasto marginale nella discussione sul Sessantotto, ma che lega tra loro mondi diversi in fasi storiche nuove, fino a Genova, all’Onda e agli indignati dal finanzcapitalismo degli anni Duemila. Chi ha a cuore il Sessantotto ha dunque il dovere di non «congelarlo», di non avere paura di contestarlo, di non farne un monumento da museo per pochi intimi. Anche perché è proprio dagli spazi chiusi che è partita l’infezione che ha portato al dilagante rifiuto del passato, alle rottamazioni e alla politica dei senza memoria.
il manifesto 2.2.18
«Dissenso comune» contro il potere
Molestie. Gli abusi e il caso Weinstein, il manifesto delle donne del cinema italiano denuncia il sistema
di Cristina Piccino
Si intitola Dissenso comune ed è una bella lettera-manifesto firmata da un gruppo (124) di attrici, registe, montatrici, lavoratrici dello spettacolo italiane – tra le altre Alice e Alba Rohrwacher, Alessandra Vanzi, Laura Bispuri, Valeria Golino, Maria Pia Calzone, Roberta Torre, Francesca Comencini, Anna Bonaiuto, Ilaria Fraioli, Jasmine Trinca – che prova a fare chiarezza su come le molestie sessuali sono state trattate dal caso Weinstein in poi.
Un testo elaborato in due mesi di incontri nel quale si legge: «In molti paesi le operatrici dello spettacolo hanno preso parola e hanno iniziato a rivelare una verità così ordinaria da essere agghiacciante… Quando si parla di molestie quello che si tenta di fare è, in primo luogo, circoscrivere il problema a un singolo molestatore … Si crea una momentanea ondata di sdegno che riguarda un singolo uomo di potere. Non appena l’ondata di sdegno si placa, il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le ’molestate’. Così facendo questa macchina della rimozione vorrebbe zittirci…».
Al di là della singola denuncia l’obiettivo che le firmatarie del manifesto rivendicano è dunque quello di una pratica condivisa indispensabile per mettere in discussione ciò che il caso i Weinstein ha rivelato: un intero sistema di potere.
Qualcosa, ci dicono, che ovviamente non riguarda solo la società dello spettacolo ma ogni luogo di lavoro, ogni mestiere, un sistema organizzato sulla diseguaglianza e sul ricatto, «sulla sessualizzazione costante e permanente degli spazi lavorativi».
E ancora: «Perché il cinema? Perché le attrici?… Loro hanno la forza di poter parlare, la loro visibilità è la nostra cassa di risonanza. Le attrici hanno il merito e il dovere di farsi portavoce di questa battaglia per tutte le donne che vivono la medesima condizione sui posti di lavoro…».
Questa iniziativa è molto importante per la sua dimensione collettiva, appunto, ma soprattutto perché fa chiarezza su molti punti affrontati spesso in modo frammentario, con prese di posizione che si allontanano dagli obiettivi dei movimenti di protesta delle donne.«Non è la gogna mediatica che ci interessa» scrivono, ed è un passaggio fondamentale. Purtroppo infatti movimenti come #Me Too, anche sui media nazionali, sono stati equiparati alla «caccia alle streghe» finendo per coincidere agli occhi di molti con un neo-moralismo fustigatorio che prende di mira in modo indiscriminato le opere d’arte o gli artisti. Un uso strumentale contrario a quanto invece è la sostanza originaria.
Anche Hollywood, che assumendo il testimonial è stata decisiva – lo spiega bene il manifesto: «Le attrici in quanto corpi pubblicamente esposti smascherano un sistema che va oltre il nostro specifico mondo ma riguarda tutte le donne negli spazi di lavoro e non» – ha cominciato a utilizzare in modo normativo tutto questo col rischio di divorarlo.
E di perdere di vista ciò che è invece la questione fondamentale: quel sistema di potere che organizza le relazioni, che poggia sulle disparità, la biopolitica dell’ingiustizia che si è talmente sedimentata da apparire come assolutamente «normale».
Un modo, come giustamente si mette in luce qui, per sviare, per rimettere le cose a posto, per far sì che gli scossoni non siano poi così definitivi.
Il Fatto 2.2.18
“È il tempo in cui abbiamo smesso di avere paura”
124 donne - Il testo sottoscritto da attrici, registe e lavoratrici dello spettacolo contro “il sistema” molestie
di Alessia Grossi
“Dissenso comune”: si chiama così il Manifesto delle donne dello spettacolo “unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini”, dopo le denunce di violenze e molestie sul luogo di lavoro nei mesi scorsi. Firmato da 124 tra attrici, registe, produttrici e lavoratrici della comunicazione e dello spettacolo tra cui Francesca e Cristina Comencini, Sabrina Impacciatore, Laura Bispuri, Sole Tognazzi, le sorelle Rohrwacher, Lunetta Savino, Isabella Ferrari, Giovanna Mezzogiorno.
“Questo documento non è solo un atto di solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate, ma un atto dovuto di testimonianza”, esordiscono.
Tra le firmatarie anche Nicoletta Ercole, che con Harvey Weinstein ha lavorato e riconosce “che il suo modo di fare era noto, così come lo era quello di alcuni registi e produttori italiani”. Seppur critica nei confronti di chi – ha prima sfruttato questo sistema e poi ora accusa e denuncia e dalla parte di Asia Argento contro chi l’ha criticata – Ercole racconta di non aver esitato a sottoscrivere l’appello sottopostole da Ginevra Elkann. “So che siamo in tante. La nostra voce è importante perché abbiamo la visibilità per farci ascoltare, ma questo è un malcostume generalizzato. L’importante – continua – è che non finisca nel vuoto, come le manifestazioni di ‘Se non ora quando’.
Un’altra firmataria è Costanza Quatriglio. “Non ho partecipando agli incontri, avevo anche sottoposto modifiche che non sono state accettate dal collettivo”, racconta. Eppure crede nell’importanza dell’appello: “A prescindere dalle molestie – spiega – è una questione di disuguaglianza, di denunciare le angherie quotidiane alle quali siamo sottoposte. Io come regista ho dovuto fare i conti con il mio essere donna anche senza accorgermene. Pensavo bastasse fare il mio mestiere, ma non è così”.
Perché, come si legge nel Manifesto, “quando si parla di molestie quello che si tenta di fare è, in primo luogo, circoscrivere il problema a un singolo molestatore che viene patologizzato e funge da capro espiatorio”, salvo poi, “non appena l’ondata di sdegno si placa, il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le ‘molestate’ e inizia a farsi delle domande su chi siano, come si comportino, che interesse le abbia portate a parlare”. “Così facendo – continuano le donne di Dissenso Comune – questa macchina della rimozione vorrebbe zittirci e farci pensare due volte prima di aprire bocca. Ma parlare è svelare come la molestia sessuale sia riprodotta da un’istituzione. Come questa diventi cultura, buonsenso, un insieme di pratiche che noi dovremmo accettare perché questo è il modo in cui le cose sono sempre state, e sempre saranno”, denunciano. E sottolineano come “la scelta davanti alla quale ogni donna è posta sul luogo di lavoro è: ‘Abituati o esci dal sistema’. Da qui la decisione di scendere in campo. Perché “il corpo dell’attrice incarna il desiderio collettivo, e poiché in questo sistema il desiderio collettivo è il desiderio maschile, il buonsenso comune vede in loro creature narcisiste, volubili e vanesie, disposte a usare il loro corpo come merce di scambio pur di apparire. Le attrici in quanto corpi pubblicamente esposti smascherano un sistema che va oltre il nostro specifico mondo ma riguarda tutte le donne negli spazi di lavoro e non”.
E – non ultimo – “perché le attrici hanno il merito e il dovere di farsi portavoce di questa battaglia per tutte quelle donne che vivono la medesima condizione sui posti di lavoro la cui parola non ha la stessa voce o forza. La molestia sessuale – è sistema appunto. Succede alla segretaria, all’operaia, all’immigrata, alla studentessa, alla specializzanda, alla collaboratrice domestica. Noi non siamo le vittime di questo sistema ma siamo quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo. Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo ‘molestatore’. Noi contestiamo l’intero sistema. Questo è il tempo in cui noi abbiamo smesso di avere paura”.
La Stampa 2.2.18
Cambiamo la cultura del nostro Paese
di Giovanna Mezzogiorno
Anch’io ho dei nomi da fare. Come tutte. Non li farò perché questo non è un processo, ma un nuovo inizio. Perché non cerchiamo un’indignazione morbosa che passa in fretta, ma vogliamo cambiare la cultura del nostro Paese. Ringraziamo le donne dello spettacolo che hanno raccontato la loro storia, sappiamo che quello che ognuna di loro dice è vero.
Lo so io perché l’ho vissuto, proprio come tutte le altre. Le storie dolorose sono molte, ma questa non è una gara a chi più ha sofferto, a chi più è stato umiliato. Non c’è più tempo, non ci sono più scuse. Questo è il momento di cambiare passo.
Quando Jasmine Trinca mi ha chiamato pensavo mi avrebbe parlato di lavoro, qualsiasi altra cosa. E’ stata diretta, chiara e convincente. Non che ce ne fosse bisogno. Sono stati due mesi di riflessione, mail infinite e riunioni. E’ stato un lavoro faticoso, abbiamo raccolto e pesato le perplessità di tutte. Abbiamo cesellato e limato ogni parola: c’è voluto del tempo per trovare un equilibrio tra rabbia e cambiamento e scegliere le parole giuste per denunciare non la patologia di un singolo, ma il cancro di un sistema.
Sono sicura che molte, moltissime altre seguiranno perché pochissime hanno scelto di non firmare. Chi per motivi personali, chi invece perché considera questa battaglia come una polemica datata, di cui non vale nemmeno più la pena di occuparsi. Le molestie sessuali sono affare di tutte, da sempre. Al cinema come in fabbrica, nelle aziende come per strada. C’è ancora un grande imbarazzo tra gli uomini dello spettacolo. Che sanno, come sappiamo tutte, ma non hanno mosso un dito. C’è molta attenzione a non sbilanciarsi, a non sporcarsi le mani. Noi iniziamo con questo manifesto, che andrà lontano, e li aspettiamo. Abbiamo bisogno di nuove leggi. Perché per scegliere un’attrice il provino si fa in una camera d’albergo? A chi mi legge può sembrare una sciocchezza, ma non lo è: è successo, succede ancora oggi. Non deve succedere mai più. Se non bastano etica e rispetto, ma serve una legge, allora l’avremo.
Testo raccolto da Nadia Ferrigo
Il Fatto 2.2.18
“Solo un modo per pulirsi la coscienza”
“Non ho firmato e non firmo. Da loro non ho mai ricevuto solidarietà, neanche in privato”
di Silvia D’Onghia
“Non si capisce neanche cosa vogliono dire, è solo un modo per pulirsi la coscienza da questo silenzio assordante”. Asia Argento, che per prima in Italia ha denunciato di aver subito uno stupro da Harvey Weinstein, non è tra le 124 donne che hanno sottoscritto il manifesto “Dissenso comune”. E la sua non è una dimenticanza. Anzi.
Cosa è successo?
Sono stata contattata da Jasmine Trinca. ‘Abbiamo creato un gruppo, abbiamo un messaggio politico’, mi ha detto. Tra di loro si chiamavano compagne.
E lei non era d’accordo?
Quando mi hanno chiamata, avevano già buttato giù una prima stesura dell’appello senza neanche consultarmi. Iniziava con una specie di parabola di Edna Wolf su Cappuccetto Rosso e il lupo, si parlava in maniera ancora più vaga e non venivano nominate le attrici italiane che hanno denunciato.
Lei e Miriana Trevisan?
Esatto. Anzi, le dico di più. Sono stata messa in una chat del gruppo e ho chiesto che venisse inserita anche Miriana. Non l’hanno contattata fino a un paio di giorni fa. Forse non la reputavano alla loro altezza. Io e Miriana abbiamo aperto questa porta e ci siamo beccate delle bastonate. Però hanno fatto firmare Cristiana Capotondi che ha difeso Fausto Brizzi (il regista italiano accusato di molestie, ndr).
E cosa ha suggerito a proposito del manifesto?
Ho comunicato il mio dissenso per una cosa troppo annacquata. Ho chiesto di specificare i nostri nomi. Non si può parlare di ‘colleghe italiane’, non si può dire ‘anche noi abbiamo vissuto’ e poi non dire di chi si sta parlando.
La sua richiesta ha sortito effetti?
Macché. Continuavano a temporeggiare. Molte di loro non rispondevano neanche ai miei messaggi. Ho più volte chiesto di incontrarci a casa mia.
È successo?
Io abito in periferia. Mi hanno risposto che arrivare a casa mia sarebbe stato come andare in Cina. Allora mi sono offerta di andare io in centro, ma neanche questo è accaduto. A quel punto mi sono tolta dalla chat.
Prima dell’appello le erano state vicine?
Non ho mai ricevuto un sms di sostegno da parte delle attrici e alcune di loro, quando le ho incontrate, si sono voltate dall’altra parte. Capisco che magari si vergognavano di parlare con i giornali e le televisioni, ma almeno privatamente avrebbero potuto dimostrare solidarietà… Invece è stato il silenzio assoluto. Un silenzio assordante.
Quindi non ha firmato il manifesto?
Naturalmente. E non ho alcuna intenzione di farlo. Le avevo anche invitate alla Women’s march di Roma, il 20 gennaio, ma non si è presentato nessuno. Come sempre sono un outsider, non rientro neanche nel dissenso comune. Sono sola nella mia battaglia.
Le 124 firme smuoveranno le coscienze?
Non vedo un programma, tantomeno ‘politico’. È tutto annacquato, non si capisce neanche cosa vogliono dire. È soltanto un modo per pulirsi la coscienza rispetto al silenzio in cui ci hanno avvolte. Poi a me vengono a dire ‘sei stata zitta per vent’anni’, come se ci volesse un attimo per elaborare una violenza. Ma anche chi non ha subito nulla può schierarsi dalla parte delle vittime.
Cosa succederà adesso?
E cosa vuole che succeda? Forse andranno a parlare a Sanremo…
Il Fatto 2.2.18
La desistenza Renzi-Berlusconi sulle liste: una realtà in tutta Italia
Sgarbi lo dice: “De Luca sostiene me”
Da Napoli alla Toscana fino al Piemonte: i tanti favori reciproci nei collegi uninominali
di Wanda Marra
Alle urne si compete sempre, ma in qualche caso con meno aggressività. È il caso in questo 2018 di Pd e Forza Italia. Dalla Lombardia alla Sicilia, per dire, sono parecchi i candidati ex Forza Italia finiti direttamente nelle liste di Renzi. E nei collegi uninominali la “desistenza” tra i due partiti è quasi strutturale: nessuno scontro frontale tra big e una precisione “matematica” nell’opporre a un candidato renziano che deve essere eletto uno debole berlusconiano e viceversa. Le larghe intese, insomma, sono un fatto fin d’ora: Pd e Forza Italia assomigliano a un unico corpo con due teste. Paradossalmente, o forse no, Renzi le sfide più accese le ha volute contro LeU (basti citare Terranova contro D’Alema a Nardò). Quanto alla Lega ha scelto una via diversa rispetto a Forza Italia: il Carroccio, ad esempio in Emilia Romagna e in Toscana, ha spesso scelto candidati “forti” anche dove corre in teoria da perdente.
Partiamo dai “traslocati”. Il deputato Paolo Alli – che corre nel collegio uninominale di Mantova in Senato in quota Beatrice Lorenzin via il fu Ncd di Alfano – è un esponente di Comunione e liberazione e per anni è stato uno dei più stretti collaboratori di Roberto Formigoni: il Celeste, invece, è rimasto a destra. Poi c’è Angelo Capelli, candidato alla Camera nel collegio uninominale di Rozzano, anche lui ciellino, è stato relatore della riforma Maroni della sanità. Mentre Maurizio Bernardo – entrato alla Camera nel 2006 con Forza Italia e rieletto nel 2013 col Pdl – è proprio passato al Pd dopo un passaggio col solito Alfano: è secondo a Varese e Busto Arsizio, posto blindato.
In Sicilia, dove il centrosinistra è quasi azzerato, il Pd candida l’ex Pdl Leonardo Piampiano alla Camera a Palermo. E si carica due pezzi grossi, provenienza Sicilia Futura (il partito che fa capo a Salvatore Cardinale): il primo, Nicola D’Agostino (provenienza il movimento autonomista di Raffaele Lombardo) è stato fondamentale per dare i voti necessari al berlusconianissimo Gianfranco Miccichè per la guida dell’Assemblea regionale (con l’assenso di Luca Lotti); il secondo, Salvo Lo Giudice, cinque anni fa era stato eletto all’Ars addirittura con la lista destrissima di Nello Musumeci.
Persino in Toscana Renzi schiera due ex Forza Italia. Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia entrato nel governo Letta in quota centrodestra, corre nel collegio di Massa e ha pure il paracadute proporzionale. Il fratello di Ferri, Jacopo, è il vice coordinatore regionale di FI: ha offerto le sue dimissioni al partito, che le ha respinte. E così i rumors toscani già danno Ferri in pole position per il ministero della Giustizia in un ipotetico governo Matteo & Silvio. E ancora: a “Firenze Novoli”, alla Camera, il Pd candida in quota Lorenzin l’ex coordinatore Pdl a Firenze, poi passato con Alfano, Gabriele Toccafondi.
Forza Italia per non disturbare schiera solo due big in regione: Massimo Mallegni, ex sindaco di Pietrasanta, che corre per il Senato contro uno dei fedelissimi di Renzi, Andrea Marcucci, a Lucca e Carrara. Il segretario con lui è in ottimi rapporti e si è preoccupato di garantire Marcucci nel proporzionale. L’altra è Debora Bergamini che sfida Ferri, ma è blindata in due collegi plurinominali. A proposito di mutazione: nei 28 collegi di una delle regioni rosse per eccellenza, la Toscana, in posizione eleggibile ci sono solo 3 ex Ds: Silvia Velo, Susanna Cenni e Dario Parrini (ormai più renziano di Renzi).
Due esempi di desistenza, e non piccoli, arrivano dalla Capitale: contro Paolo Gentiloni (collegio Roma 1 per la Camera) corre Luciano Ciocchetti, ex assessore all’Urbanistica della Polverini, non esattamente un big. Contro Marianna Madia (Camera, Roma 2) c’è Maria Teresa Bellucci, presidente nazionale del Modavi onlus e membro dell’Assemblea nazionale del Forum del terzo settore. Per adesso, sconosciuta ai più.
In Lombardia in uno dei (pochi) collegi contendibili dal centrosinistra, Sesto San Giovanni, contro il potente berlusconiano Paolo Romani il Pd schiera la consigliera comunale Diana De Marchi. Strada spianata alla Camera nel collegio di Abbiate Grasso per Michela Vittoria Brambilla, che contro il Pd ha il deputato uscente Francesco Prina, non accreditato di particolari consensi nel territorio. Alessandro Cattaneo, ex sindaco di Pavia, nel suo collegio per la Camera si trova contro un’altra deputata uscente poco competitiva, Chiara Scuvera.
In Piemonte, favore inverso. All’uninominale Torino Collegno, Stefano Esposito avrà di fronte la consigliera leghista del piccolo comune di Piossasco, Roberta Ferrero (ma avrà contro l’ex Fiom Giorgio Airaudo di LeU). Alberto Avetta, sindaco di Cossano Canavese e presidente dell’Anci in Piemonte corre a Ivrea per Palazzo Madama contro Virginia Tiraboschi, imprenditrice, a lungo dirigente comunale e regionale, scelta da Forza Italia anche se (o proprio perché) non è una macchina da voti. Viceversa a Torino 2, contro Roberto Rosso – ex deputato, sottosegretario con Berlusconi e vicepresidente della Regione – il Pd schiera a perdere Silvia Manzi, in quota Bonino.
Passiamo in Campania. A Salerno contro Pietro De Luca, figlio del governatore, per Forza Italia corre il commercialista Gennaro Esposito. Nel Cilento a sfidare Franco Alfieri – l’uomo “delle fritture” e della “clientela scientifica” (parola di De Luca padre) – schiera senza speranza Marzia Ferraioli, professoressa di Procedura penale a Roma Tor Vergata. Viceversa Vittorio Sgarbi, che corre ad Acerra per la Camera contro Luigi Di Maio, ha avuto un occhio di riguardo da don Vincenzo. Al Messaggero ha detto: “Gli elettori del Pd non voteranno il loro debole candidato Falcone, ma me. Così vuole De Luca”.
In Basilicata, il paradosso: Pd e Forza Italia si sono direttamente scambiati i candidati. Nicola Benedetto, fino a poco fa nella Giunta di centrosinistra, è il candidato del centrodestra a Potenza per la Camera. Per il Pd lo sfida Guido Viceconte, ex europarlamentare azzurro, più volte sottosegretario nei governi Berlusconi.
Il Fatto 2.2.18
Forza Mediaset tifa inciucio B. ha un partito nel partito
Nazareno - Oltre ai soliti Romani, Sciascia e Messina, sbarcano in Parlamento pure Galliani e Cannatelli: i rapporti con Renzi e Lotti su Rai pubblicità e calcio
di Marco Palombi e Carlo Tecce
La stanchezza di Silvio Berlusconi è un memento per tutti. Per chi corre all’ombra del corpo fisico e politico dell’ex Cavaliere è l’ora, gestendo il presente, di preparare il futuro. E le tribù di Forza Italia fanno quel che devono e possono: c’è chi pensa a un futuro politico comunque incardinato nella coalizione di centrodestra (Niccolò Ghedini, Giovanni Toti); chi ha in mente soprattutto le aziende di famiglia; chi prende quel che può (i potentati locali tipo “Cesaros”). Tolti i cacicchi, le prospettive politiche sono diverse: in un caso larghe intese ma senza prescindere dal rapporto con la Lega (o un suo cospicuo pezzo), governo purchessia nell’altro. Per questo nella XVIII legislatura il partito Mediaset torna in campo in forze: ai manager del gruppo già a Roma come Salvatore Sciascia e Alfredo Messina – e ai tradizionali referenti dell’azienda (Paolo Romani, Valentino Valentini, etc) – si aggiungono due pezzi grossi come Adriano Galliani e l’ex vicepresidente Fininvest Pasquale Cannatelli, più l’ex direttore di Panorama Giorgio Mulè (voluto da Marina Berlusconi) e i “comunicatori” Andrea Ruggieri e Alberto Barachini.
Questa pattuglia è, per così dire, filosoficamente allineata al presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri. E Fidel vede, anche in politica, agire la potente mano del destino e dunque, sostiene, dopo i rituali litigi da campagna elettorale, Silvio & Matteo saranno costretti a ripristinare gli antichi accordi del Nazareno. Per Mediaset, d’altronde, se proprio non si può stare al governo, è sempre vitale averne uno amico. Confalonieri non si è mai candidato perché non può lasciare l’azienda (e non gli interessa), ma Galliani è un po’ Mediaset anche lui: lo stesso Fidel lo considera un fondatore dell’impero di Cologno Monzese. Galliani ha conosciuto Confalonieri e Berlusconi in una cena a casa dell’ex Cavaliere il giorno dei santi del ’79: non il calcio, che arrivò solo sette anni dopo, ma le tv erano la portata principale. Berlusconi era interessato a Elettronica Industriale, società acquistata da Galliani, necessaria per trasmettere i canali del Biscione.
Oggi il partito di Mediaset, indebolito dai fallimentari risultati di Premium e dall’infinito contenzioso con Vivendi (azionista al 29%), s’aggrappa all’esperienza di Galliani proprio per rimediare agli investimenti sbagliati sul pallone e per proteggere il Biscione da Roma: intanto, l’azienda ha già iniziato a parlare direttamente con Matteo Renzi e il suo uomo più “Nazareno”, Luca Lotti. “Io sono un soldato di Berlusconi – dice Galliani – e non mi esprimo sul patto del Nazareno. E poi Confalonieri è più di un fratello, non mi permetto un giudizio. Ho atteso anni prima di fare politica perché al Milan mi sentivo trasversale, ma resto un soldato”. In ordine cronologico, dopo trent’anni e 29 trofei al Milan, l’ultimo incarico di Galliani è la guida di Premium e l’ultimo colpo è l’esclusiva per i diritti del Mondiale sottratti alla Rai. Viale Mazzini è il concorrente principale di Mediaset e adesso, sopite le velleità di Pier Silvio di competere con Sky, la tv generalista – come dice Confalonieri – è di nuovo il campo principale. Per campo principale, s’intende la pubblicità: al Biscione aspettano con trepidazione la nomina del renziano Mauro Gaia al vertice di Rai Pubblicità. A Cologno Monzese, però, avevano già accolto con giubilo le dimissioni dell’ex Sky Fabrizio Piscopo, che con un’aggressiva politica di sconti stava scuotendo un mercato rigido.
Oggi Viale Mazzini incassa 670 milioni di euro dagli spot (un miliardo dieci anni fa) e contribuisce a reggere un sistema che da sempre premia Mediaset: nel 2016, per esempio, il Biscione ha dichiarato in bilancio 2 miliardi di euro dalla pubblicità in Italia.
Tornando a Galliani: farà pure il soldato, ma già s’immagina ministro, magari dello Sport. Ieri il Coni ha commissariato la Figc e la Lega Calcio. Il capo Giovanni Malagò, però, non ha scelto di fare il tutore della Federazione come da tradizione, ma quello della Lega Calcio. Il denaro – più di 1,5 miliardi di euro di diritti tv – passa per la Lega. Restituita la Champions League a Sky, il campionato è l’unico prodotto che serve a Mediaset. Premium – cioè Galliani – ha tentato di conquistare all’asta la Serie A al risparmio e, intanto, con un’offerta di Tim sul pacchetto per Internet, si sono svolte le prove generali di una pace con Vivendi (azionista di controllo di Telecom). Il Coni è intervenuto dopo la mancata elezione del presidente della Figc, saltata perché Cosimo Sibilia, capo dei Dilettanti e senatore di FI, candidato contro il renziano Gabriele Gravina, ha ordinato ai suoi di votare scheda bianca: pare che alla scelta abbia contribuito una telefonata arrivata da Berlusconi. Se le larghe intese sono deboli, meglio un uomo da larghe intese. Meglio Malagò. E questo è solo all’inizio.
Il Fatto 2.2.18
Boschi dilania l’Svp: “Lei vince facile ma noi rischiamo tutto”
Il collegio paracadute di Maria Elena - SfideLa rassegnazione dei sudtirolesi: “Ci farà perdere voti, avremo un senatore in meno”
di Ferruccio Sansa
“È come se la Juventus giocasse contro una squadra di prima divisione. Sì, vinceremo la partita. Ma così rischiamo di perdere i tifosi e nella prossima stagione lo stadio sarà vuoto”, sussurra un pezzo grosso della Südtiroler Volkspartei. Meglio ricorrere alle metafore calcistiche. L’intreccio di potere in Alto Adige è troppo complicato. La vittoria sicura è l’elezione di Maria Elena Boschi. Ma poi si rischia che i tifosi, cioè gli elettori, scappino dallo stadio.
Boschi dorme sonni tranquilli: male che vada, ce la farà con una coalizione che alle ultime elezioni qui aveva preso il 46%. Chi non chiude occhio è Philipp Achammer, trentaduenne segretario Svp. Basta ascoltarlo, guardarlo, leggere il curriculum: ricorda una versione sudtirolese di Renzi. Giovani, pimpanti, lanciatissimi. Chi li conosce riferisce di una simpatia istintiva, oltre che di convenienza politica. “Appoggiamo i candidati del Pd perché ci hanno confermato non solo a parole il loro impegno per l’autonomia”, ha detto Achammer. Ma ora il destino del leader Svp si gioca nel collegio Bolzano-Bassa Atesina. Il segretario lo ha capito quando nei giorni scorsi si è trovato di fronte quaranta delegati di zona del suo partito, schierati per discutere la decisione già presa. In sala l’atmosfera si tagliava con il coltello. E contro la candidatura Boschi si sono schierati anche i giovani Svp. Oswald Schiefer, responsabile Svp della Bassa Atesina, serra i ranghi, ma non tace il problema: “Noi avevamo pensato che su otto possibili parlamentari due potessero andare agli italiani. Ma ci aspettavamo che fossero candidati locali”. Invece ecco planare da Roma Gianclaudio Bressa, bellunese, e Boschi di Arezzo: “Bressa va bene. Ha fatto tantissime cose per noi. Ma se proprio dovevamo prendere un altro candidato da Roma avremmo preferito Graziano Delrio che ha fatto tanto per questa terra, dalle infrastrutture alla proroga (senza gara, ndr) della concessione dell’Autobrennero”. Già, l’autostrada – gallina dalle uova d’oro – controllata dagli enti locali. Quindi dall’Svp.
I governi di centrosinistra hanno fatto di tutto e di più per il partito della stella alpina. Perfino a danno della comunità italiana, che a Bolzano città rappresenta il 75% della popolazione, ma nel resto della Provincia scende al 25. Ma non c’è soltanto la testa. Qui il voto si decide con la pancia. Per capirlo basta girare per il collegio Bolzano-Bassa Atesina, guardare il paesaggio. C’è la periferia sud di Bolzano, dove tra centri commerciali, capannoni, grandi e piccole industrie leggi lavoro e benessere. D’un tratto, però, il cemento finisce (insieme con la maggioranza italiana) e cominciano quei paesi con i campanili aguzzi, i masi appesi sui pendii. Qui prevale il voto sud tirolese e, insieme con i vigneti del Traminer, mette le radici l’Svp. Basta parlare con la gente che va a prendere i bambini alla scuola di Bronzolo per capire la ricetta: nessuno parla di destra e di sinistra. Si sta con chi tutela l’autonomia. Punto. E non è un caso che, proprio nel cuore del collegio della Boschi, la stessa Svp sostenga sindaci di centrodestra. Come Christian Bianchi, primo cittadino di Laives. Lui ha capito che la questione Boschi può essere cavalcata, per cancellare il Pd e far scricchiolare l’alleanza con l’Svp: “Questo collegio era stato pensato per dare un parlamentare agli italiani dell’Alto Adige. La nuova legge elettorale lo ha ridisegnato a vantaggio dell’Svp. Ora che venga anche utilizzato per scambio di merce mi fa arrabbiare”, attacca Bianchi. È il miracolo dell’operazione Boschi: ha unito la pancia di italiani e sudtirolesi.
È l’incubo dell’Svp. I vertici non sanno che pesci pigliare. Luis Durnwlader – presidente della Provincia di Bolzano dal 1989 al 2014 – non gradisce la domanda: “Non dico niente. Dovete parlare con chi guida il partito oggi”.
Arnold Tribus, direttore del Tageszeitung di Bolzano (in prima pagina una foto scollatissima della ministra), sorride sornione: “Vinceranno”, ma ricorda le recenti esperienze non proprio convincenti dell’Svp, come “le primarie fallimentari con un solo candidato”. E adesso le candidature Bressa e Boschi: “Se il centrodestra avesse candidato Bianchi, come qualcuno aveva proposto, molti elettori Svp potevano votarlo. Ma c’è Michaela Biancofiore che voleva mettere il Tricolore nei masi”. Lei, Biancofiore, cammina per la sua Bolzano con il fedele cagnolino. E smorza i toni: “Macché, dico che tutti i cittadini devono avere le stesse possibilità”. E giù due stoccate all’avversaria: “Io qui ci sono cresciuta in mezzo ai bambini sudtirolesi. Mica ci vengo in vacanza… parlo tedesco”.
Ma se l’Svp vince la partita, può perdere il campionato: “Se perdiamo tanti voti – aggiunge Schiefer – ci giochiamo un senatore al proporzionale. E non siamo più il primo partito della Regione”. Dove andranno i voti in fuga? “Ich stimme nicht, io non voto”, è il rosario che ripetono gli elettori di lingua tedesca per le strade di Cortaccia. Ma c’è chi passa ai Verdi, unico partito interetnico. Quello di Alexander Langer che oggi si schiera con Liberi e Uguali.
E poi ci sono le provinciali di Bolzano in autunno. “Se va bene, la ferita si rimarginerà. Se resta una cicatrice, sarà un guaio”, prevede Schiefer. Ma correranno i partiti sudtirolesi meno moderati, come la Sudtiroler Freiheit che non si presentano alle politiche. Le fortune dell’Svp sono in mano a Maria Elena Boschi e al collegio Bolzano-Bassa Atesina.
Repubblica 2.2.18
Pd, la corrente del 5 marzo “Resa dei conti con Renzi”
Da Orlando ai gentiloniani pronta una fronda per il dopo voto che spera in una mossa di Prodi. Rivolta in Sicilia: “Troppi acquisti dal centrodestra, non facciamo campagna”
Goffredo De Marchis
Roma Quelli che il 5 marzo. A una settimana dalla composizione delle liste, prende corpo la fronda a Renzi per il dopo voto e non può essere spiegata solo con la rabbia degli esclusi. L’elenco dei congiurati comincia a essere lungo. Lo diventerà ancora di più se il segretario Pd non porterà il suo partito almeno al 25 per cento.
Si parte dalle minoranze: Andrea Orlando e Michele Emiliano. Il governatore pugliese è stato esplico rispondendo alla domanda “fare campagna elettorale per il Pd ma poi”? « La deriva di Renzi è perdente, con lui si rischia un processo di disgregazione inarrestabile. Dobbiamo convincerlo a lasciare, perché il suo modo di fare il segretario non porta risultati ». Ai due capicorrente vanno aggiunti Goffredo Bettini, Ugo Sposetti e Ileana Argentin che hanno annunciato il tentativo di “ golpe” pubblicamente. Dietro le quinte si muovono i gentiloniani, è il caso di Ermete Realacci. Infine c’è Romano Prodi. Il cui endorsement a favore della coalizione non è stato interpretato come una mano tesa a Renzi per il futuro.
Ieri si è aggiunto un nuovo pezzo del mosaico tutto da costruire: “i partigiani del Pd”. Un gruppo di giovani siciliani ribelli, pronti a fare la resistenza contro Renzi, a liberare i dem dal loro capo. Sono quattro dirigenti regionali: Antonio Rubino, Carmelo Greco, Antonio Ferrante, Salvatore Graziano. Il capogruppo del Pd alla Regione Antonello Cracolici spiega dove vogliono arrivare: « Dopo il 4 marzo si porrà il problema della natura del partito e del segretario nazionale. Non garantisce il pluralismo e persegue il disegno di un’omologazione del Pd con il centrodestra » . Cracolici è stato un sostenitore renziano ma oggi dice che non « sono accettabili i candidati scelti per la Sicilia. La larga parte viene dalla classe dirigente del centrodestra».
I giovani “partigiani” hanno addirittura adottato il simbolo della lotta alla mafia dopo le stragi di Falcone e Borsellino: la spilla con una resistenza elettrica. A Caltanissetta sulla porta del circolo dem è apparso un cartello: «Chiuso per dignità». È stato diffuso un manifesto con la scritta: “ 5 marzo, non cambiamo partito, cambiamo il partito”. Ecco, il punto. Non si parla qui di una nuova scissione, ma di una diversa rotta del Pd. Di un diverso comandante. La rivolta ha già delle figure di riferimento. La prima è Nicola Zingaretti. Se il governatore del Lazio sarà confermato con un buon risultato, diventerà una figura chiave nel caso di una dura sconfitta di Renzi. « Nel Lazio reggiamo solo grazie a Zingaretti », osserva la gentiloniana Lorenza Bonaccorsi, che corre in un collegio difficile di Roma. Ma dietro il governatore si stagliano ombre ancora più pericolose. A loro guardano i congiurati. Quella di Prodi, sempre visto come l’uomo in grado di ricomporre i pezzi. Forse quella di Walter Veltroni, che raccontano, al pari di Giorgio Napolitano, ha giudicato negativamente la partita delle liste dem. Non c’è bisogno di un congresso per portare a termine la rivoluzione: basta la parola di una personalità di quel calibro.
La formula del “facciamo i conti” deve però aspettare i numeri del 4 marzo. Allora si capirà anche quanto le granitiche maggioranze renziane in direzione e nei gruppi parlamentari saranno scalfite.
Il Fatto 2.2.18
Roma e il brusco risveglio libico. I migranti son tornati un incubo
Una grana elettorale dopo i primi successi. Solo intervenendo su Tripoli si risolverà il problema
di Guido Rampoldi
Affidarsi alla comunicazione, allo ‘spin’, insomma alla manipolazione delle notizie, è da molto tempo la tentazione irresistibile delle sinistre di governo alle prese con problemi spinosi, e anche la causa principale di tanti tonfi (il Labour di Blair, il Psoe di Zapatero, il Pd di Renzi, solo per citare i maggiori). Incapaci di immaginare soluzioni e paralizzati dalla paura di risultare impopolari, i gruppi dirigenti tirano avanti barricati dietro un ottimismo vuoto, prima o poi sgretolato dai fatti. Minniti rischia questa china. Per quel pochissimo che l’ho conosciuto, l’attuale ministro degli Interni è persona corretta e capace. Ma sconta un handicap: stando ai sondaggi è uno dei rarissimi politici benvoluti dagli italiani, a destra come a sinistra, perciò destinato a ruoli sempre più significativi (Palazzo Chigi?).
In Italia avere tale prospettiva garantisce stima incondizionata di editorialisti, direttori, editori, e di conseguenza abbassa i freni inibitori: sempre lodato, mai contraddetto, il politico di successo tenderà a edulcorare la realtà, consapevole che neppure una scemenza gli farà mancare l’amorosa sollecitudine del giornalismo ammaliato.
Da mesi i media neo-minnitiani, praticamente quasi tutti, ci raccontano i successi della politica italiana in Libia, i migranti intercettati in mare dalla Guardia costiera libica e accompagnati in ‘centri di accoglienza’, gli arrivi calati di due terzi, gli annegamenti diminuiti sensibilmente, i prigionieri dei lager libici destinati a essere presto rimpatriati o mandati in Europa da Onu e Organizzazione internazionale per i migranti, le 4 ong italiane che a gennaio cominceranno a operare nella zona di Tripoli.
Però c’è un’altra parte di verità sulla quale si sorvola, e non si tratta di dettagli. Addestrata, armata, finanziata dal Viminale, che dunque avrebbe leve per correggerne i comportamenti, la Guardia costiera libica è spesso al centro di episodi a dir poco controversi. Secondo denunce molteplici avrebbe impedito a Ong di soccorrere imbarcazione che stavano affondando, causando la morte dei passeggeri. E almeno in un caso raccontato dalla tv al Jazeera avrebbe rivenduto i migranti fermati in mare a un mercante di carne africana; quest’ultimo li avrebbe pagati mille dollari l’uno e poi li avrebbe torturati per obbligare le famiglie a pagare un riscatto. In ogni caso resta poco comprensibile per quale motivo non si riesca a condurre in aree sotto protezione internazionale o italiana quanti vengono intercettati in mare da unità libiche, impegnate in una missione sulla quale Roma ha molto influenza. Inoltre, ammesso che davvero diminuiscano gli annegati (e non semplicemente che si sia smesso di contarli), è probabile che aumentino i migranti uccisi da botte o da malattie nei lager: altrimenti non si capirebbe la disperazione di chi affronta i fortunali di gennaio pur di scappare dai ‘centri di accoglienza’, né le implorazioni che i sopravvissuti ci riversano appena sbarcati, direi senza impietosirci (laggiù è l’inferno, aiutateci!).
Infine le magnifiche sorti e progressive della politica italiana in Libia poggiano su un wishful thinking, ovvero scambiare il desiderio per realtà. Il desiderio vuole che da qui alla primavera il Paese sia grossomodo pacificato, si tengano elezioni politiche, Onu e Oim conducano in Europa dai 5 ai 10mila rifugiati, e gli altri siano finalmente soccorsi in qualche modo. La realtà va in direzione opposta. La guerra strisciante tra le milizie libiche incrudelisce, e ormai è anche guerra per procura (il fronte egiziano-emiratino contro il fronte turco-qatarino). Gli schieramenti sono così frastagliati che ormai la situazione è descrivibile come anarchia militare.
I migranti prigionieri nei lager o comunque in Libia sono nella condizione degli schiavi fuggiaschi nell’antica Roma – res nullius, cose di cui ciascuno può fare ciò che vuole. E il generale Haftar, tagliagole circondato da tagliagole che comanda nell’est, non pare aver voglia di addivenire a un compromesso, dato che dovrebbe rinunciare agli aiuti esterni (Egitto, Emirati), sola origine del suo potere.
Risultato: per le centinaia di migliaia di migranti intrappolati in Libia la fuga diventa l’unica garanzia di sopravvivenza. Ma soprattutto: da qualche tempo tra coloro che traversano il Mediterraneo c’è anche la classe media libica. Il segno più evidente che la politica italo-europea sta fallendo.
Prenderne atto in campagna elettorale per il governo Gentiloni è complicato, ma fingere che tutto vada per il meglio, cioè non fare nulla, è suicida. Beninteso, in Libia la situazione è così complessa e deteriorata che qualsiasi soluzione Roma progettasse sarebbe un azzardo, imporrebbe duri compromessi e probabilmente anche un uso (saggio) dello strumento militare. Imporrebbe, all’Italia e all’Europa, finalmente una politica estera per il Nordafrica. E la presa d’atto di quanti catastrofici errori sono stati commessi finora. Valga per tutti l’aver puntato sul protettore di Haftar, l’egiziano al-Sisi. Quest’ultimo rappresentava nel nostro immaginario il campione dei dittatori ‘filo-occidentali’, spietati ma laici e nostri alleati. Le previsioni vogliono che in marzo al-Sisi vincerà le elezioni (di fatto truccate) con i voti dei fondamentalisti salafiti; intanto sta negoziando con Mosca lo scambio tra una base militare e una centrale atomica, suscettibile di garantirgli in prospettiva la Bomba. Non sarà il caso che il ministro Minniti conduca l’informazio
La Stampa 2.2.18
Mussolini e Lenin le divergenze parallele
Partiti dal socialismo rivoluzionario, i loro itinerari si svilupparono in senso antitetico con la Grande guerra Un libro di Emilio Gentile che rovescia opinioni diffuse
di Mario Toscano
Non esiste la certezza che Benito Mussolini e Vladimir Il’ic Ul’janov (Lenin) si siano incontrati occasionalmente alla Brasserie Handwerk di Ginevra il 18 marzo 1904. L’ipotesi è comunque suggestiva per tratteggiare e incrociare le biografie politiche dei due personaggi nel successivo, incandescente ventennio del Novecento. Emilio Gentile (Mussolini contro Lenin, Laterza) ricostruisce accuratamente le loro esperienze, intrecciando i percorsi dei due futuri dittatori verso il potere in un lavoro che offre dati e spunti di riflessione sul rapporto tra guerra e rivoluzione, sul ruolo del leader carismatico nella nuova politica di massa, sulle difficoltà e la crisi della democrazia liberale durante e al termine della Prima guerra mondiale, proponendo una lettura originale della relazione tra le due personalità.
Diversi per età, ambiente familiare e collocazione sociale, Lenin e Mussolini agli inizi del secolo erano entrambi assorbiti dall’impegno politico nell’ambito del socialismo rivoluzionario. Ostili al revisionismo riformista, manifestavano concezioni simili della rivoluzione e del partito. Nel corso del decennio successivo, le loro carriere politiche conseguivano risultati differenti: nel congresso socialista di Reggio Emilia del luglio 1912, Mussolini emergeva come una delle figure più significative della corrente rivoluzionaria e assumeva poco dopo la carica di direttore dell’Avanti! Lenin fondava il partito bolscevico, ma il suo nome era sconosciuto alle masse operaie e contadine russe.
Lo scoppio della Grande Guerra imprimeva una svolta alle loro storie politiche: Lenin si schierava contro la guerra borghese e imperialista, accusava di tradimento i partiti della Seconda Internazionale, si appellava al proletariato internazionale affinché trasformasse la guerra imperialista in guerra civile internazionale. Mussolini, dopo aver condiviso la scelta neutralista del Partito socialista, individuava nel conflitto contro gli Imperi centrali l’evento destinato a scardinare l’assetto politico-sociale esistente e abbracciava la linea dell’interventismo rivoluzionario, che sosteneva dalle colonne del suo nuovo quotidiano Il Popolo d’Italia, ed era espulso dal partito.
Le vicende rivoluzionarie in Russia, a partire dal febbraio 1917, segnavano un’ulteriore diversificazione dei loro itinerari politici. La trattazione delle vicende russe da parte del Popolo d’Italia offre uno specchio significativo dell’evoluzione della posizione mussoliniana. La rivoluzione di febbraio, presentata come un moto della folla contro l’autocrazia zarista, accompagnato dalla volontà di proseguire la guerra, era una convalida dell’interventismo rivoluzionario. Il ritorno di Lenin in Russia nell’aprile del 1917, i suoi proclami contro la guerra erano accolti con disappunto. La presa del potere da parte bolscevica consolidava la critica nei confronti di un personaggio raffigurato come un agente al servizio del governo tedesco, «traditore della Russia, del socialismo, della libertà dei popoli, per la quale combattevano le nazioni dell’Intesa», come confermava la pace separata con la Germania.
L’attenzione del direttore del Popolo d’Italia si volgeva anche alle forme che andava assumendo il potere di Lenin, giudicato l’edificatore di una dittatura di partito e di una tirannia personale. Sin dagli inizi, le vicende russe avevano offerto al politico romagnolo anche un’occasione per polemizzare con i socialisti italiani, abbacinati (tranne i riformisti) dall’ascesa di Lenin e dal suo progetto rivoluzionario.
La polemica contro i «leninisti d’Italia» si accentuava nel dopoguerra, in un Paese lacerato dalle conseguenze del conflitto e percorso da un’ansia di rinnovamento e di rigenerazione che sfociava in aspre lotte sociali. Sfruttando limiti ed errori del massimalismo socialista, il movimento guidato da Mussolini passava nell’autunno del 1920 alla lotta contro un pericolo bolscevico ormai scomparso. Era il momento dell’affermazione dello squadrismo, della nascita del Partito fascista come partito milizia, che sosteneva la marcia di Mussolini verso il potere sulla base di un progetto politico nemico della democrazia e ostile ai valori del liberalismo.
La conclusione di Emilio Gentile è significativa e rovescia opinioni diffuse. A suo giudizio, «il duce nulla aveva appreso dal capo bolscevico. Né per conquistare il potere, né per costruire il proprio regime totalitario».
Il Fatto 2.2.18
“The Party”
Sì, è qui la festa e non risparmierà nessun ospite
di Federico Pontiggia
“The Party”, ovvero la festa e il partito. A tenerli insieme è la raffinata, idealista e rampante Janet (Kristin Scott Thomas), che è stata appena nominata ministro della Sanità del governo ombra: il coronamento della propria attività politica, che intende celebrare invitando a cena gli amici più intimi nella sua bella casa londinese.
Mentre lei si adopera in cucina con i vol-au-vent, peraltro ricevendo messaggi segreti al cellulare, il marito Bill (Timothy Spall) se ne sta seduto in salotto a sorseggiare vino e ascoltare musica (I’m a Man…): arrivano gli ospiti, la linguacciuta April (Patricia Clarkson) e il fidanzato in scadenza Gottfried (Bruno Ganz), un life coach new age; la giovane e incinta Jinny (Emily Mortimer) e la sua matura compagna Martha (Cherry Jones); Tom (Cillian Murphy), un banchiere senza scrupoli, che annuncia sua moglie Marianne arriverà per il dessert e nell’esagitata attesa tira cocaina in bagno. Queste sono le premesse, ma manca la più singolare: la prima volta che vediamo Janet sta puntando una pistola alla macchina da presa.
È il nuovo film scritto e diretto dall’inglese Sally Potter, che la 71enne regista di Orlando (1992) e Lezioni di tango (1997) presenta quale “commedia che vira in tragedia, in cui una festa tra amici volge al peggio”. Unità di tempo, luogo e azione, canoni del Kammerspiel e bianco e nero d’elezione (sapida fotografia di Alexey Rodionov), sfruculia nell’ipocrisia e nel perbenismo borghese à la Buñuel, seguendo traiettorie già sperimentate in anni recenti da Cena tra amici (Le prénom, 2012), il Carnage di Reza e Polanski (2011) e, se volete, il nostrano Perfetti sconosciuti (2016) o il salotto de La grande bellezza (2013). Qui, però, c’è più carne al fuoco e una ricetta – sebbene i vol-au-vent finiscano carbonizzati – più sofisticata: amore e politica copulano fedifraghi, nulla è come sembra e una pistola, se c’è, prima o poi dovrebbe sparare. Ma colpi più devastanti sono esplosi verbalmente da Bill, secondo quel binomio vecchio come il mondo di eros e thanatos: sì, è qui la festa, e non risparmierà nessuno.
Facendo danzare una camera snella e impicciona, la Potter fruga divertita e salace tra il fantasma in campo della Brexit e le meschinità dei suoi happy few per cultura – e censo? – chiedendo ai suoi interpreti semplicemente di render conto degli splendidi attori che sono. I frammenti del discorso amoroso sono vetri in frantumi, i cocci dell’ideologia, dal ruolo dell’intellettuale al post-post femminismo, e della verità tutta: che fare? Buttarla in battuta (“Provoca un aromaterapista e scoprirai un fascista”, “Sei una lesbica di primo livello e un’intellettuale di second’ordine”), per scoperchiare i soliti sepolcri imbiancati: Janet professa “verità e riconciliazione”, ma poi suona il campanello e… Dall’8 febbraio in sala, agile (71’), cattivello ed elegante: ottimo sotto elezioni.
La Stampa 2.2.18
Luca Zingaretti
“Montalbano è come me più felice e meno giovane”
A 20 anni dal debutto, su Rai 1 due nuove storie del commissario “Sogno una mia regia al cinema. Il solo ruolo d’attore mi sta stretto”
«Zingaretti sono, ma da vent’anni Montalbano divento». Giovani attori crescono, maggiore maturità, un accenno di ruga, consapevolezze conquistate negli anni. Sono andati avanti insieme, ruolo e interprete, alimentando l’uno la fama dell’altro. Ascolti record, vendita del prodotto pure in Papuasia. Persino le repliche stracciano la concorrenza fresca di giornata. E adesso la serie cult lancia due nuove storie, dove forse si ventila persino il matrimonio di Montalbano con l’eterna fidanzata Livia, interpretata da Sonia Bergamasco.
La giostra degli scambi (lunedì 12) con la partecipazione straordinaria di Fabrizio Bentivoglio e Amore , il lunedì successivo. Sempre la stessa squadra e alla regia, lo stesso Alberto Sironi.
Eppure lo sguardo si fa più ampio, tanto da abbracciare anche il cinema, come è oramai abitudine. Dal 2019, i nuovi episodi girati a primavera 2018 godranno di un’anteprima nelle sale cinematografiche anticipando di un mese la messa in onda televisiva. Un esperimento che esclude, per ora, la realizzazione di un prodotto prettamente cinematografico, come sostiene il produttore Carlo Degli Esposti, il quale è contrario anche a un coinvolgimento delle tv a pagamento per la diffusione di Montalbano: «Per Netflix sarebbe un’opportunità molto appetibile. Non per noi che abbiamo ancora davanti una lunga vita di programmazione tradizionale». Una lunga vita che ha già un lungo passato. E Zingaretti lo ricorda con orgoglio: «Vent’anni fa? Ero meno felice e un po’ più giovane. Iniziava una bellissima avventura su Raidue con un prodotto “poco televisivo”. Ritmo di narrazione alto, un tentativo che viaggiava sull’onda dei vecchi sceneggiati. Fu un trionfo da trasferimento su Raiuno».
Una galoppata continua che ha conosciuto solo un tentativo d’arresto. «La mia volontà di essere in questo ruolo deriva dal piacere e dalla spregiudicatezza. Consideri che io non ero nessuno e per Montalbano c’erano attori ben più conosciuti di me. È stato il produttore a difendere la sua scelta. Dissi di no a Montalbano nel 2006 per strategia. Meglio uscire tra gli applausi, mi dicevo, meglio 5 minuti prima che 5 dopo. Sbagliavo. Ho sentito la sua mancanza e me ne sono fregato delle strategie, proprio come avrebbe fatto Salvo. Così ho avuto il privilegio di seguire un archetipo nel suo arco letterario completo».
E questo non gli ha precluso ruoli diversi al cinema, in teatro e in tv. «Non conosco snobberie, faccio l’attore, mi piace prendermi il rischio di storie pericolose se queste mi convincono. Vedi The Pride a teatro. Un ruolo meraviglioso. Mi dicevano, “ma che fai, sei un sex symbol, non puoi parlare di omosessualità”. Invece no, questa pièce che colpisce l’omofobia andava messa in scena». E ancora, The Deep Blue Sea, di cui sarà regista e protagonista la moglie Luisa Ranieri. «Ho instaurato un patto di fiducia con il pubblico, ho giurato: mai paraculate da me. E si sono convinti. Anche i registi. Io sono un attore che non teme confronti. Lavoro da quando avevo 15 anni e lavoro tantissimo. Ho fatto anche l’alabardiere muto e studiavo gli attori per imparare. E se c’è qualcuno che fatica a immaginarmi, cambierà idea».
Lavorare un po’ meno per godersi la famiglia, promette, e al tempo stesso parla dei tanti progetti: «Ho tre film in uscita, un grande produzione televisiva e penso a una regia al cinema. Ma prima devo trovare qualcosa che mi riempia, provare l’esigenza di raccontare una storia. Con la maturità senti che il solo ruolo d’attore ti sta stretto e vuoi proporre al pubblico un’emozione. E non è solo narcisismo».
Corriere 2.2.18
Facebook perde colpi? Il tempo trascorso sul social in calo per la prima volta
Bene i conti, ma 50 milioni di ore in meno al giorno. Titoli su in Borsa
di Massimo Sideri
È una guerra del tempo quella che stiamo vivendo nell’era del Grande Like: il tempo speso a guardare una app piuttosto che un’altra. A postare una foto su Instagram piuttosto che ad ascoltare una canzone su Spotify. E Facebook, per la prima volta nella sua storia, non la sta vincendo a mani basse: ha perso in termini di attenzione degli utenti 50 milioni di ore ogni giorno nell’ultimo trimestre del 2017. In un anno lo strabiliante (quasi inverosimile) conto di 18 miliardi di ore-attenzione collettive bruciate o, ancora, 2 milioni di anni in meno passati a postare, cliccare pollicioni e guardare video virali di gattini. Potenza dei grandi numeri della Rete. Quante pubblicità si possono perdere in un anno con questa frenata? Ecco facilmente spiegato perché anche il colosso ha subìto il contraccolpo iniziale perdendo subito il 5 per cento in Borsa. Su una «popolazione» di 1,4 miliardi di utenti attivi al giorno (2,1 miliardi quelli mensili) si tratta di frammenti di distrazioni dei singoli che però tutti insieme si fanno masso: il 5 per cento in meno rispetto a prima. Peraltro con una perdita di 700 mila utenti in casa propria, Stati Uniti e Canada, scesi a 184 milioni. Anche questa una prima volta. Se Sant’Agostino nelle sue Confessioni diceva «so che cosa è il tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo» per Facebook invece c’è una spiegazione: il tempo speso sul social è quello sottratto a qualche altro «distrattore di massa», Google, Amazon, Netflix o Instagram. Non esiste la 25 ora nella nostra vita di fronte a computer e schermi di tablet o smartphone. Le ore sono sempre 24 e tolte quelle che il ciclo circadiano consegnano alla notte tutte le altre vanno spacchettate e occupate.
Lo stesso fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, presentando i conti, ha detto che è «stato un anno grande ma duro». È l’anticipo di una crisi di identità? Non è difficile ora collegare la frenata con il più radicale cambio all’algoritmo che era stato annunciato solo il 12 gennaio scorso, quello con cui si dava meno importanza ai contenuti esterni, come le news dei giornali, per un ritorno alle «origini», la socializzazione tra amici e famiglia. E non è difficile collegare questo ritorno al passato con il tour «politico» che Zuckerberg ha fatto nel corso del 2017 negli Usa parlando dell’importanza della «comunità» come fosse un santone medievale. Ciò che noi scopriamo oggi Zuckerberg lo deve avere sospettato un anno fa. Sembra che con le sue mosse abbia quasi voluto governare un «soft landing», un atterraggio morbido, come quelli pianificati dall’economia cinese che cresce a ritmi sempre vertiginosi ma non più come prima.
È ora evidente che qualcosa non va. E non è scontato che non sia un problema di cannibalizzazione tra Instagram (che piace di più ai teenager, ma non solo) e WhatsApp. Il tempo speso, come dicevamo, lo possiamo solo sottrarre, non aggiungere (dobbiamo pur sempre lavorare...).
Il titolo in Borsa ha recuperato (fino al 4%) dopo che la società ha raccontato che non si attende un calo nella raccolta pubblicitaria e dunque nell’utile. Mentre il tempo speso scendeva i ricavi salivano.
Ma contano di più gli utenti o gli utili? Dilemma non banale. Dietro tutto questo potrebbe anche esserci un tentativo «pilatiano» di Facebook di fare un apparente passo indietro dalla gestione dei contenuti che negli ultimi due anni ha creato solo problemi. La responsabilità editoriale non è un video virale di gattini, piuttosto è una brutta gatta da pelare. Fake news, accuse di avere per lo meno con leggerezza favorito pericolose influenze sulla Rete, casi purtroppo anche di suicidi tra i giovani per contenuti sfuggiti a qualunque controllo. La colpa non può essere data solo a una generica «tecnologia», ma a chi la gestisce e guadagna miliardi. Ecco perché un ritorno alle origini, pur non risolvendo i problemi (i migliori untori di fake news sono proprio gli amici), sembra una mossa poco convincente. Soprattutto per gli utenti. La storia continua, di sicuro.
Repubblica 2.2.18
La ragazza del hijab bianco
Capelli al vento contro i religiosi a decine come Vida in piazza in Iran
di Francesca Caferri
Dopo il fermo della donna simbolo delle proteste altre imitano il suo gesto: via il velo obbligatorio E le immagini viaggiano sulla Rete. Già 29 arresti
C’è la ragazza dai capelli verdi che sale su un muretto e resta lì, immobile, forse protetta da un gruppo di ragazzi. Le amiche che si tengono per mano e si sfilano il velo davanti alla porta chiusa di una moschea. La donna con il chador, coperta da capo a piedi, che sale su una cassetta dell’elettricità e fa ondeggiare nell’aria un fazzoletto: simbolo di una battaglia che non è la sua, ma che sente comunque di difendere. E poi ci sono gli uomini: nelle strade, così come nelle campagne o sulla cima di una montagna. Era iniziata quasi sotto traccia, solo sui social network, più di un anno fa: ma la campagna delle donne iraniane che protestano contro l’obbligo di indossare il velo sui capelli in pubblico negli ultimi giorni è dilagata, diventando il paradigma di un Paese – o di una parte di esso – che nonostante le tante repressioni non ci sta a farsi indicare la strada dai religiosi in ogni aspetto della vita.
Ventinove donne, secondo il calcolo dei social media, sono state arrestate da quando, il 27 dicembre, la 31nne Vida Mohaved è stata fermata nel cuore di Teheran dopo essere salita su una cassetta dell’elettricità ed aver sventolato il suo velo bianco su un bastone. La donna è rimasta per settimane in detenzione ed è stata liberata pochi giorni fa: ma il suo gesto ha acceso un movimento che sta iniziando a infastidire i vertici della Repubblica islamica.
Prova ne è il fatto che la cauzione fissata per la liberazione di alcune delle donne arrestate è altissima per gli standard iraniani. E che due giorni fa anche il procuratore generale della Repubblica, Moahammad Jafar Montazeri è intervenuto per promettere il pugno duro contro le ragazze: «Azioni nate dall’ignoranza», ha detto. « Se credono nell’Islam sanno che per la sharia il velo è obbligatorio».
Ma le minacce non sono servite a fermare le donne: lunedì ne sono state arrestate sei, mercoledì – giorno inizialmente dedicato alla protesta – più di 20.
« Credo che queste proteste proseguiranno: è ovvio che alcune donne vogliono decidere da sole » , dice Nasrin Sotoudeh, la più nota avvocata per i diritti umani in Iran, lei stessa a lungo imprigionata per le sue battaglie. « Siamo stanche che a decidere per noi siano i religiosi: sulla nostra vita così come sul nostro abbigliamento » , commenta da New York Masih Alinejad, 32nne giornalista iraniana in esilio, fondatrice del movimento My Stealthy Freedom che per prima ha lanciato la protesta.
È troppo presto per dire se questo gesto ha la forza di diventare una spina nel fianco reale per il regime iraniano o l’onda è destinata ad esaurirsi presto. Ma il fatto che tante donne abbiano scelto di tornare in piazza sapendo bene di rischiare l’arresto a poche settimane dalle proteste represse di dicembre scorso, che hanno portato in carcere 4mila persone e ne hanno viste 25 morire, è molto significativo.
Il velo che copre i capelli è obbligatorio per le donne in Iran dalla rivoluzione del 1979: fino a qualche mese fa la polizia poteva fermare le donne che non coprivano abbastanza i capelli, ma da poco questi poteri sono stati sensibilmente ridotti, almeno nelle grandi città. A molte iraniane tuttavia questo non basta, come la campagna di questi giorni dimostra.