il manifesto 1.2.18
Il totalitarismo burocratico e riluttante dello Stato fascista
«La macchina imperfetta», un denso saggio di Guido Melis per Il Mulino
di Claudio Vercelli
L’Italia
divenne per davvero uno «Stato fascista» o non sarebbe invece meglio
parlare di uno Stato ai tempi del fascismo? In altre parole, quale dei
due capi della relazione prevalse durante il Ventennio mussoliniano?
La
dimensione ideologica, con la sua carica al medesimo tempo aggressiva e
radicalizzante, ispirata a una tanto incongrua quanto ipnotica
modernizzazione, oppure la continuità degli apparati già ereditati
dall’esperienza dell’amministrazione liberale, poi transitati attraverso
la Grande guerra e riprodottisi, sia pure con alcune differenze,
soprattutto dinanzi alle sollecitazioni introdotte dal conflitto sociale
postbellico, nell’organizzazione di regime? Guido Melis, storico
contemporaneista, docente alla Sapienza di Roma e studioso delle
dinamiche delle pubbliche amministrazioni, nel suo corposo lavoro
dedicato a La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato
fascista (il Mulino, pp. 616, euro 38), parla non a caso di «un
totalitarismo sempre annunciato e mai interamente realizzato, un sistema
di istituzioni imperfetto, fatto di vecchi e nuovi materiali
confusamente assemblati senza un progetto lineare, con un’evidente
vocazione, nei momenti cruciali della ricostruzione dello Stato, al
compromesso tra vecchio e nuovo».
IL QUADRO che l’autore ci
restituisce è quello di una complessa e stratificata policrazia in
totale assenza di pluralismo, propendente quasi sempre alla
compromissorietà. Quindi incapace di tradurre intuizioni e suggestioni
in pratiche politiche autonome, dovendo semmai costantemente rispondere a
mediazioni variamente articolate, che ne affaticavano e appesantivano
il percorso, molto spesso producendo un’eterogenesi dei risultati. In
altre parole, non si era in presenza solo dell’evanescenza, della
millanteria e del velleitarismo del regime, caratteristiche
sbrigatoriamente identificate dai suoi avversari come i suoi tratti
esclusivi, ma dell’organica incapacità di dare corpo e sostanza ad un
progetto di Stato «nuovo» da affiancare alle non meno incaute
formulazioni sull’affermarsi di un modello di uomo antiborghese,
connotato dai tratti viriloidi e guerrieri.
LA GUERRA mondiale si
sarebbe peraltro incaricata di fare strame di queste posizioni
identitarie, sulle quali il fascismo aveva costruito una ricca
narrazione di sé, salvo poi rivelare la fragilità dell’intero impianto.
Alla
persistenza così come alla sovrapposizione, alla reciproca
contaminazione ma anche alla competizione tra organismi ed apparati
vecchi e nuovi, si accompagnava dunque il persistente riprodursi di una
dialettica tra interessi contrapposti, proprio per ciò impossibilitati
ad arrivare a quella inedita sintesi che il fascismo intendeva invece
proporre come la vera chiave attraverso la quale leggere la sua carica
eversiva. Afferma Melis: «emerge la novità ambigua di uno Stato-partito
costituito ex novo modificando in profondo la Costituzione liberale, ma
al tempo stesso condizionato sino all’ultimo dalla sopravvivenza degli
antichi equilibri: cioè dal modello di Stato ideato a fine Ottocento dai
maestri del diritto costituzionale e amministrativo».
Si tratta
di una questione che va ben oltre il problema della reciproca
perimetrazione tra la Corona e il regime, in un sistema di persistente
diarchia dove la propensione alla neutralizzazione dell’interlocutore,
potenzialmente antagonista, si traduceva nella difficoltà di portare
avanti linee autonome di indirizzo politico.
UN FATTO che richiama
non solo il problema storiografico, al netto di qualsiasi giudizio
politico e morale, del grado di effettiva dirompenza del fascismo sulla
scena italiana, e poi europea, ma anche il tema della funzione della
sovranità, e delle modalità del suo esercizio, in quello Stato
contemporaneo che era il prodotto dell’età della nazionalizzazione delle
masse. Poiché la vicenda del sistema mussoliniano, ovvero del suo
originario costituirsi e poi della sua ventennale coesistenza con quello
regio, in assenza di qualsiasi dialettica che non fosse quella
prescritta da un rapporto di esclusività tra questi due soggetti, e di
riflesso di questi con gli altri attori pubblici, rimanda immediatamente
al problema della condivisione competitiva di un comune terreno, quello
dell’identità delle istituzioni pubbliche e, con esso, della fedeltà
agli autentici centri di potere.
PARE QUINDI più plausibile
leggere le mancate od omesse realizzazioni del fascismo in rapporto ad
un tale campo di tensioni che non solo come il risultato del suo deficit
originario di cultura e capacità di azione politica. Va detto a suo
merito che Melis sa accompagnare con coerenza il lettore attraverso il
ginepraio di istituzioni, soggetti collettivi, attori individuali ma
anche situazioni, percorsi e contesti che hanno caratterizzato tra il
1922 e il 1943 il totalitarismo imperfetto e riluttante dello Stato
fascista. Il libro si compone infatti di quattro macroaree tematiche di
indagine, rispettivamente dedicate al governo, al partito, alle
istituzioni legislative, giudiziarie, repressive e, infine, allo Stato
come gestore e mediatore di interessi corporativi. Non costituisce una
storia del fascismo ma un’indagine sull’amministrazione italiana in età
fascista così come del regime nel suo definirsi in rapporto al reticolo
amministrativo. Anche per questo, affiancandosi ai lavori di Sabino
Cassese, è un utile contributo di analisi, di contro, invece, alla
tendenza alla banalizzazione del problema del lascito dell’esperienza
del Ventennio.