Corriere 1.2.17
L’Orso russo senza ideologia
L’Unione Sovietica era meno aggressiva di quanto apparisse. Oggi c’è spazio per il dialogo
Testimonianze.
Un libro dell’ex ambasciatore a Roma, Anatolij Adamishin, consente di
rivedere i giudizi della guerra fredda sulla politica di Mosca
di Sergio Romano
La
guerra fredda fu un’epoca di grandi semplificazioni. I due blocchi
sapevano di non potersi fare la guerra; e vi furono persino momenti in
cui accettarono di sedere intorno a un tavolo per trovare intese che
rendessero la prospettiva di un conflitto più lontana e improbabile. Ma
sospettavano delle reciproche intenzioni ed erano entrambi convinti che i
loro interessi, nonostante qualche temporanea schiarita, fossero
fondamentalmente inconciliabili. Come spesso accade in queste
circostanze, l’inconciliabilità era alimentata nei due campi
contrapposti da istituzioni e gruppi di pressione che avevano interesse a
evitare un reale disgelo.
Per i Paesi occidentali l’Unione
Sovietica era il Paese che aveva brutalmente liquidato l’insurrezione di
Budapest, installato missili a Cuba, stroncato con una invasione la
Primavera di Praga, aggredito l’Afghanistan. Per l’Urss, nel frattempo,
gli Stati Uniti erano una potenza imperiale, la nave ammiraglia del
capitalismo, il direttore d’orchestra della finanza internazionale. La
Carta di Helsinki, firmata dai due blocchi nel 1975, suscitò qualche
speranza, ma l’invasione dell’Afghanistan nel 1979, le continue
«intrusioni» sovietiche nel Medio Oriente e in Africa, la installazione
dei missili di gittata intermedia nei territori occidentali dell’Urss e
l’abbattimento di un jumbo delle linee aeree sudcoreane nello spazio
aereo sovietico il 1° settembre 1983, sembrarono dimostrare che era
inutile attendere da Mosca qualcosa di nuovo. Questo giudizio piace
naturalmente a tutti coloro per cui la politica estera della Russia di
Vladimir Putin e quella dell’Urss si assomigliano come gocce d’acqua.
Commettevamo
un errore. In realtà la politica estera sovietica e quella della Russia
dopo il crollo dell’Urss sono sempre state molto più varie e articolate
di quanto sembrassero a Washington e a Londra. Lo dimostra un libro
apparso recentemente a Mosca. Si intitola In tempi diversi. Saggi di
politica estera ed è stato scritto da un ex diplomatico, Anatolij
Adamishin, che ha terminato la sua carriera pubblica, durante la
presidenza di Boris Eltsin, come ministro per i rapporti con la Comunità
degli Stati indipendenti: un incarico che corrisponde a quello del
segretario di Stato per il Commonwealth in un gabinetto britannico.
Adamishin
conosce bene l’Europa occidentale (è stato ambasciatore in Italia e in
Gran Bretagna) e ha lavorato, anche come viceministro con tre persone
che rappresentano altrettante fasi della politica russo-sovietica:
Andrej Gromyko all’epoca di Leonid Brežnev, Eduard Shevardnadze
all’epoca di Mikhail Gorbaciov, e Andrej Kozyrev durante la presidenza
di Boris Eltsin. Il libro è molto piaciuto alla sezione moscovita della
Carnegie Foundation for International Peace (uno dei migliori
osservatori occidentali a Mosca).
In ciascuna di queste tre fasi
la politica estera russo-sovietica è stata molto meno ideologica di
quanto potesse sembrare a un osservatore straniero. Brežnev, con l’aiuto
di Gromyko, voleva consolidare le posizioni conquistate alla fine della
Seconda guerra mondiale e aspirava a essere trattato dagli Stati Uniti
come una sorta di condomino della scena internazionale. È certamente
vero che sostenne i regimi autoritari del Medio Oriente e aiutò i
movimenti rivoluzionari a sud del Sahara. Ma in una situazione in cui
tutti i vecchi imperi coloniali stavano morendo, non è sorprendente che
l’Urss ne approfittasse per allargare la propria area d’influenza a
Paesi che si stavano liberando dai loro vecchi padroni.
Shevardnadze
assecondò abilmente la politica distensiva di Gorbaciov e verrà
ricordato come il ministro degli Esteri che maggiormente lavorò per la
fine della guerra fredda. Kozyrev si adoperò perché alle aperture
internazionali corrispondessero altrettante aperture sul piano
nazionale. Pensava che i rapporti della Russia con le democrazie
sarebbero stati tanto più facili quanto più il suo Paese fosse riuscito
ad acquisire una rispettabile credibilità democratica.
Esisteva
tuttavia un altro fattore di cui Adamishin divenne rapidamente
consapevole. Per parlare agli Stati Uniti e alla Unione Europea su un
piano di parità non bastava essere un enorme Stato nucleare. Nel momento
in cui rinunciava alla economia di comando e accettava le regole del
mercato, la Russia doveva dimostrarsi capace di modernizzare se stessa,
di sfruttare in modo trasparente le proprie risorse, di garantire le
regole della concorrenza, di dare agli investitori stranieri le
necessarie garanzie. Sappiamo che le cose sono andate diversamente.
Invece di favorire la nascita di nuovi ceti sociali composti da
commercianti e imprenditori, la Russia di Eltsin ha generato oligarchi
ambiziosi e rapaci.
Putin ha avuto il merito di liberare il campo
da questi nuovi boiari, ma sembra averne tollerato altri, purché vicini
al Cremlino. Nella questione ucraina credo che siano stati commessi
errori da una parte e dall’altra, ma sono convinto che le sanzioni
abbiano soltanto l’effetto di ritardare la modernizzazione della Russia e
di nuocere ai Paesi, fra cui l’Italia, che hanno maggiore familiarità
con il suo mercato e possono dare un maggiore contributo alla sua
crescita politica ed economica.