il manifesto 1.2.18
Parabola della stampa libera nell’America di Nixon
Al cinema. «The Post» di Steven Spielberg, la battaglia del quotidiano di Washington per pubblicare i Pentagon Papers
di Giulia D'Agnolo Vallan
NEW
YORK L’urgenza del presente e un omaggio al cinema di attivismo
politico anni settanta, di cui però Spielberg, figlio della cinefilia,
non condivide il DNA, sono le forze che animano The Post -concepito in
velocità, la primavera scorsa, tra il fallimento di Il grande gigante
gentile e l’uscita, in marzo, di Ready Player One. Un film di attori
(Meryl Streep e Tom Hanks, più un supporting cast di prestigio),
strappato ai titoli di testa dei giornali e (nella texture) evolutosi
con loro in corso di lavorazione, tra due studi di sperimentazione
narrativa/tecnologica dedicati a Roald Dahl e al VR.
Sulla carta,
The Post ha l’aspetto di un viaggio nel tempo. La giungla verde in cui
apre – su note stridenti: i Doors secondo John Williams- è quella del
Vietnam. Quella grigio-bianca di mausolei di pietra e palazzi vetrati in
cui si sposta subito dopo è la giungla di Washington – primavera 1971.
Il
gallese Matthew Rhys, agente KGB protagonista di The Americans, è
Daniel Ellsberg, l’analista militare che, dopo aver toccato con mano il
disastro nel Sudest asiatico, rivoluzionò l’opinione pubblica
rilasciando ai media i Pentagon Papers, lo studio commissionato da
McNamara per ricostruire il coinvolgimento politico Usa in Vietnam,
dalla seconda guerra mondiale in poi.
Antesignano di Chelsea
Manning e Edward Snowden, Ellsberg non è però «la storia» di questo
film. The Post decolla infatti quando lui esce di scena e il racconto si
sposta ai vertici del «Washington Post» e nella sua redazione,
ricostruita già in Tutti gli uomini del presidente, e nel cui spazio
aperto la macchina di Spielberg scorrazza con la stessa determinazione
di quella di Alan Pakula.
Mondo maschile, romanticamente
«ingrato», a base di inchiostro, camice stropicciate, notti solitarie
passate alla macchina da scrivere e take out da poco, la newsroom del
«Post» è capitanata come una caravella corsara da Ben Bradlee (Tom
Hanks, la cui grisaglia una taglia più stretta del dovuto tradisce
un’esuberanza da frontiera western che mal tollera il controllo
sartoriale della burocrazia).
Ma il vero padrone è un altro. Anzi,
un’altra. Virtualmente invisibile in Tutti gli uomini del presidente la
proprietaria del «Washington Post», Katherine Graham è la protagonista
della parabola di Spielberg, un’avventura di riscossa femminile e di
trionfo del free speech nell’America di Richard Nixon che (purtroppo
implausibilmente, come nota Bret Easton Ellis) sta per quella di Trump.
Figlia del finanziere repubblicano Eugene Meyer che, nel 1933, aveva
acquistato il quotidiano della capitale a un’asta post bancarotta,
Graham era stata sorpassata alla successione del «Post» a favore di suo
marito, Phil Graham. Nella sua autobiografia lei ha dichiarato di non
aver preso la scelta di suo padre come uno sgarro, bensì come una mossa
logica.
Fu il destino a riparare l’ingiustizia quando, dopo il
suicidio del consorte, Graham si trovò alle redini della testata.
Streep, nei panni della prima donna a entrare nei Fortune 500, e la cui
dirigenza rese possibile l’exploit giornalistico del Watergate, ce la
presenta inizialmente un po’ esitante, quasi la caricatura di una
socialite. Nella realtà, Graham era tutt’altro che una farfalla da
salotto: amava il giornalismo, aveva lavorato per il «San Francisco
News» e per la pagina editoriale del giornale di suo padre. Spielberg
tesse tra la sua Graham e il burbero, rompicollo, direttore Bradlee una
tacita alleanza che si movimenta quando un’ingiunzione impedisce al «New
York Times» di continuare la pubblicazione dei Pentagon Papers e il
«Post» deve decidere se andare avanti o no.
In gioco, teme il Cda,
è l’imminente ingresso della testata su Wall Street, l’appoggio delle
banche. Ma è a un’altra reputazione che Graham sta pensando. Sarà lei la
più lungimirante. Spielberg chiude con un’inquadratura sulla Casa
bianca. La voce dall’ interno è quella di Nixon, che ordina la messa al
bando del «Washington Post». Potrebbe essere una classica tirata
anti-media di Trump. Lo stacco successivo: tre finestre illuminate in un
palazzo d’uffici è l’inizio di Tutti gli uomini del presidente.
«Pronto, polizia? Credo sia in corso un break in al Watergate».
Un semplice auspicio, o una profezia