domenica 18 febbraio 2018

il manifesto 18.2.18
Il ricatto di Israele ai rifugiati è realtà
Israele. Diventa operativo l'emendamento alla "legge degli infiltrati", approvato in dicembre. Duecento richiedenti asilo africani dovranno comunicare la loro decisione: l'uscita "volontaria" dal Paese o la prigione.
di Michele Giorgio


Duecento eritrei saranno oggi i primi richiedenti asilo africani a dover comunicare alle autorità israeliane la loro decisione: l’uscita “volontaria” dal Paese o la prigione. Diventa operativo l’emendamento alla “legge degli infiltrati”, approvato in dicembre, che ha sollevato polemiche e proteste, anche da parte di intelletuali, artisti ed esponenti religiosi – alcune famiglie si sono impegnate a nascondere in casa loro i richiedenti asilo – ma che gode, secondo un sondaggio, il sostegno del 66% degli israeliani. Forte del favore di 2/3 della popolazione, il governo Netanyahu non è arretrato di un metro rispetto a quanto ha deciso alla fine dello scorso anno. Vuole deportare mensilmente almeno 600 dei circa 38mila africani – Il 72% sono eritrei e il 20% sudanesi – entrati fra il 2006 e il 2012 nel Paese passando per il Sinai, prima che Israele costruisse un muro al confine con l’Egitto. Ad ostacolare i piani del governo ci sono solo le sentenze dei tribunali. Qualche giorno fa una corte ha riconosciuto come gli eritrei fuggiti dal loro Paese per evitare il servizio militare abbiano titolo per ottenere l’asilo politico. Quanto questa sentenza potrà avere un impatto non è facile stabilirlo con un esecutivo che ha dimostrato di saper trovare le scorciatoie legali per aggirare i giudici e continuare la sua politica contro gli “infiltrati”.
Presi di mira per primi sono gli uomini single. Una volta ricevuta la notifica del governo devono scegliere se partire, con in tasca 3500 dollari, o finire in una cella. Per molti, specie gli eritrei, il ritorno in patria vorrebbe dire essere arrestati o uccisi. Chi non vuole tornare al Paese d’origine viene portato in Ruanda o Uganda, esponendosi ad un pericoloso salto verso l’ignoto. Lo scorso 7 febbraio migliaia di richiedenti asilo – acccompagnati da Reuven Abergil, un leader del movimento israeliano delle “Pantere Nere” attivo negli anni Settanta – avevano manifestato davanti all’ambasciata del Ruanda a Herzliya, a nord di Tel Aviv, esponendo cartelli con la scritta «La nostra espulsione in Ruanda equivale a una condanna a morte». Alcuni si erano dipinti il volto di bianco: «Adesso che siamo bianchi anche noi – hanno scandito – ci espellerete ancora nel Ruanda?».
Resta avvolta nel mistero la collaborazione tra il Ruanda di Paul Kagame – ora alla presidenza di turno dell’Unione Africana – e il programma di deportazioni degli eritrei e dei sudanesi messo in atto dal governo Netanyahu. Kagame ripete che non esiste alcun accordo con Israele e che il Ruanda non ha dato la sua disponibilità a ricevere i richiedenti asilo espulsi. I media israeliani invece insistono sull’intesa tra i due Paesi e aggiungono che il Ruanda riceverà 5000 dollari per ogni deportato e altri non meglio precisati “benefici”. Nei giorni scorsi il giornale progressista on line +972 ha pubblicato il reportage da Kigali scritto da due deputati israeliani, Mossi Raz e Michal Rozin, del partito Meretz. Entrambi hanno avuto modo di incontrare alcuni eritrei espulsi negli anni passati. E il loro resoconto descrive una realtà ben diversa da quella positiva e colorata del Ruanda che raccontano in Israele a sostegno della politica di deportazioni. Alcuni degli intervistati – spinti ad accettare l’espulsione di fronte alla prospettiva di essere rinchiusi nel cosiddetto “centro di accoglimento” di Holot, nel deserto del Neghev – hanno riferito che le autorità locali fanno enormi pressioni sugli espulsi da Israele affinché lascino subito il Paese, già 2-3 giorni dopo il loro arrivo. gettandoli di fatto nelle braccia dei trafficanti di essere umani. Un atteggiamento che non sorprende se si tiene conto della politica del Ruanda verso i 170mila profughi del Burundi e della Repubblica democratica del Congo che ospita malvolentieri nel suo territorio. Gli espulsi da Israele perciò in buona parte entrano in Uganda, altri si spingono verso il Nord Africa dove, al termine di un viaggio che può costare la vita e persino la riduzione in schiavitù, provano dalle coste libiche a raggiungere le coste dell’Europa.
Messi in guardia da coloro che già sono stati deportati, molti dei richiedenti asilo ora in Israele sembrano decisi ad andare in prigione piuttosto che in Africa. E l’amministrazione carceraria israeliana ha già segnalato che non potrebbe esserci posto per tutti gli africani che rifiutano la deportazione.