domenica 18 febbraio 2018

Corriere 18.2.18
Paolo Portoghesi

«Che danni dalle archistar Ho ricevuto minacce di morte per la Moschea di Roma»
di Paolo Conti


L’architetto: credo ancora nel socialismo, ma Craxi sbagliò
P aolo Portoghesi, 86 anni il 2 novembre scorso. Per molti «Portoghesi» è sinonimo di Grande Moschea di Roma. Cosa significa per lei quell’edificio?
«Una straordinaria occasione. Sono romano. Era un punto d’onore, per me architetto, lasciare a Roma un segno. Sono stato fortunato: è un’opera di grande valore simbolico, rappresenta per la Capitale il suggello della libertà religiosa, il ritorno alla ricchezza che viene dalle differenze e dalle molteplicità. Come successe quando arrivò il Cristianesimo nella Roma dell’Impero».
Una storia durata vent’anni, dall’ideazione nel 1973 all’inaugurazione nel 1995. Allora l’Islam faceva meno paura...
«Veramente faceva già paura ai tempi. Il sindaco di Roma, Giulio Carlo Argan, io e Vittorio Gigliotti, che lavorò con me al progetto, fummo minacciati di morte. Circolarono volantini: “Vi gambizzeremo”. Li conservo ancora... Molta paura, ma non successe nulla. Erano cattolici di destra, e frange del Msi. Poi la destra si scusò, ammise di aver sbagliato».
Dicono che Papa Paolo VI avesse dato via libera. È così?
«Certo. Non ci fu nulla di ufficiale. Ma il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, annunciò in un viaggio ufficiale in Arabia Saudita il progetto della Moschea. Nell’Italia di allora, non avrebbe potuto farlo senza il sì del Vaticano».
Torniamo ai simboli della Moschea: arte, religione, dialogo...
«...e petrolio, direi. Leone si impegnò sulla Moschea ed ebbe in cambio la promessa del petrolio, allora essenziale».
Soddisfatto, oggi, del risultato estetico?
«Non sono mai soddisfatto di ciò che ho realizzato, penso sempre che avrei potuto fare di meglio. Ci furono discussioni, una dolorosa lite con Bruno Zevi... Ma Argan, grande storico dell’arte, mi disse: “Sapevo che eri un ottimo storico dell’architettura, vedo che sei anche un eccellente architetto”. L’opera è citata in tutte le maggiori storie dell’architettura del mondo. La Moschea di Roma ha anche una figlia, la Moschea di Strasburgo, oggi luogo di dialogo tra le tre grandi religioni monoteiste. Le due Moschee sono straordinarie macchine di avvicinamento».
Tra i due Grandi Duellanti, Bernini e Borromini, lei ha subito scelto il secondo. Perché?
«Sono nato con sant’Ivo alla Sapienza negli occhi, abitavo in via di Monterone, scrissi il mio primo testo su Borromini a sedici anni. Di lui amo la libertà di operare all’interno della classicità, ma facendola muovere, quasi risvegliare, aprendo una nuova stagione creativa, spalancando spazi di sperimentazione all’architettura e, quindi, la via alla stessa avanguardia».
Nel 1980 lei firmò la sua Biennale Architettura di Venezia con la Via Novissima invitando nomi dal grande futuro: Frank Gehry, Rem Koolhaas, Charles Moore, Hans Hollein. Ora molti riconoscono quell’intuizione.
«Erano tutti, guarda caso, fanatici di Borromini. Conoscevo bene quei talenti creativi e speravo che sviluppassero una sorta di unità nel solco della tradizione, anche nella ricchezza delle posizioni diverse. Invece hanno proceduto per vie individuali, all’insegna dell’avanguardia. Sono diventati Archistar...».
Ma l’avanguardia non è contemporaneità?
«La modernità è stata esaltata e nello stesso tempo interrotta dall’avanguardia. Sono convinto che l’arte possa riconquistare il suo prestigio superando l’avanguardia e non continuando a innovarla con risultati modesti ed enorme fatica».
Detesta il sistema delle Archistar?
«I cambiamenti climatici impongono una radicale svolta negli stili di vita. L’Occidente dovrà smettere di credere nella crescita infinita e nel dominio dell’economia sulla cultura. Oggi occorre un’architettura semplice, quotidiana, figlia dei luoghi, capace di risolvere i problemi della gente comune. Non di crearne».
Ha qualche danno da Archistar in mente?
«Potrei fare facili esempi, ma non mi sembra il caso. Qualcuno è stato mio allievo».
Lei sostenne il Psi di Craxi, di cui fu grande amico. Rinnega quell’esperienza?
«Non rinnego la fiducia nell’ipotesi legata al socialismo, un filone di pensiero al quale mi sento ancora legato. Mi iscrissi al Psi nel 1961. E ricordo i primi anni di Craxi segretario, molto timido, incapace di trovare i fondi per rinnovare il partito: la Dc poteva contare sui soldi Usa, il Pci su quelli russi... Craxi oggettivamente sbagliò, pensando di risolvere il problema rivolgendosi alle attività imprenditoriali. Un metodo assolutamente non condivisibile. Però ho sempre pensato che Craxi sia stato distrutto dal progetto del Pci di arrivare al governo passando sul suo cadavere. Ma sono mie considerazioni personali...».
Lei fece parte del Comitato Centrale del Psi.
«Sì, ma non ho mai fatto parte di ciò che era chiamato sottogoverno. Sono uscito indenne. Non sono mai stato nemmeno ascoltato da Di Pietro».
Ricorda la Milano da bere e la Roma socialista?
«La prima no, ero preside ad Architettura nella Milano degli anni precedenti. Mai avuto simpatie per la Roma socialista. Con mia moglie Giovanna vedevamo molta gente in casa, in via Gregoriana: scrittori, intellettuali, Fellini, De Chirico. Per il piacere di mettere insieme persone diverse».
Lei è sposato con Giovanna Massobrio dal 1971. Cosa ha significato per lei un’unione così solida?
«Sono di natura timido, ho la vocazione alla solitudine: da bambino i miei miti erano Borromini, Leopardi e Rimbaud. Giovanna mi ha regalato mille stimoli e curiosità, tra cui quella per la vita sociale. Abbiamo scritto insieme libri sulla storia del gusto. Senza di lei non sarei quello che sono».
Possibile che l’essere legato al Psi non sia mai stato un vantaggio?
«Indubbiamente mi ha facilitato nella designazione alla Biennale architettura nel 1980 e poi alla presidenza della Biennale. Ma ho subito combattuto contro chi chiedeva favori e assunzioni. Non ho proprio nulla da rimproverarmi».
Dieci anni fa lei ha inventato, per la facoltà di Architettura de La Sapienza a Roma, un nuovo insegnamento, Geoarchitettura. Perché?
«Perché penso che l’architettura debba cambiare strada, diventare un’arte collettiva vicina alle persone che vivono e lavorano nelle città, nei luoghi. Un motivo di conforto mi arriva dalla diffusione della Street Art che, per esempio a Roma, opera dopo aver consultato gli abitanti dei quartieri e riscuotendo il consenso non dei piccoli e ricchi clan che sostengono un’arte contemporanea sempre più astrusa e incomprensibile, ma di intere collettività, spesso entusiaste. Si rivede così la fiducia nella figurazione, nello splendore dei colori, magari con ingenuità».
L’arte contemporanea è davvero astrusa?
«La tragedia della sua incomunicabilità penso sia palese alla stragrande maggioranza delle persone. L’arte deve tornare alla bellezza che è, come dice Stendhal, promessa di felicità. L’arte contemporanea si crogiola invece nell’esteticità. Ben altra cosa».
Nella sua casa di campagna a Calcata, con sua moglie ospitate un vero zoo: gru, cicogne, pavoni, muli. Perché?
«Li abbiamo scelti per la loro bellezza. La nostra generazione ha scoperto che siamo tutti figli della natura. L’Homo Sapiens è l’unico essere responsabile, ma condivide con gli altri un intero mondo, compresi alcuni diritti. Il primo fu un asino: vedendo il film Au hasard Balthazar di Robert Bresson scoprii quanto l’asino somigli all’uomo».
Col libro «Il sorriso di tenerezza/ Letture sulla custodia del creato» lei richiama esplicitamente le parole di Papa Francesco. Cosa pensa di lui?
«Penso sia l’unica persona capace di convincere il mondo contemporaneo a cambiare stili di vita, a difendere l’ambiente, ma evitando che terra e natura vengano divinizzate. Tentazione ricorrente dell’ambientalismo».
Concludendo: pensa di essere un architetto compreso o incompreso?
«Devo compiere un peccato di superbia. Credo che ciò che ho fatto non sia stato ancora compreso veramente e magari lo sarà tra trenta o cinquant’anni. Ho avuto e ho molti nemici ma se davvero si cambiasse stile di vita, si capirebbe che la mia architettura è “calda”, non “fredda”. Jean Clair parla della “giustizia delle forme”. Prendiamo Marcello Piacentini. Hanno tentato di distruggerlo dandogli del fascista... ma alla fine ha prevalso la “giustizia delle forme”. Un caso che apre il cuore alla speranza».