giovedì 15 febbraio 2018

il manifesto 15.2.18
Sul caso Netanyahu l’ombra dello scontro tra il premier e Yair Lapid
Israele. Respinge le accuse di corruzione il primo ministro israeliano, di cui la polizia ha chiesto l'incriminazione. Un testimone chiave nell'inchiesta è l'ex ministro delle finanze Yair Lapid, un accanito rivale di Netanyahu. Deciderà il procuratore Mandeblit chiamato ad approvare formalmente l'incriminazione.
di Michele Giorgio


Sigari e champagne, parafrasando un vecchio detto, rischiano di ridurre in cenere Benyamin Netanyahu. Ma il premier israeliano, di cui martedì sera la polizia ha chiesto alla magistratura l’incriminazione per corruzione, non cede e respinge al mittente l’appello alle dimissioni immediate lanciato ieri dal leader laburista Avi Gabbai e da altri esponenti dell’opposizione. Netanyahu assicura che il suo governo è «stabile» che nessuno dei leader di cinque partiti che compongono la maggioranza – la più a destra della storia di Israele – progetta di andare ad elezioni anticipate. Ha quindi descritto come «faziose, estreme, che non stanno in piedi» le accuse che gli vengono rivolte nel cosiddetto “caso 1000”, casse di sigari pregiati e di champagne di altissima qualità ricevute da importanti uomini d’affari, secondo la polizia in cambio di favori, e nel “caso 2000”, l’accordo che avrebbe fatto con Arnon Mozes, editore del quotidiano Yedioth Ahronot a danno quotidiano rivale Israel Hayom.
Netanyahu ha ragione quando dice che nessuno degli alleati di governo vuole (per ora) la sua uscita di scena. Anche loro sostengono che quei regali dal valore di circa 250mila euro sono soltanto espressioni di amicizia, senza secondi fini. Il premier porta avanti un programma, dal 2009, che soddisfa ampiamente il sionismo-religioso che ha preso il controllo dei vertici politici. Senza dubbio è il campione della colonizzazione sfrenata dei Territori occupati, delle leggi anti-palestinesi e contro gli israeliani dissidenti e il protagonista di importanti “successi” diplomatici, come la recente dichiarazione di Donald Trump su Gerusalemme e della crisi nelle relazioni tra Usa e palestinesi. Magari i leader alleati non lo sopportano più ma sanno di non avere il suo peso internazionale. Nessun dirigente israeliano è tanto convincente come Netanyahu nel rappresentare Israele come il baluardo della “civiltà occidentale” in Medio Oriente. E comunque non farebbe il loro interesse la fine anticipata di un esecutivo che ha appena cominciato a raccogliere a piene mani dalla politica dell’Amministrazione Trump nella regione.
Tuttavia le sorti di Netanyahu restano legate alla decisione che prenderà il procuratore generale Avishai Mandelblit chiamato a valutare, carte alla mano, la richiesta di incriminazione presentata dalla polizia. Così se da un lato i tre principali alleati del premier – Moshe Kahlon (del partito centrista Kulanu), Naftali Bennett (del partito sionista-religioso Casa ebraica) e Avigdor Lieberman (del partito ultranazionalista Israel Beitenu) – ripetono in queste ore che occorre attendere le conclusioni della magistratura, dall’altro cominciano già a mettere le mani avanti. Bennett, ad esempio, ha fatto notare che «il ricevere regali così costosi per un periodo così lungo non rientra nelle aspettative dei cittadini di Israele dal loro premier». Kahlon invita a «cessare gli attacchi alla polizia» che lanciano Netanyahu e alcuni deputati del suo partito, il Likud. Da parte sua Lieberman afferma che Netanyahu potrà fare il premier «fino a quando non sarà condannato da un tribunale». Tutti e tre sanno bene che, dovesse scattare l’incriminazione formale, le dimissioni di Netanyahu sarebbero inevitabili. Gli “alleati” del primo ministro perciò sono cauti e seguono gli sviluppi. Forse già pensano ad un piano B, a un’alleanza post-elettorale con il leader del partito laico centrista Yair Lapid che vola nei sondaggi politici e che su temi centrali – colonie, Gerusalemme, sicurezza – è nettamente schierato a destra.
Lapid peraltro è uno dei testimoni-chiave contro Netanyahu. La sua testimonianza è la “vera bomba” della vicenda scriveva ieri il quotidiano Haaretz, facendo notare Lapid «è la più seria alternativa a Netanyahu». Ex attore e giornalista televisivo, fra il 2013 e il 2014 è stato ministro delle finanze in un governo guidato proprio da Netanyahu. La sua testimonianza nel “caso 1000” riguarda il periodo in cui era ministro. Secondo la polizia, il primo ministro tentò allora di imporre una estensione temporale della legge che concedeva benefici fiscali a chi riportava capitali in Israele facendo un favore al magnate di Hollywood, Arnon Michan, che avrebbe ricambiato con regali costosi. Lapid si rifiutò di estendere quella legge e ieri si è descritto come «un baluardo contro la corruzione». La partita però non è chiusa. Il procuratore Mandelblit non potrà non considerare che il testimone chiave contro Netanyahu è il politico Yair Lapid che da anni cerca di sostituire il primo ministro.