il manifesto 15.2.18
In ballo la legittimità della libera scelta a lasciare la vita
Dj Fabo. Processo Cappato, la Corte d'Assise rinvia gli atti alla Corte Costituzionale
di Massimo Villone
Il
giudice di Milano assolve Marco Cappato per il reato di istigazione, e
rinvia gli atti alla Corte costituzionale per quello di assistenza al
suicidio. Una distinzione chiara ai penalisti, probabilmente ostica per i
più.
Il codice penale non punisce il suicidio, anche solo
tentato. Ed è abbastanza ovvio, anche solo considerando l’assurdità di
consegnare un cadavere alle patrie galere. Punisce invece chi spinge
altri al suicidio, o è in vario modo partecipe del porre termine alla
vita.
Il punto focale è se esista o meno un diritto di morire,
cioè di scegliere il come e il quando della cessazione della propria
esistenza. Il legislatore penale del 1931 decide per il no, riconoscendo
in generale la non punibilità di chi esercita un diritto (art. 51), ed
invece sanzionando l’istigazione e l’assistenza al suicidio (art. 580).
Laddove invece fosse riconosciuto un diritto di morire, non sarebbe
certo suscettibile di censura chi aiutasse altri ad esercitare tale
diritto. Vedremo in seguito le motivazioni del rinvio alla Corte
costituzionale. Ma la questione al fondo non può che essere questa:
esiste o no un diritto costituzionalmente protetto a scegliere il come e
il quando della cessazione della propria esistenza? Parallelamente, può
il legislatore porre limiti a tale scelta, e conseguentemente obbligare
a vivere chi ha deciso diversamente?
Finora è mancata la risposta
conclusiva. Non sono bastati casi eclatanti come Welby ed Englaro, né
la serie ormai piuttosto lunga di viaggi in Svizzera.
Anche la
recente legge sul testamento biologico (219/2017) non è priva di
ambiguità, soprattutto nella figura del medico, che non è sempre
chiamato alla mera esecuzione della volontà del paziente, ma in alcune
ipotesi sembra configurarsi come soggetto titolare di valutazioni e
decisioni proprie. Cosa che potrebbe riverberarsi sulla pienezza
dell’autodeterminazione del paziente, specificamente nell’ipotesi di
rifiuto di trattamenti salvavita.
L’art. 32 Cost. sancisce il
diritto a rifiutare trattamenti sanitari, salvo gli obblighi di legge.
Qui il legislatore è abilitato ai soli interventi volti alla tutela
della salute pubblica, come nel caso dei vaccini (cfr. da ultimo, sent.
5/2018). Ma dispone anche che «la legge non può in nessun caso violare i
limiti imposti dal rispetto della persona umana». Un “rispetto” cui si
allinea l’art. 1 della Carta di Nizza (poi tradotto nella Costituzione
europea) per cui «la dignità umana è inviolabile. Essa deve essere
rispettata e tutelata». La domanda quindi è: nel “rispetto” e nella
“dignità” troviamo anche il riconoscimento di poter decidere
autonomamente e consapevolmente di porre termine alla propria vita? O
possiamo essere obbligati dal legislatore a vivere, pur non volendolo?
Non
sembra dubbio che rispetto e dignità comprendano la scelta ultima ed
essenziale sull’esistere. Dove sono quei valori se chi ne è titolare è
costretto all’alba di ogni giorno ad avviarsi per un percorso che
vorrebbe abbandonare?
Quali sarebbero i valori da bilanciare, tali
da giustificare l’obbligo a proseguire? Esiste forse una dignità di
vita che prescinde dalla dignità della vita di ciascuno? La risposta
appare chiara, almeno per un legislatore che voglia definirsi laico. E
non solo per chi è in condizioni terminali e vuole sottrarsi alla
sofferenza. Ma anche per colui che, non trovandosi in quelle condizioni,
ritiene senza se e senza ma di voler concludere la propria esperienza
di vita. Anche per quest’ultimo varrebbe la domanda sul perché e a
difesa di cosa impedire una libera scelta.
Certo, non ci sono
risposte facili. Forse il giudice di Milano avrebbe potuto giungere
all’assoluzione di Cappato per il reato di assistenza, anche per via di
una interpretazione secundum constitutionem dell’art. 580 c.p. Non l’ha
fatto, e vedremo cosa dirà la Corte. Ci auguriamo solo che non dia una
risposta a metà, riconoscendo il diritto ma aprendo al tempo stesso a
una troppo ampia discrezionalità legislativa. Così tutto rimarrebbe
nelle mani delle pulsioni maggioritarie del momento.
Ci dica
dunque una parola chiara, con coraggio, e ci aiuti a porre fine al
turismo funerario, prova ultima e inaccettabile delle diseguaglianze.
Totò si sbagliava. In questo paese rischiamo che nemmeno la morte sia
una livella.