il manifesto 13.2.18
Costa (Fieg): «Per avere giornali autonomi è fondamentale l’indipendenza economica»
Editoria.
I ricavi della carta stampata. Ecco le cifre degli ultimi 10 anni: -50%
dei ricavi, vendite -40%, -65% la pubblicità. Contro la tripla
concorrenza della rete - utilizzo improprio dei contenuti, dei dati e
una fiscalità anomala - serve l’«algoritmo della credibilità»
di Bruno Perini
MILANO
La crisi economica e finanziaria che da più di un decennio attanaglia
il vecchio Continente e con particolare virulenza l’Italia ha fatto
vittime un po’ ovunque. Vittime eccellenti settori industriali che nel
secondo dopoguerra non avevano mai conosciuto così da vicino gli effetti
devastanti della recessione.
Se si dà uno sguardo alle cifre, si
scopre che tra i settori industriali più colpiti c’è l’editoria. Ma non
c’è soltanto la crisi finanziaria a colpire la carta stampata, c’è anche
lo zampino della più grande ragnatela del mondo, ovvero la rete
internet che ha fatto la sua irruente entrata nell’informazione con
effetti devastanti per l’editoria tradizionale.
Ne abbiamo parlato con Maurizio Costa, presidente della Fieg, ex Ad di Mondadori ed ex Presidente di Rcs.
Ingegner
Costa, il quadro come lei sa non è consolante: i principali quotidiani e
periodici italiani in questi ultimi dieci anni hanno assistito a un
vero e proprio tracollo di vendite e a un calo da paura degli introiti
pubblicitari. Come se la spiega questa ecatombe?
Maurizio Costa - Fieg
Se
vogliamo datarne l’origine direi che dobbiamo tornare al 2007, quando
la crisi finanziaria che ha colpito l’Europa e in modi diversi anche gli
Stati Uniti ha cambiato tutti i paradigmi. Se in alcuni settori
dell’industria abbiamo assistito anche a momenti di debole ripresa,
nell’editoria questo non è accaduto.
Il crollo è stato costante.
Le
fornisco un dato eloquente: negli ultimi dieci anni quotidiani e
periodici hanno perso oltre il 50 per cento dei ricavi. E se scorporiamo
questo dato nelle due fonti principali dei ricavi, vediamo che gli
introiti pubblicitari hanno subito un calo di circa il 65 per cento e le
vendite di circa il 40 per cento.
Dunque è tutta colpa della crisi finanziaria?
Direi
di no. La profondità della crisi del nostro settore, che ha carattere
strutturale, non può essere spiegata soltanto con l’andamento negativo
del ciclo economico. Io credo che una delle cause principali sia dovuta
all’avvento del digitale, che ha portato a una trasformazione profonda e
irreversibile del modo di fare editoria.
Dopo sei secoli dalla
rivoluzione tecnologica di Gutenberg, con la stampa a caratteri mobili,
tutto è cambiato, tutto si è trasformato. Apro una parentesi: io non
sono tra coloro che pensano che il digitale sia il male assoluto e che
tutto il bene stia nell’editoria tradizionale.
La
disintermediazione introdotta dalla rete, ad esempio nel commercio, è un
fatto di grande rilevanza, è un elemento di progresso. Quello che trovo
pericoloso invece è la modalità e la poca professionalità con la quale
la rete gestisce l’informazione e la conoscenza.
Penso che ci sia
un abisso qualitativo tra l’informazione che viene fornita dai grandi
quotidiani e il dilettantismo con cui spesso la rete diffonde
informazione. Con un’aggravante: i grandi player utilizzano sulle
proprie piattaforme l’informazione professionale in modo gratuito e
l’uso dei dati personali a fini commerciali. Le cause del crollo
pubblicitario vanno cercate in questi fenomeni.
È questa una delle ragioni del crollo degli introiti pubblicitari su tv e carta stampata?
Certamente.
I grandi player della rete hanno conquistato fette consistenti del
mercato grazie a una pubblicità mirata e a un monitoraggio dei gusti dei
consumatori. Se lei è un appassionato di occhiali e legge su un sito un
articolo sugli occhiali, stia certo che la rete rileverà i suoi gusti e
da quel momento le verranno offerti centinaia di modelli di occhiali.
È davvero così pesante la concorrenza della rete in termini pubblicitari? Facciamo qualche cifra.
Partiamo
da una valutazione grezza: oggi il mercato pubblicitario vale circa 10
miliardi. Il primo grande player è ancora la Tv con una quota che sta
appena sotto il 50%. Ma i top player della rete controllano ormai tra il
25 e il 30 per cento.
E la stampa?
Alla stampa resta tra
l’11 e il 12 per cento. Tutto ciò con un’altra aggravante assai
rilevante: gli introiti dei top player della rete non sono rilevabili,
visto che i grandi gruppi del web di cui parliamo fatturano all’estero.
Quindi noi siamo di fronte a una tripla concorrenza sleale: utilizzo
improprio dei contenuti, utilizzo dei dati e fiscalità anomala.
Per
dirla in altro modo, gli editori hanno subito una trasformazione
dominata da algoritmi. E a questa trasformazione forzata debbono
rispondere con l’algoritmo della credibilità, devono essere in grado di
marcare una diversità nella qualità dell’informazione.
La strada più pericolosa e perdente sarebbe quella di inseguire Internet.
Non
pensa che il successo di Internet sia dovuto anche al fatto che, almeno
in apparenza, chi scrive su Internet si sente più libero e
indipendente? Come racconta «The Post», il film che è ora nelle sale
cinematografiche, l’indipendenza dei giornali dai grandi gruppi
economici e dalla politica è una delle condizioni della loro
credibilità.
Io penso che i giornali siano tanto più autonomi
quanto più sono indipendenti economicamente. Ma una delle condizioni
dell’indipendenza finanziaria è che essi operino in un mercato corretto e
trasparente, senza posizioni dominanti e in presenza di regole
competitive coerenti e corrette.
Quale sarà il nostro futuro?
Ferma restando la possibilità di agire in un sistema della comunicazione
in equilibrio, ribadisco che una informazione qualificata, autorevole,
polifonica, basata su fonti certificate e sulla qualità professionale
dei giornalisti è e sarà anche in futuro una risorsa fondamentale, non
solo per l’editoria ma per la stessa circolazione delle idee e il
confronto democratico.
Questa è la sfida che riguarda gli editori,
che devono affrontarla attraverso giornali sempre più qualificati,
rivolti a un pubblico sempre più consapevole della necessità di una
informazione credibile.
Giornali che dovranno per questo anche avere un riconoscimento di «value for money» adeguato.