giovedì 1 febbraio 2018

il manifesto 1.2.18
Bambino ebreo aggredito nella banlieu


L’aggressione avvenuta per la strada di un bambino ebreo torna ad alimentare in Francia la paura dell’antisemitismo e spinge Emmanuel Macron a una dura presa di posizione: «Ogni volta che un cittadino viene aggredito per la sua età, la sua apparenza o la sua confessione è l’intera Repubblica ad essere aggredita», ha twittato il presidente francese esprimendo solidarietà agli ebrei francesi. L’aggressione è avvenuta lunedì pomeriggio a Sarcelles, nel dipartimento di Val-d’Oise, vicino a Parigi. Il bambino di 8 anni stava andando a scuola per seguire una lezione di sostegno con in testa una kippa, il tipico copricapo ebraico, quando è stata fermato e picchiato da due ragazzi che lo hanno spinto a terra e preso a calci. La procura di Pontoise ha aperto un’indagine privilegiando la pista antisemita in assenza di altre motivazioni credibili: i due aggressori non hanno proferito insulti particolari né rubato nulla al giovane, attualmente sotto choc anche se non ha riportato lesioni gravi. Negli ultimi anni sono stati numerosi in Francia gli episodi di violenza compiuti ai danni di esponenti della comunità ebraica.

il manifesto 1.2.18
Israele, ispettori a caccia di eritrei e sudanesi
Migrazioni. Le autorità governative cercano cittadini pronti, in cambio di un generoso compenso, ad inviduare dove si nascondono gli africani illegali che il governo vuole cacciare via entro la fine di marzo.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Critiche internazionali e condanne dei centri per i diritti umani non fermano il governo Netanyahu deciso ad espellere entro la fine di marzo circa 35mila eritrei e sudanesi richiedenti asilo, entrati negli anni passati in Israele. All’inizio di marzo dovrebbero entrare in azione, così riferiscono i media locali, 70 “ispettori speciali dell’immigrazione”, civili pagati dall’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione con 30mila shekel (circa 8mila euro) per due mesi di lavoro e incaricati di individuare gli stranieri illegali e chi li aiuta. In sostanza dovranno dare la caccia agli africani clandestini a Tel Aviv e in altre città e provare a scoprire se qualche cittadino israeliano li aiuta o offre loro un’occupazione. Altri 40 ispettori, sempre secondo la stampa, saranno assunti con l’incarico di accertare la «sincerità» degli africani. «Stiamo cercando di saperne su questa assurda offerta di lavoro ma le autorità non si sbottonano. Tanti provvedimenti sono decisi in segreto ed emergono solo quando li vediamo applicati sul terreno», ci diceva ieri T. A., un’attivista dei diritti dei richiedenti asilo.
L’assunzione degli ispettori/cacciatori di africani illegali in Israele arriva poche settimane dopo l’annuncio della politica scelta dal governo Netanyahu per costringere eritrei e sudanesi a lasciare il Paese. Gli africani hanno la possibilità di partire volontariamente e di far ritorno nel loro Paese d’origine oppure di andare in Ruanda (e, pare, anche in Uganda) con in tasca 3500 dollari, in caso contrario saranno arrestati e incarcerati a tempo indeterminato. Gran parte degli “alieni”, così sono chiamati in Israele, sono scappati da Paesi in guerra e per sottrarsi ad abusi, torture e violenze. Invece per i dirigenti politici israeliani, con in testa il primo ministro, sono solo degli “infiltrati” alla ricerca di opportunità economiche e costituiscono una minaccia per il tessuto sociale e l’identità ebraica di Israele. Dal 2009 solo 10 eritrei e un sudanese sono stati riconosciuti come rifugiati dalle autorità israeliane. Ad altri 200 sudanesi del Darfur è stato riconosciuto lo status umanitario.
A nulla è valso l’appello lanciato a gennaio dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) affinché Israele ponga fine alle sue politiche di ricollocamento forzato di eritrei e sudanesi. L’agenzia dell’Onu aveva anche denunciato che almeno 80 persone “ricollocate” in Africa hanno poi tentato di raggiungere la Libia subendo lungo il tragitto abusi, torture ed estorsioni e hanno rischiato la vita attraversando il Mediterraneo per raggiungere l’Italia. Coloro che erano partiti da Israele, ha riferito ancora l’Unhcr, una volta giunti a destinazione hanno trovato una situazione ben diversa da quella che si aspettavano, con un’assistenza che raramente è andata oltre un posto dove dormire per la prima notte. Alcuni hanno riferito che diverse persone che viaggiavano con loro sono morte nel tragitto verso la Libia, dove in molti sono stati vittima di estorsioni, detenzione, abusi e violenze.
Ong, associazioni e attivisti israeliani stanno tentando di scuotere l’opinione pubblica largamente schierata con la politica del governo. Ma a ben poco è servito l’appello contro le espulsioni degli scrittori Amos Oz, David Grossman e A.B. Yehoshua, di esponenti religiosi e di un gruppo di sopravvissuti alla Shoah che si sono detti pronti a nascondere i profughi nelle proprie case, pur di sottrarli alla polizia e al provvedimento di espulsione. Nei giorni scorsi a margine del vertice economico a Davos, Netanyahu ha incontrato il presidente del Ruanda Paul Kagame che ha detto di avere una politica di porte aperte per chi desidera rientrare in Africa ma non ha confermato di aver sottoscritto un accordo con Israele. Per gli attivisti israeliani invece l’intesa segreta tra Ruanda e Israele esiste e per questo hanno intensificato le pressioni su Kagame affinchè cessi di ricevere nel suo Paese gli eritrei e sudanesi espulsi. Pressioni che non hanno gli effetti desiderati, a maggior ragione ora che il leader ruandese si fa forte dello status internazionale che ha conseguito dopo la nomina a presidente dell’Unione Africana.

La Stampa 1.2.18
La Polonia approva la controversa legge sui lager
Proibito chiamarli “polacchi”. Israele «E’ negazione dell’Olocausto”
di Giordano Stabile


La Camera alta polacca ha approvato con 57 voti favorevoli contro 23 contrari e due astenuti la legge controversa sui campi di sterminio della Seconda guerra mondiale. La legge stabilisce pene fino a tre anni di carcere per chiunque si riferisca ai campi nazisti come campi «polacchi» o accusi la Polonia di complicità con i crimini della Germania nazista. Ora il provvedimento dovrà essere firmato dal presidente Andrzej Duda, che ha il potere di bloccarlo e imporre modifiche.
”E’ negazione dell’Olocausto” 
Forti reazioni si sono levate in Israele. Il ministro israeliano Yoav Gallant l’ha definita «un caso di negazione della Shoah». «La memoria dei sei milioni di ebrei uccisi - ha detto su Twitter, ripreso dai media - è più forte di qualsiasi legge. Proteggeremo la loro memoria e faremo nostra la lezione: la capacità di difenderci da noi stessi». 
Anche l’ex ministro degli esteri israeliano Tizpi Livni ha attaccato il passo di Varsavia: «hanno sputato in faccia ad Israele due volte», ha detto alla Radio ricordando che era stato raggiunto un accordo tra il premier polacco e quello israeliano Benyamin Netanyahu e che questo «è stato ignorato». Il deputato laburista Itzik Shmuli ha proposto che la Knesset approvi subito leggi a contrasto di quella polacca.
Ultima speranza, il veto del presidente 
Tre giorni fa si era giunti all’accordo su una «taskforce congiunta» per discutere della materia, ma ancor prima che potesse cominciare il lavoro, notano a Gerusalemme, la legge è stata approvata anche dalla Camera alta. Ora lo Stato ebraico spera che Duda blocchi il provvedimento. Ma senza grandi speranze. I commentatori locali notano come il presidente polacco si sia espresso più volte a favore, in pubblico.
Gli storici: massacri compiuti anche da polacchi 
Storici e commentatori considerano la legge un precedente «pericoloso». La studiosa Havi Dreifuss, citata dal quotidiano Haaretz, nota che anche se «i campi di sterminio non sono stati una invenzione o iniziativa polacca, ciò non assolve i polacchi dalle loro responsabilità nelle atrocità» contro gli ebrei: «Durante l’Olocausto – continua – in alcune comunità nel distretto di Lomza, gli abitanti locali assassinarono i loro vicini ebrei». I polacchi furono «responsabili di massacri» compreso quello a Jedwabne nel 1941, quando oltre 300 ebrei vennero chiusi in un fienile e dati alle fiamme.

Repubblica 1.2.18
Appello degli ebrei polacchi
Sui campi di sterminio basta bugie ma punire non serve
Questo che pubblichiamo è l’appello rivolto al Parlamento polacco e sottoscritto da centinaia di sopravvissuti alla Shoah, rabbini, membri delle comunità ebraiche polacche e cittadini non ebrei, dopo la decisione del partito nazionalista “Diritto e giustizia” (PiS), al potere dal 2015, di vietare per legge l’utilizzo dell’espressione «campi di sterminio polacchi» a proposito dei lager creati dai nazisti nel Paese. Chiunque insinui che la Polonia sia stata responsabile del genocidio degli ebrei è passibile di condanna fino a tre anni di carcere.


Noi, ebrei polacchi, ci rivolgiamo ai membri del Parlamento polacco affinché cambino il contenuto degli emendamenti alla legge riguardante l’Institute of National Remembrance.
Senza dubbio, l’espressione «campi polacchi di sterminio » è un vistoso errore. I campi di sterminio furono predisposti dai nazisti sul territorio dell’allora Polonia occupata al solo scopo di sterminarvi il popolo ebraico nel contesto della «soluzione finale». Di conseguenza, sarebbe falso attribuire al popolo polacco una qualsiasi forma di complicità nella costruzione di simili campi. In qualità di testimoni oculari e anche di discendenti degli ebrei, uomini e donne, assassinati nell’Olocausto, condanniamo questa definizione ingannevole. Nondimeno, non possiamo approvare le clausole con le quali si impongono condanne al carcere per chi faccia uso di tale espressione.
Noi crediamo che chi la usa lo faccia non per accusare i polacchi di aver creato i campi di sterminio, bensì per utilizzare una designazione geografica: di per sé, questa espressione non è in ogni caso fedele al vero, perché la condizione di Stato indipendente della Polonia durante l’Olocausto era stata eliminata. Dal nostro punto di vista, tuttavia, l’uso di questa designazione geografica errata non dovrebbe essere perseguito con sanzioni economiche, e tanto meno con condanne al carcere come prevede la legge.
Infine, l’adozione degli emendamenti alla legge nella loro forma attuale potrebbe condurre a penalizzare chi racconta la verità al riguardo dei ricattatori polacchi e di quei cittadini polacchi che assassinarono i loro vicini di casa ebrei. Siamo dell’opinione che questa definizione faccia ben più che limitare la libertà di parola, in quanto di fatto essa mira a distorcere la storia. Questo è il motivo che ci spinge a rivolgere un appello ai parlamentari polacchi affinché in sostanza respingano gli emendamenti dell’atto legislativo.
Sappiamo bene tutti quanto possa essere dolorosa una menzogna al riguardo dei crimini nazisti. Noi vogliamo tutelare il buon nome della Polonia e individuare parole di uso comune per descrivere quei tragici eventi, e per questo vi invitiamo a dialogare con noi, gli ebrei polacchi.
(Traduzione di Anna Bissanti)

La Stampa 1.2.18
Tragedia e interpretazione
Pareyson ci parla ancora
Un grande convegno a Berlino per i cent’anni dalla nascita del filosofo: l’attualità del suo pensiero “pluralista” nel mondo globalizzato
di Gianni Vattimo


A ventisette anni dalla scomparsa (nato il 4 febbraio 1918, è morto il 9 settembre 1991) si può davvero dire, che per Luigi Pareyson, il tempo è stato galantuomo. Solo pochi anni prima che una grave malattia lo stroncasse, il suo pensiero aveva conosciuto un’ampia risonanza anche extra-accademica; e da allora tale risonanza si è andata sempre più ampliando e approfondendo, tanto che - in molti sensi - si può oggi parlare di una portata anticipatrice, se non decisamente profetica, della sua filosofia.
Il titolo di «pensiero tragico» che egli impiegò spesso negli ultimi anni, per caratterizzare la propria posizione teorica, aiuta a oltrepassare i limiti dell’orizzonte accademico. Orizzonte sempre più problematico via via che anche i più pervicaci difensori della filosofia come scienza specialistica, e custode di una tradizione di testi che andrebbero tenuti rigorosamente separati dall’attualità, vanno persuadendosi (magari solo per non essere emarginati dall’industria culturale) che forse bisogna ritrovare un rapporto meno evanescente con l’esistenza quotidiana, con la politica, con la religione, con i nuovi problemi etici posti dalla scienza e dalla tecnica.
Non poca filosofia italiana ed europea di questi ultimi decenni percorre le strade che furono percorse, spesso con spirito anticipatore, da Pareyson. Penso a certi filosofi della generazione più «giovane» come Massimo Cacciari, i cui libri si muovono nella stessa prospettiva; o a un altro filosofo della stessa generazione, Reiner Schürmann (di cui, fra i più noti traduttori italiani, vorrei ricordare il torinese Gianni Carchia). In termini e forme diverse, nomi come quelli di Cacciari e di Schürmann, ma poi di tanti altri filosofi francesi di scuola derridiana e heideggeriana, testimoniano oggi l’attualità del pensiero tragico in circoli della cultura per lo più giovanile. Proprio quelli che, nelle università e fuori, si rivolgono sempre più spesso anche ai testi dell’ultimo Pareyson.
A tale pensiero Pareyson arriva radicalizzando, anche molto al di là di un classico dell’ermeneutica come Gadamer, il rapporto tra filosofia dell’interpretazione e concezione dell’essere, che era già al centro della meditazione heideggeriana. Se si riconosce, con Heidegger, che l’esperienza che facciamo del mondo è sempre interpretazione - cioè un incontro nel quale, come scrive Pareyson, «la cosa si rivela nella misura in cui la persona si esprime» - e non invece un rispecchiamento passivo dove il soggetto deve cancellarsi per riflettere fedelmente l’oggetto, bisogna pensare anche l’essere in termini che non siano più quelli della tradizione metafisica. Essere che si rivelerebbe dunque come fondamento ultimo immutabile e tutto «dato», fuori da ogni storicità autentica, giacché, come sanno i teologi che si sono accaniti sul problema della predestinazione, se l’essere (o Dio) è tutto in atto dall’eternità e per l’eternità, il divenire, la storia, la libertà umana, sono pura inspiegabile finzione.
Per rendere possibile il riconoscimento della verità come interpretazione - anche quella scientifica, giacché ogni proposizione scientifica si verifica o falsifica solo nel quadro di paradigmi di cui lo scienziato deve disporre da prima, portandoli con sé dalla sua formazione, dalla sua cultura, ecc., e che dunque «esprime» nel suo lavoro sperimentale - occorre che l’essere sia pensato a sua volta come evento e non come struttura fissa data una volta per tutte. Per Pareyson, ma anche per Schelling, per Kierkegaard, per molti esistenzialisti cristiani (o ebrei, come Lévinas), questo essere che non è l’ordine geometrico eterno e immutabile, ma sorgente dell’interpretazione e della libertà, è il Dio biblico, che è - a propria volta - atto di affermazione, positività che si impone contro una possibilità negativa. Un Dio come questo porta in sé il male, sia pure come preistoria che ha vinto. La tragicità dell’esperienza umana, mai totalmente libera da limiti, mali, sofferenze e violenze inutili, ha la sua radice più remota qui.
Che molta filosofia europea di oggi si collochi sotto il segno della tragedia non significa necessariamente che il pensiero tragico sia per tutti, anche per i discepoli di Pareyson, la verità della nostra condizione attuale. C’è un altro aspetto della sua eredità filosofica che circola largamente nella riflessione di filosofi anche non tragicisti, ed è l’idea che la filosofia sia essenzialmente ermeneutica dell’esperienza religiosa - il che significa interpretazione di miti e scritture sacre (per Pareyson, certo, della Sacra Scrittura giudaica e cristiana in modo eminente).
Pareyson ci ha insegnato a riconoscere la continuità, e anche i possibili conflitti, tra filosofia e tradizione religiosa; che si occupano della stessa cosa, e che vivono entrambe di una «rivelazione» nella quale si nascondono, ma anche si offrono, a infinite e sempre vive possibilità di interpretazione. Se si pensa a quanto la questione della pluralità delle culture, e cioè anche delle religioni e dei miti che le fondano, sia decisiva per la società «globale» in cui ci troviamo sempre più a vivere, si dovrà dire che (anche sotto questo aspetto) l’eredità filosofica di Pareyson è tutt’altro che un patrimonio del passato.

Corriere 1.2.18
Freud o l’interpretazione dei sogni
Gifuni esplora la via dell’introspezione
di Magda Poli


Si può parlare di ottimo teatro di regia per Freud o l’interpretazione dei sogni di Stefano Massini riduzione e adattamento di Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi, regista che ha saputo creare unità, fascino e spessore a un testo che rischia di essere un’esposizione scolastica di sogni e di casi.
Freud geniale e rivoluzionario ha spalancato la via all’esplorazione dell’inconscio, vera voce dell’individuo, attraverso l’analisi di quel guazzabuglio di segni, simboli, realtà e immaginario che sono i sogni. Tiezzi immerge lo spettacolo in una dimensione onirica tra realtà e psiche, si concentra sul percorso che vede il nascere di un metodo da un’intuizione.
La via del dubbio, della domanda, dell’introspezione, perfettamente e con ricchezza percorsa da Gifuni/Freud. I pazienti, bravi e intensi tutti gli attori, i loro sogni, e un genio che pensa, elabora, fino a vedere l’arcaico, l’immutabile dentro l’animo umano. Il buio dell’uomo, il mostruoso dalla testa di lucertola. Uno spettacolo che la regia ha reso ricco di segni e significati. Le parole che si accendono ad ogni sogno, futuri lampi lacaniani.
Il palcoscenico che si disvela al superamento delle oppressive pareti della mente e si apre a riflettere tutti.

il manifesto 1.2.18
«Il Rosatellum? Magari è incostituzionale, ma intanto si voti»
Legge elettorale. Il tribunale di Firenze dice che la procedura di urgenza non può essere applicata alla tutela del diritto di voto: le elezioni sono alle porte e la Corte costituzionale potrebbe a questo punto decidere solo dopo il 4 marzo. Con il rischio di un rimedio peggiore del danno
di Andrea Fabozzi


Costituzionale o meno che sia, è preferibile non toccare la legge elettorale adesso che le elezioni sono dietro l’angolo. Perché un’eventuale intervento della Corte costituzionale arriverebbe a questo punto dopo il 4 marzo e avrebbe come effetto quello di modificare le regole del gioco una volta che i voti sono stati già espressi. È quanto ha stabilito in sintesi il tribunale di Firenze con un’ordinanza del 25 gennaio depositata ieri, con la quale ha giudicato inammissibili uno dei tre ricorsi presentati con procedura d’urgenza contro il Rosatellum (gli altri due all’Aquila, dove si attende la decisione, e a Roma, dove l’udienza è fissata al 21 febbraio).
La giudice Giuseppina Guttadauro della quarta sezione civile del tribunale di Firenze non ha però detto nulla nel merito delle questioni di incostituzionalità proposte dall’avvocato Paolo Colasante e dal costituzionalista Enzo Di Salvatore. Anzi, ha rinviato al procedimento ordinario di merito – quello con il quale sono stati alla fine abbattuti sia il Porcellum che l’Italicum – l’eventuale chiamata in causa della Corte costituzionale. Ha però escluso la possibilità di intervenire con il procedimento cautelare, quello previsto dall’articolo 700 del codice di procedura penale per impedire il verificarsi di un danno irreparabile. La lesione del diritto a votare secondo Costituzione – sollevata a Firenze dal deputato ex M5S Massimo Artini – configura certamente un potenziale danno da evitare. Lo riconosce anche la giudice, che però ritiene inapplicabile il rimedio del ricorso di urgenza perché – a questo punto – la Consulta non potrà esprimersi entro il 4 marzo. E non potrà farlo in nessuna della altre cause pendenti, altri ricorsi di merito firmati da Besostri e dagli avvocati anti Italicum pendono a Lecce, Trieste, Trento, Venezia e Messina. E nemmeno riuscirà a pronunciarsi sulla presunta incostituzionalità del voto all’estero, sollevata dal tribunale di Venezia: i termini per la costituzione delle parti scadono il 6 gennaio, neanche la (improbabile) decisione straordinaria della presidenza di dimezzare le procedure riuscirebbe a dare una risposta prima dell’ultima data utile per votare all’estero (22 febbraio).
Enzo Di Salvatore fa notare però che il ricorso di Firenze era stato depositato prima del decreto di indizione delle elezioni (a dicembre) e ricorda che non è il voto del 4 marzo a costituire formalmente il nuovo parlamento, ma la successiva proclamazione degli eletti in vista della prima seduta del 23 marzo. A suo giudizio in quell’intervallo sarebbe possibile per la Corte sanare le incostituzionalità e ordinare un differente modo di conteggiare le schede – ad esempio non regalando alle liste maggiori i voti delle liste alleate rimaste sotto la soglia di sbarramento.
La giudice Guttadauro ha invece ritenuto che questo rimedio, cambiando in corsa le regole del conteggio, sarebbe per i cittadini peggiore del male, che è quello di votare con una legge eventualmente incostituzionale.
Dall’ordinanza si ricava infine che l’avvocatura dello stato, che rappresenta la presidenza del Consiglio dei ministri, non ha alcun dubbio che il Rosatellum sia perfettamente costituzionale, sia per quanto riguarda il trasferimento dei voti che per quanto riguarda le soglie di sbarramento e il divieto di voto disgiunto. Una certezza della quale bisognerà conservare memoria.

Corriere 1.2.18
La politica o vola alto o non conta un bel nulla
di Paolo Franchi


È difficile dar torto a Giuseppe De Rita quando afferma ( Corriere , 30 gennaio) che gli appelli al voto come dovere civico, per quanto animati dalle migliori intenzioni, rischiano di lasciare il tempo che trovano. Ma, almeno a chi scrive, è più complicato dargli del tutto ragione quando sostiene che ciò deriva dal carattere «vagotonico» di un elettorato «senza condivisione di sentimenti collettivi». In generale, per condividere qualcosa occorre che questo qualcosa effettivamente esista e, nel particolare di una campagna elettorale, che sia parte essenziale dell’offerta politica dei principali soggetti in competizione. Se nessuno li evoca, i «sentimenti collettivi» dei cittadini, sempre che, seppure larvatamente, tuttora ci siano, fanno in fretta a ripiegare su se stessi e a inabissarsi, lasciando il campo libero all’oscillare dell’opinione pubblica tra (cito ancora De Rita) «il rancore collettivo» e «una condizione di bassa energia, percorsa da sentimenti indistinti e particolaristici»: un fenomeno, questo, che certo non è solo italiano, ma che in Italia si manifesta in forme particolarmente gravi, e ormai persino impressionanti.
Chi ha qualche annetto sulle spalle è cresciuto pensando che evitare una simile deriva fosse il compito primario della politica. Da un bel pezzo non è più così, e a insistere su questo tema si corre qualcosa di più del rischio di fare della vuota retorica e del fastidioso moralismo. Spiace per gli anti casta e per i teorici dell’«è tutto un magna magna», ma mai come di questi tempi la politica è stata specchio della società. Non c’è proprio da rallegrarsene, perché il suo ruolo non è (o almeno non dovrebbe essere) quello di rappresentare l’Italia così com’è, fotografandone gli stati d’animo e cercando di inseguirne tutte le pulsioni, comprese le meno commendevoli, ma di starle uno o due passi (non dieci chilometri) avanti. Di avere, anche se il termine è passato rapidamente di moda, una narrazione di sé nella storia nazionale, perché nessuno è stato rinvenuto sotto un cavolo, e una visione del presente e del futuro, un’idea di Paese e un’intuizione del mondo comprensibili e condivisibili per il più ampio numero di italiani possibile. Di essere realista, certo, ma pure di guardare al profondo e, nello stesso tempo, di volare alto. Se non è questo, la politica non conta un bel nulla, e può addirittura essere considerata dannosa. È solo a partire da questa (ovvia) considerazione che si può capire, per fare solo un esempio, come mai settant’anni fa Alcide De Gasperi tagliò in un breve volgere di tempo l’erba sotto i piedi a Guglielmo Giannini e al suo Uomo qualunque, e come mai ai tempi nostri, invece, da decenni imperversano, come (presunto) antidoto alla disaffezione, movimenti e retoriche «antipolitiche» dei più diversi segni e anche, da qualche tempo, crescenti richieste di un qualche «uomo forte» al comando, tanto confuse quanto inquietanti.
Può darsi, anzi, è persino probabile che, nel confuso passaggio d’epoca che stiamo vivendo, questa sia una tendenza inarrestabile, per bloccare la quale a nulla valgono i richiami alla precettistica di una «buona politica» di cui, sempre che ci sia mai stata, si è smarrita ogni traccia. Può darsi. Ma colpisce ugualmente la chiassosa storditezza di chi a questa deriva dovrebbe comunque cercare di opporsi, non fosse altro perché ne va della sua esistenza politica. Un esempio (ma che pessimo esempio!) per tutti. Da tempo ormai immemorabile si ragiona sull’ineluttabile personalizzazione (o, come dice con orrendo neologismo, leaderizzazione ) dei partiti e dei movimenti politici, dell’«io» che si sostituisce al vecchio «noi» persino in molti simboli elettorali, nonostante non sia in alcun modo prevista l’investitura popolare del premier. È così quasi ovunque, seppure con risultati non proprio straordinari, non si capisce perché non debba essere così qui in Italia. Da questo a ciò che è accaduto nella formazione delle liste, però, ne corre. E non poco. Perché nel confuso bipolarismo della cosiddetta Seconda Repubblica i leader in qualche modo incarnavano i rispettivi schieramenti, si contendevano il governo e il potere: di qua Silvio Berlusconi, di là Romano Prodi. Oggi la posta non è più questa. Nel partito personale all’italiana il leader-padrone, grazie anche a una pessima legge elettorale, si propone e raggiunge facilmente, senza nemmeno ricorrere all’arte della più o meno onesta dissimulazione, un obiettivo molto più circoscritto: quello di darsi un gruppo parlamentare a propria immagine e somiglianza, in modo da averlo a propria piena disposizione per qualsiasi acrobazia politica vorrà fare se, come è probabile per tutte le forze in campo, ma è pressoché certo per il Pd, non disporrà, dopo le elezioni, della maggioranza.
Con un po’ di cinismo, potremmo anche infischiarcene del fatto che, così facendo, i partiti, già ridotti come sono ridotti, diventano pressoché ufficialmente, nel migliore dei casi, solo delle casse di risonanza per il loro segretario, con tutto quello che ne consegue per quel che resta della nostra democrazia. Ma di sicuro non potremo affettare un addolorato stupore se l’elettorato, mangiata la foglia, il 4 marzo si regolerà di conseguenza. Nella speranza non esattamente esaltante che, se questo è l’andazzo, i sentimenti a bassa intensità (non troppo diversi, in fondo, dagli antichi «tirare a campare» e «tengo famiglia») prevalgano sul rancore, che è sempre una gran brutta bestia.

Corriere 1.2.18
Ecco la ricchezza che non si vede
di Danilo Taino


L’economia sommersa continua a essere vastissima nel mondo. Ma, secondo uno studio appena pubblicato dal Fondo monetario internazionale, tende a ridursi in termini relativi. Anche in Italia. Nei 158 Paesi presi in considerazione dall’analisi dell’istituzione di Washington, il peso della shadow economy è passato, tra il 1991 e il 2015 , dal 34,51% del Prodotto lordo delle Nazioni considerate al 27,78% : con una media annua nel periodo del 31,77% . In termini assoluti, è cresciuta molto, se si pensa che il Prodotto lordo dell’economia globale era di 23.900 miliardi di dollari nel 1991 ed è salito a 74.300 nel 2015 . Si può però pensare che le attività sommerse abbiano raggiunto un plateau in rapporto alla ricchezza creata complessivamente e anzi in termini relativi calino. Lo studio, realizzato da Leandro Medina e Friedrich Schneider, considera come economia sommersa le attività «che sono nascoste alle autorità ufficiali per ragioni monetarie, regolamentari e istituzionali». Cioè condotte nell’ombra per evitare tasse o contribuzioni sociali, per scansare le burocrazie o le normative, oppure per ragioni di corruzione, di scarsa qualità delle istituzioni politiche, per debolezza delle regole del diritto. Attività che «contribuirebbero al Pil», quindi escluse le attività criminali. Il calo si registra in tutti i continenti, con una discesa nei Paesi Ocse (più ricchi) dal 19,44% del loro Prodotto lordo nel periodo 1991-99 al 15,28% del 2010-15 ma anche nella meno avanzata Africa subsahariana, dal 42,36% al 36,16% negli stessi periodi di tempo. L’Italia è meno sommersa della media dei 158 Paesi studiati dall’Fmi: l’economia non registrata era il 29,14% del Pil nel 1991 e si è ridotta al 22,7% nel 2015 ; è cioè passata da circa 350 a 420 miliardi di dollari. Ha però parecchia più ombra della media dei Paesi Ocse (dati sopra) e della media di quelli europei, che tra il 2010 e il 2015 hanno registrato una shadow economy pari al 20,20% del loro Prodotto lordo. Ad esempio, nel 2015 è stata del 22,01% del Pil in Spagna, dell’ 11,65% in Francia, dell’ 8,3% in Austria e nel Regno Unito, del 7,75% in Germania, del 7% negli Stati Uniti. Più estesa che in Italia, in Grecia, 26,45% del Pil. Nel complesso, il mondo produce il 20-30% di ricchezza più di quanto si calcola ufficialmente.

Il Fatto 1.2.18
Caro Prodi, queste non sono coalizioni
di Franco Monaco


Questa volta dissento da Romano Prodi, cui pure mi legano amicizia e un lungo sodalizio politico. Mi spiego. Sono d’accordo su due punti:
1) il profondo dissenso sulla legge elettorale, da lui definita sciagurata, che infatti mi sono rifiutato di votare e che, tra i suoi innumerevoli difetti, contempla al più esili e precari accordi elettorali e non coalizioni politiche con programma e simbolo comune (tipo Ulivo), le sole che hanno consentito di vincere al centrosinistra a guida prodiana;
2) è stato un errore la scelta neofrontista di MdP con SI, che le consegna entrambe a una deriva minoritaria, e sancisce una divisione del centrosinistra che, temo, si proietterà ben oltre la prossima contesa elettorale. Un errore che tuttavia, mai come in queste ore che comprovano la totale refrattarietà renziana a concepire un partito plurale e inclusivo, meriterebbe una qualche comprensione. Anche in vista di un’auspicabile ricucitura domani. Ma qui si innesta il mio dissenso da Prodi. Specie nella imputazione delle responsabilità, che io attribuisco quasi per intero a Renzi e alla sua invincibile attitudine divisiva. L’opposto dello spirito dell’Ulivo. La linea e la leadership di Renzi hanno diviso il Pd (la scissione è stata più cercata che subita e comunque egli non ha fatto nulla per scongiurarla); hanno diviso il centrosinistra con la reiterata presunzione dell’autosufficienza che si è risolta nella solitudine del Pd, acuita dal Rosatellum, regola elettorale perfetta per il centrodestra imperniato appunto su opportunistici accordi elettorali e suicida per il centrosinistra (il Pd si è rifiutato pure al voto disgiunto); hanno diviso il paese, anche e soprattutto sulla riforma costituzionale e sulla sua gestione politica; hanno diviso verticalmente società, politica e istituzioni con la teoria e la pratica della “disintermediazione”, di uno stile di governo a scavalco delle rappresentanze politiche e sociali. In contrasto con la tradizione di tutte le sinistre riformiste europee. Domando a Romano: si può chiamare coalizione quella raccoltasi intorno al Pd? Con tre liste civetta, cespugli che, forse con la sola, parziale eccezione della Bonino, manifestamente neppure ci provano a guadagnarsi una autonoma rappresentanza puntando al 3%, come dimostrano i tre-quattro seggi asseriti come sicuri graziosamente concessi dal Pd?
La si può definire come nitidamente di centrosinistra e alternativa al centrodestra con Casini, Lorenzin, formigoniani, ceto politico ex berlusconiano? La verità è che la “cultura della coalizione”, di cui Prodi fu ineguagliato artefice, non la si può improvvisare. Di più: è intimamente estranea al Pd renziano. La prova? Intanto che Renzi abbia delegato ad altri – il volenteroso Fassino – un compito che per definizione spetterebbe al leader, evidentemente consapevole di essere il meno idoneo ad aggregare e avvertito che si trattasse di missione impossibile. Del resto, con ostinazione, ci aveva provato Pisapia, concludendo che con questo Pd non era possibile (si veda come si sono risolte le due condizioni da lui poste: lo ius soli e una chiara discriminante verso esponenti del centrodestra, ora reclutati dal Pd). Infine la pagina allucinante delle candidature, che certifica la cancellazione delle minoranze e il compimento della metamorfosi del Pd nel Partito di Renzi. Egli disporrà di un gruppo parlamentare di fedelissimi e avrà le mani libere.
Saranno pure maliziosi quelli che immaginano un asse privilegiato con Berlusconi, ma troppe cose congiurano in quella direzione. A cominciare dallo scenario di un futuro parlamento senza maggioranze e dunque esposto a manovre e trasformismo. Sarebbe un paradosso, certo non voluto da Prodi, il leale e fiero antagonista di Berlusconi, se quello che fu il suo Pd si risolvesse nella spalla del Cavaliere che, non è un mistero, a dispetto delle rituali smentite, volentieri si alleggerirebbe di Salvini dopo il voto. Naturalmente per asserito senso di responsabilità da “statista”…

Il Fatto 1.2.18
Boschi tedesca: un po’ Sissi, un po’ Fantozzi
di Daniela Ranieri


Ha ragione chi dice che critichiamo la Boschi perché la invidiamo. Invidiamo la formidabile faccia tosta con cui si ripresenta in pubblico dopo che è stata beccata a mettere il naso, da ministra in vari sensi incompetente, negli affari della banca del padre e, dopo averla vista a Bolzano, dove ha concesso la sua presenza agli altoatesini che il 4 marzo la sottrarranno alla Patria, invidiamo la totale mancanza di pudore dietro cui cela la sua insipienza, il che è, per certe professioni, la chiave per il successo.
L’ultimo diorama la ritrae in conferenza stampa tra i monti di Bolzano, dove è stata trasportata in camion-frigo dentro un collegio uninominale sicuro e colà salata e pepata secondo la ricetta tradizionale altoatesina, a far sponsor di sé: “Il mio rapporto con questo territorio per fortuna è già di amore e passione, diciamo così, per questa comunità, questa terra che ho imparato a conoscere in questi anni”. Fingendosi praticamente sudtirolese per parte di madre (ché per parte di padre è legata agli orafi aretini), ha poi tolto ogni dubbio agli astanti, sul momento indotti a credere che il rapporto d’amore si fosse instaurato per merito di un’alacre attività legislativa a favore delle minoranze linguistiche e delle autonomie speciali: “…essendo” questa terra “diventata anche la destinazione diciamo delle mie vacanze”.
Del resto la Mari – che su questa base poteva candidarsi a Formentera – ha talmente a cuore Bolzano, che è anche capolista nei collegi di Cremona-Mantova, Guidonia-Velletri, Marsala-Bagheria, Messina-Enna, Ragusa-Siracusa. Indi la Boschi, in questa avventura dal Manzanarre al Reno vivamente sponsorizzata da Reinhold Messner come un’acqua di sorgente, ha candidamente ammesso: “Non parlo tedesco purtroppo, se non qualche parola, ma sicuramente mi impegnerò a migliorare diciamo così la mia conoscenza del tedesco”. Quando uno è modesto. Nonostante parli così bene l’italiano e abbia appena finito di tradurre la Critica della ragion pura di Kant dal tedesco all’aretino, Mariaele, al contrario del mentore Matteo, non si atteggia a poliglotta. Anche se conoscere la seconda lingua in terra altoatesina è una mancanza trascurabile (tipo essere celiaci e simultaneamente candidati a Gragnano), nel Pd locale giurano di averla sentita chiaramente dire “speck, strudel, zelten” e che conosce la ricetta della torta di mele. “Per fortuna”, ha aggiunto la principessa Sissi-Arezzo di Laterina, “possiamo affrontare anche in italiano la campagna elettorale perché tutti i nostri concittadini parlano perfettamente italiano”, bontà sua.
Qui è l’invidia a parlare perché in realtà l’eroina dei due mondi ha parlato tedesco eccome, sissignore, ad ottobre scorso, all’inaugurazione di un parco di start-up a Bolzano, anche se nel video pubblicato sul fattoquotidiano.it più che Rosa Luxemburg sembra il professor Kranz di Paolo Villaggio (“E atesso viene io, a lei non piace qvello che faccio…”). Tanto candore non deve indurci a tenerezza. La storia italiana è piena di provincialotti che hanno finto di masticare le lingue per abbindolare un popolo appestato dalla bassa scolarizzazione e portare a casa mediocri photo opportunity da gente di mondo. Onore alla sfacciataggine da cinepanettone di B., che a Camp David se ne uscì: “Ai consider de flag ov Iunait (United, ndr) Steits nos (not, ndr) onli a flag ov a cauntri bas (but, ndr) a flag ov fridom ev (and, ndr) dimocrasi”, al che persino Bush, con quella faccia da capra demente, lo dileggiò: “Il suo inglese è ottimo!”. E l’aitante Rutelli, che da ministro per i beni culturali consegnò ai posteri il video in cui bela: “Pliz visit the uebsait, bat pliz visit Itali ”. E Franceschini, ministro della Cultura a insaputa della stessa, che lanciò il sito “Very Bello” per dire quanto siamo internescional. Per tornare, ancora, a Renzi, che nel 2014 al Digital Venice si produsse in un agghiacciante intervento in googlish di 3 minuti di puro delirio fonetico, tutto ruotante su Meucci inventore del telefono e “very good italian”, “but it olzo a terribol misteri”, poveraccio.
Così la Boschi, con la succulenta anteprima di “Es ist schön, wieder in Bozen zu sein” (È bello tornare a Bolzano), che nelle sue intenzioni doveva riecheggiare l’“Ich bin ein Berliner” di J. F. Kennedy, si conferma della più vecchia, più cialtrona e più italica politica la perfetta continuazione con altri mezzi.

La Stampa 1.2.18
Orlando: serviva più pluralismo ma la scissione Pd non è la strada
Il ministro: “LeU non è una soluzione, avvantaggia il centrodestra”
intervista di Alessandra Costante


«La scissione non è la strada da seguire, si deve guardare avanti», ma una discussione profonda nel partito il giorno dopo il voto quella sì, sarà necessaria per salvaguardare «la vita democratica interna del Pd, unica e importante». Amareggiato, ma deciso a non lasciare il Pd nelle sole mani di Matteo Renzi, Andrea Orlando parla per la prima volta dopo la notte dello «scontro» sulla composizione delle liste: «Doveva essere tenuto maggiormente conto del pluralismo interno, anche per il bene del Pd», spiega.
Il punto di partenza sono le liste: la minoranza interna è stata decimata. Deluso?
«Non la metto sul piano della delusione. La questione è che sulla composizione delle liste c’è stato uno scontro, tra fedeltà e pluralismo. A mio avviso nell’interesse del partito si doveva tenere più conto del pluralismo».
E ora che succede tra gli orlandiani?
«Ora è il momento della campagna elettorale, che è di grande importanza. In palio ci sono cose fondamentali per il nostro Paese, come la permanenza dell’Italia nell’Unione europea. Rispetto a questa sfida passano in secondo piano gli errori fatti e la discussione interna».
Comunque vadano le elezioni, il 5 marzo aprirete il confronto nel Pd?
«Rispetto a chi fa le liste truccando il sistema, il Pd ha una storia. È l’unica forza politica che ha una sua vita democratica interna e siccome è così unica e importante, non possiamo nascondere che ci sono crepe. Non sarà un tema che riguarda tutto il Paese, m comunque è un tema che va affrontato».
Qualcuno ventila l’ipotesi un’altra scissione dopo le elezioni. Il rischio esiste davvero?
«Lo scenario attuale dimostra che le scissioni non servono. Liberi e Uguali non costituisce una soluzione ai problemi. Mi sembra che il risultato di quella scissione sia essenzialmente un Pd più debole e meno plurale e un centrodestra avvantaggiato. La via della scissione non è quella da percorrere».
Lei è ligure, ma non sarà candidato in Liguria…
«Io avevo dato al partito la disponibilità a mettere in campo la mia esperienza di governo. Mi ero messo a disposizione anche per correre in un uninominale potenzialmente perso in Liguria. Sono state fatte scelte diverse, credo che si sia optato per opzioni ritenute più competitive. Non ho potuto che prenderne atto».
Dopo quello che è accaduto nel Pd negli ultimi giorni, anche lei è tra chi si stupisce per l’assist di Prodi alla coalizione di centrosinistra?
«Non capisco quale sia la novità. Prodi è sempre stato contro la scissione e a favore della coalizione di centrosinistra».
Nel Pd c’è malumore, qualcuno pensa che come capo della minoranza interna non avrebbe dovuto stare nel governo. Insomma, che non si può essere di lotta e di governo…
«Emiliano non è al governo e non mi sembra che abbia tutti questi nomi in lista. Per altro verso, persone molto vicine a ministri renziani sono state escluse. La verità è che questa è la conseguenza non di remissività mia o di altri, ma del fatto che non ci sono stati criteri chiari e poi vere trattative. Ci sono state garantite delle cose che alle quattro del mattino di sabato abbiamo scoperto non esserci. Forse in Liguria non ha aiutato il fatto che il segretario regionale fosse contemporaneamente arbitro e giocatore. E ha anche pesato che il regionale abbia rimesso tutto alla segreteria nazionale. In regioni dove è stata fatta un’istruttoria più adeguata, si è tenuto maggiormente conto degli equilibri anche se comunque la situazione non è soddisfacente. Detto tutto ciò, in Liguria le liste del Pd sono molto meglio delle altre».

Corriere 1.2.18
Alt di Bersani a Prodi E tra sinistra e dem è lite sul «voto utile»
Leu: asse Pd-FI, non sceglieteli. La replica: è un falso
di Olivio Romanini


Bologna Fa ancora un certo effetto vedere Vasco Errani che annuncia la sua candidatura a Bologna per Liberi e uguali contro Pier Ferdinando Casini appoggiato dal Pd e l’ex leader dem Pier Luigi Bersani, anche lui in campo in città, che polemizza con Romano Prodi. Ma bisognerà farci l’abitudine perché le due sinistre non sono mai state più lontane.
Ieri Errani e Bersani hanno presentato le liste di Leu in un hotel a Bologna con Anna Falcone, pasionaria del No al referendum, e in mezzo a tanti ex di partito e sindacato. In platea Silvia Prodi, consigliera regionale di Leu nipote del Professore, e il filosofo Stefano Bonaga. Le parole di Prodi che ha sconfessato l’iniziativa di Liberi e uguali («Non è per l’unità del centrosinistra») sono state una doccia fredda per Errani e soci. E ieri è stato Bersani a rispondere all’ex premier: «Io ho molto affetto per Prodi e per questo voglio usare una sua metafora: ha detto che ha succhiato l’osso del referendum, adesso ho l’impressione che ne succhi un altro. Ma prima o poi bisogna dire basta perché altrimenti si rischia di lasciare andare alla deriva le nostre idee e i nostri valori». Le parole del padre nobile del Pd possono disorientare l’elettorato di Leu e anche per questo ieri Bersani è tornato ad attaccare il suo ex partito: «Il Pd è già con Forza Italia se si guarda a quello che è successo in Commissione banche: ci sono stati 4 assenti di FI che sono usciti per far passare la relazione di Casini e del Pd che altrimenti non passava. Quello a Leu è un voto indispensabile per evitare le larghe intese».
Proprio Casini, candidato a Bologna, è stato l’altro argomento di giornata visto che se la vedrà con Errani. L’ex governatore si è limitato a dire che «le radici non sono acqua sia per me che per Casini». Ma quando gli è stato riferito che l’ex presidente della Camera aveva dichiarato che votare Errani significa favorire i candidati di Lega e 5 Stelle allora gli ha risposto a muso duro: «Consiglierei di usare il concetto di voto utile con prudenza, perché abbiamo già visto in altre situazioni come gira il boomerang». A Bersani che accusa il Pd di flirtare con FI replica il senatore dem Andrea Marcucci: «Il Bersani che critica Prodi e predice una convergenza Pd-FI è omonimo di quello che con Berlusconi ha fatto due governi?» .
L’ex segretario pd ha criticato anche la sinistra di governo emiliana dicendo che quella che una volta era «la sala macchine del riformismo italiano» è un po’ appannata e pochi minuti dopo Renzi ha annunciato che domani presenterà il suo programma elettorale proprio a Bologna, all’Opificio Golinelli, con Tommaso Nannicini. Un programma che affronterà anche il tema della cittadinanza «in nome dello ius culturae » e che sarà concessa a chi «si attiene alle regole e ai percorsi scolastici, culturali, linguistici che il Paese offre». In prima linea c’è anche il premier Paolo Gentiloni: «Attenti a non prendere strade sballate o pericolose — ha detto a Uno Mattina — perché se l’Italia si ributta fuori strada perché si promette questo o quello, fa un gravissimo errore». E lunedì prossimo il Pd aprirà la sua campagna elettorale al teatro Eliseo a Roma con la presentazione di tutti i candidati .

Repubblica 1.2.18
Intervista a Vasco Errani
“Capisco Prodi ma il suo centrosinistra è scomparso da tempo È il Pd che deve cambiare”
di Giovanna Casadio


ROMA Vasco Errani non vuole la si butti sul personale, dopo l’attacco di Romano Prodi a Liberi e uguali in nome dell’unità del centrosinistra. Giudizio politico è quello che spingerà Prodi a non votare a Bologna per l’amico Vasco, candidato di Leu nella sfida per il Senato contro il centrista Pier Ferdinando Casini, alleato del Pd.
Reazione politica è quella di Errani.
Errani, ma come giudica questo assist di Prodi a Renzi?
«Innanzitutto non so se sia un assist a Renzi. Comunque non è in discussione l’amicizia tra me e Romano. C’è una questione politica».
Però l’ex premier accusa Liberi e uguali, la sua lista, di remare contro l’unità del centrosinistra.
«Il centrosinistra è stato capace in passato di tenere insieme i diversi riformismi, la sinistra di governo e la sinistra. Oggi la situazione è radicalmente differente perché moltissimi elettori hanno detto nelle amministrative del 2015, in quelle del 2016 e con il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, e non per questioni di rancori tra le persone, che non si ritrovavano più nelle politiche fatte. Il centrosinistra di Prodi non c’è più da tempo.
Questo è il punto».
E Leu è il cuneo che ha diviso le sinistre?
«Liberi e uguali serve a tenere aperta una prospettiva ed è il punto di riferimento di un progetto che rimetta insieme i progressisti per dare vita a una svolta profonda nelle politiche di questi anni, dal lavoro alla scuola al welfare. Oggettivamente tutti i dati dicono che la disuguaglianza è cresciuta, il lavoro si è precarizzato con un impoverimento di diritti, di qualità e di senso. L’unità del centrosinistra cammina sulle gambe, nella testa e nel cuore delle persone».
Ma Pier Ferdinando Casini, il suo sfidante per il Pd al Senato a Bologna, dice che votare lei equivale a fare vincere i 5Stelle o la Lega.
«Attenzione, non facciamoci del male. Dopo il 4 marzo, c’è il 5 ed eviterei di usare l’argomento del voto utile, perché si può rivelare un boomerang. Polarizzare lo scontro con i grillini o la destra può produrre sorprese amare come in Sicilia. Ci si dovrebbe interrogare piuttosto su perché si è arrivati a questa situazione. Dire che il voto a me favorisce Lega e 5Stelle non ci sta. La funzione di Liberi e uguali è recuperare voti che potrebbero andare all’astensione. E altro che fare vincere i 5Stelle: noi siamo utili per sottrarre voti ai 5Stelle, partendo dalle risposte concrete ai problemi del lavoro, della sanità, dei diritti».
Perché ha deciso di scendere in campo ora mentre al Pd ha detto di no in passato?
«Ho investito molto e creduto nell’esperienza dell’Ulivo, ma mi sono reso conto che c’è stata una torsione che ha cambiato nei fatti le cose. Un cambio di strada che ha mutato il progetto originario, i riferimenti fondamentali. Ora con Leu mi sono messo a disposizione per dare un contributo così da realizzare quei valori irrinunciabili della mia esperienza».
Sui social si sono scatenati i militanti della minoranza dem, sostenendo che sarebbe stato meglio seguire Bersani piuttosto che essere mortificati nelle liste. Voi tenete le porte aperte per loro?
«Rispetto il disagio profondo dei militanti e degli elettori del Pd. Poi vedremo dove porterà.
L’importante è tenere viva un’alternativa al pensiero dominante».
Anche in Leu c’è stata rissa sulle liste. Avete aperto poco a candidature esterne, della società civile.
«Le liste sono state lo sforzo di un progetto politico appena iniziato. I tempi per come erano non ci hanno consentito di sviluppare tutto il potenziale che abbiamo, però segnali positivi ci sono. Intanto faremo una campagna elettorale di merito, sui contenuti».
Più facile sfidare un centrista che i compagni dem?
«Non scelgo io i candidati degli altri partiti. E poi, decideranno gli elettori».
Se il 5 marzo risultasse necessaria per governare un’alleanza tra il centrosinistra e Berlusconi, cosa fate?
«Non so cosa farà il Pd vista la pessima legge elettorale che hanno fatto con la destra Certamente noi non andremo con la destra. Ma discuteremo con chi vorrà partire da lavoro fisco e welfare, scelte per noi irrinunciabili».
Sarà indispensabile ricucire anche con il Pd?
«Il problema non è ricucire, bensì una svolta politica nelle scelte fondamentali».

Corriere 1.2.18
Ora l’Emilia si trasforma nel Libano della sinistra
di Massimo Franco


L’Emilia-Romagna era considerata la culla e la vetrina storica della sinistra di governo e del prodismo, inteso come alleanza tra postcomunisti e cattolici. Ebbene, le elezioni del 4 marzo stanno mandando in frantumi quell’immagine. E il paradosso è che lo scontro ha toccato il punto di rottura dopo la dichiarazione di voto di Romano Prodi a favore della coalizione guidata dal Pd di Matteo Renzi. Il fondatore dell’Ulivo fino a pochi mesi fa era visto come la «colla» chiamata a ricomporre i cocci della sinistra.
Ora, viene additato come il detonatore dell’esplosione finale. Con Liberi e Uguali schierati contro, e i dem che lo esaltano. La regione di Pier Luigi Bersani e di Vasco Errani, di Prodi e di Pier Ferdinando Casini rischia di diventare il simbolo di una sinistra «libanese»: divisa in fazioni in guerra tra loro, senza possibilità di compromessi o anche solo di dialogo. È il segno di un modello che mostra la corda anche a livello sociale; e minaccia di incarnare l’incomunicabilità a sinistra.
La rottura dell’Ulivo potrebbe rivelarsi una sorta di «via libera» per centrodestra e Movimento Cinque Stelle. La designazione da parte di Renzi di Pier Ferdinando Casini, presidente della commissione di inchiesta sulle banche, in un collegio blindato di Bologna, ha creato malumori. A parte le parole ruvide del leghista Matteo Salvini sull’Emilia «discarica dei paracadutati», è con Leu che le tensioni crescono. Errani ironizza sull’invito di Casini al «voto utile» per non far vincere gli avversari. È «un concetto da usare con prudenza. Abbiamo visto che può diventare un boomerang».
Ma la polemica più aspra è tra Bersani e Prodi, alleati storici, sebbene con culture politiche diverse. Entrambi volevano tenere in vita l’Ulivo e la sinistra unita. E erano critici verso la segreteria di Renzi e la riforma elettorale, da posizioni differenti. Ora, invece, l’ex segretario del Pd utilizza una metafora prodiana per ricordare: «Romano ha detto che ha succhiato l’osso del referendum istituzionale. Ho l’impressione che ne succhi un altro. Ma prima o poi bisogna dire basta...». La sfida è evidente. Leu deve raffigurare un Pd proteso verso un’alleanza con Silvio Berlusconi.
Usa le candidature dei centristi Casini e Beatrice Lorenzin per accreditare questa tesi; come anche l’appoggio di FI al Pd nella commissione banche. Serve a richiamare alle urne i delusi, a legittimare la scissione e a risollevare sondaggi anemici. «Il Bersani che critica Prodi e predice la convergenza con FI è un omonimo di quello che con Berlusconi ha fatto due governi?», lo punzecchia il renziano Andrea Marcucci. Ma di punzecchiature ce ne saranno molte altre, reciproche: a conferma di una sinistra «libanizzata».

Corriere 1.2.18
Bonino: spero che Romano scelga me. E punta a una lista rifugio per i delusi
di Monica Guerzoni


Sabato il lancio con Gentiloni e Calenda. Il ministro: «Paolo ha affinità con Emma»
roma «Prodi potrebbe votare per me? Io me lo auguro...». Emma Bonino non pone limiti alla provvidenza elettorale, guarda oltre lo sbarramento del 3% e si gode i sondaggi, che la proiettano a un passo da Paolo Gentiloni quanto a gradimento degli italiani. I numeri ancora non premiano la lista +Europa, ma la stima trasversale di cui gode la ex commissaria Ue potrebbe trasformare il nuovo simbolo nel rifugio di tanti elettori di centrosinistra, delusi dal Pd a trazione renziana.
Bruno Tabacci, uno dei fondatori della lista, ritiene che votare per Emma sia «l’opzione alternativa più naturale per l’elettore di centrosinistra che il 4 marzo non vuole restare a casa, ma ha avuto riflessi negativi dal Pd di Renzi». Un voto di opinione che può essere contagioso o una scelta un po’ elitaria? «Non saremo un fenomeno confinato ai salotti — spera l’ex assessore a Milano —. Prodi ha fatto riferimento alla coalizione attorno al Pd e la sua simpatia per Emma non è un mistero».
Sabato a Roma alla presentazione della lista ci saranno due big del centrosinistra, Paolo Gentiloni e Carlo Calenda. E guai a insinuare che i vertici del Pd siano lì per dare una mano a Emma. «Non vorrei sembrare arrogante, ma non ho capito bene chi sostiene chi — risponde al telefono Bonino alle sei della sera —. Non sono Gentiloni e il Pd che vengono in mio soccorso, magari è l’esatto contrario».
Il ministro dello Sviluppo è nel comitato di sostegno di +Europa e ritiene «cruciale per il centrosinistra» la presenza nell’alleanza di questa piccola forza. «Stimo molto Emma — si spende Calenda —. Averla in coalizione è importantissimo, perché sposta il baricentro del Pd». Perché un elettore di centrosinistra dovrebbe votare per Bonino e non per Renzi? «Magari perché +Europa è il fronte più avanzato di europeismo pragmatico, o per una differenza di gradimento di leadership. Oggi — sottolinea Calenda — il Pd non è solo Renzi, è anche Gentiloni, il quale ha molta affinità con Emma».
L’effetto Bonino sembra dunque destinato a crescere, anche nei sondaggi. Lorenzo Pregliasco di Youtrend quota la lista dei Radicali e compagni tra l’1 e il 2%: «Può essere una scelta di nicchia, ma può anche rivelarsi un’alternativa per chi non vuole votare Renzi». Nando Pagnoncelli va oltre e stima la lista europeista attorno al 2,8%, in buona parte espresso dai ceti dirigenti: «Potrebbe esserci un flusso dal Partito democratico alla Bonino». E così la leader radicale, che non teme il voto utile a vantaggio dei partiti più forti, fa sfoggio di ottimismo: «Possiamo arrivare anche al 5%. Non so se votare per noi sia un fenomeno di élite o cosa altro, so che siamo l’unica proposta diversa, alta e seria, che parla al futuro».
Intervistato ieri da Il Sussidiario.net sotto il titolo «Tutto pronto per il governo Bonino», l’ex direttore de L’Unità Peppino Caldarola prevede che la lista alleata ruberà consensi ai dem: «Molti elettori del Pd, che non vogliono votare Renzi ma non vogliono andare più a sinistra o nell’astensione, troveranno in Bonino un esponente classico dei diritti civili. Può diventare un polo attrattivo».
La strada da fare è tanta. Calenda ammette che «la lista è ancora poco conosciuta e i voti andranno conquistati pezzo per pezzo». Ma Bonino, si sa, è donna battagliera. Farà campagna in tv e sul digitale, focalizzando la sua attenzione sui delusi e gli scontenti. «Il mio obiettivo è provare a motivare la marea di gente che si rifugia nell’astensione, soprattutto giovani — racconta Bonino —. Voglio far capire ai ragazzi che nel mondo milioni di persone rischiano ancora la vita per il diritto di voto».

il manifesto 1.2.18
Precari per sempre nel paese più inattivo e con meno occupati
Dicembre 2017. I dati Istat confermano il record dei contratti a termine e una stagnazione generalizzata, calano ancora i tempi indeterminati. Nella crisi è stata massacrata la generazione di mezzo, quella tra i 25 e i 49 anni
Napoli, una partita di calcetto organizzata ieri da «Potere al popolo» per contestare il ministro del lavoro Poletti
di Roberto Ciccarelli


I dati Istat di dicembre 2017 confermano il record dei contratti a termine e una stagnazione generalizzata, calano ancora i tempi indeterminati. L’orizzonte del mercato del lavoro resta stagnante, l’occupazione fragile ed estemporanea, mentre si succedono incrementi microscopici dovuti all’apoteosi dei contratti a termine e un costante calo del lavoro «indipendente». A dicembre 2017 sono aumentati gli inattivi, il maggiore incremento da tre anni. Sono persone che cercano lavoro e non lo trovano, o non hanno lavoro ma non lo cercano. Restano nell’enorme zona grigia, interrotta da brevi periodi di occupazione.
I CINQUE ANNI di legislatura infelice hanno aggravato una frattura generazionale del tutto peculiare. Non quella dei giovani contro gli anziani, ma tra giovani-anziani e generazione di mezzo. Chi traina di più la crescita iper-precaria sono gli occupati ultra-cinquantenni. Massacrata la generazione di mezzo – tra i 25 e i 49 anni. Rispetto al 2008, inizio della crisi, l’occupazione creata è diversa: breve, pagata sempre meno. Mentre gli occupati a termine (2 milioni e 700 mila) sono di più di dieci anni fa.
L’ORIZZONTE DEL MERCATO del lavoro resta stagnante, l’occupazione fragile ed estemporanea, mentre si succedono incrementi microscopici dovuti ai record dei contratti a termine e un costante calo del lavoro «indipendente». E, a dicembre, sono aumentati gli inattivi, il maggiore da tre anni. Sono persone che cercano lavoro e non lo trovano, o non hanno lavoro ma non lo cercano. Restano nell’enorme zona grigia, interrotta da brevi periodi di occupazione.
BISOGNA SBROGLIARE l’inghippo statistico che spinge ancora a fare queste dichiarazioni in una campagna elettorale stentata. Non lasciatevi ingannare da quel segno «più» davanti ai 303 mila occupati dipendenti registrati nell’anno appena trascorso. Sono tutti a termine. Si scopre anzi anche quei pochi a tempo indeterminato diminuiscono di 25mila unità. Segno che ormai il mercato si è tarato verso il basso, moltiplicando la produzione di precariato di nuovo tipo. A dicembre, dopo vari trimestri di crescita del nuovo precariato, c’è una notizia in più: la stima degli occupati inizia a diminuire (- 66 mila unità), arrestando l’affannosa crescita del tasso di occupazione che era tornato ai livelli pre-crisi – il 58,2 per cento, il più basso dei paesi europei – ma ora ha ricominciato a scendere. Ora è al 58% spaccato.
I CINQUE ANNI di legislatura infelice hanno aggravato una frattura generazionale del tutto peculiare. Non quella dei giovani contro gli anziani, ma tra giovani-anziani e generazione di mezzo. Chi traina di più sono gli occupati ultra-cinquantenni e anche i 15-24enni (anche se a dicembre 2017 cresce il loro tasso di inattività dello 0,6% e dell’1,6% su base annua). Massacrata la generazione di mezzo – tra i 25 e i 49 anni (meno 234 mila unità).
IL PRECARIATO prodotto in grande quantità da politiche fondate su bonus alle imprese, deregolamentazione, giochetti statistici, casualizzazione del lavoro subordinato ora inizia a mostrare la lingua. È un segnale di attesa, probabilmente. Le imprese più opportuniste del mondo stanno aspettando una nuova infornata di bonus miliardari – come i 18 triennali che hanno accompagnato il Jobs Act. Quando, e se, arriveranno allora ricominceranno ad «assumere» con i contratti a termine ai quali la «riforma» Poletti ha cancellato la «causale». Questo permette di rinnovare il contratto più volte entro i 36 mesi, calcolando ad ogni rinnovo un occupato in più.
QUESTO È IL MOTORE che alimenta la «crescita» dell’occupazione. E, come ogni motore, può anche incepparsi.
SUONA OTTUSA la grancassa del Pd nel giorno dei nuovi dati Istat dell’occupazione. Il ministro del lavoro Poletti sostiene che «al di là delle oscillazioni del mercato si confermano miglioramenti». Visto che a dicembre la disoccupazione è calata di un cincinino (è al 10,8, meno 0,1 per cento rispetto a novembre) Ettore Rosato (capogruppo Pd alla Camera) ha gorgheggiato: «Cala grazie alle riforme». Non è mancato il pensatore delle suddette «riforme», Tommaso Nannicini, che ha annunciato il taglio del cuneo contributivo di quattro punti entro la fine della prossima legislatura, un bonus alle imprese. Anche con probabili governi di larghe intese questi propositi potranno essere realizzati.

Repubblica 1.2.18
La Germania
Spd, la via crucis di Schulz
di Tonia Mastrobuoni


Il partito è morto, viva il partito! Migliaia di nuove iscrizioni alla Spd stanno agitando Martin Schulz, impegnato in una spinosa trattativa con Angela Merkel e Horst Seehofer per la Grande coalizione. Il boom, registrato dopo il congresso di Bonn di metà gennaio (che ha dato il via libera dei seicento delegati alle trattative per la GroKo), è stato alimentato dall’agguerrita campagna degli Jusos. I giovani socialdemocratici che al grido di “ 10 euro per fermare la Grande coalizione” — il costo della tessera — vogliono sabotare il referendum tra gli iscritti previsto alla fine del negoziato.
Il deputato della Spd, Karl Lauterbach ha parlato di una «truffa» che rischia di «smantellare il partito». Ma Lars Klingbeil, segretario dei socialdemocratici, ha lanciato una controffensiva. Mobilitando una campagna per attrarre nuovi iscritti che votino a favore della GroKo. Così, da quando le schede raggiungeranno i circa 450 mila militanti nelle loro case fino al momento in cui nelle sedi della Spd si concluderà la conta dei Sì e dei No, Schulz e i big continueranno a tremare. Se prevarranno i No, mesi e mesi di negoziati saranno carta straccia e la Spd tornerà ufficialmente all’opposizione, lasciando Merkel in un mare di guai. E per Schulz significherebbe quasi certamente la fine della sua carriera alla testa dei socialdemocratici tedeschi.
Per quanto la Spd di Willy Brandt e Gerhard Schröder stia attraversando da anni una grave crisi di identità simile a quella dei cugini di mezza Europa, le dinamiche in corso nel più antico partito socialdemocratico del mondo fanno riflettere. Danno conto di processi interni profondamente democratici, intessuti in una struttura d’altri tempi dichiarata prematuramente morta. L’opposto speculare delle forze politiche che vantano una presunta vicinanza con i cittadini perché hanno sostituito congressi, referendum e segreterie con plebiscitarie democrazie dei clic e primarie vere e finte.
Mentre in Italia la fine della Prima Repubblica, la Grande crisi e l’insorgere dei populismi sono andati di pari passo con la trasformazione del termine partito in parolaccia, e con lo spuntare di “alleanze” e “movimenti” che dovevano farne dimenticare la lunga tradizione, un partito come la Spd ha dimostrato ancora una volta di saper condurre una verifica democratica continua e solida rispetto alle traiettorie dei suoi vertici. Non attraverso guerre di tweet e consultazioni online: invece, grazie alla sua struttura classica di deleghe e rappresentanze.
Un anno fa, un congresso ha approvato con il 100 per cento dei voti l’avvio della grande corsa di Martin Schulz per battere Angela Merkel. E il crollo di quel consenso al 56 per cento in quello recentissimo di Bonn è il risultato di errori clamorosi fatti dal leader della Spd. Quella risicata percentuale a favore della Grande coalizione non è soltanto lo specchio fedele della caduta di Schulz all’interno del partito. È uno sprone a condurre un negoziato duro con Merkel e Seehofer, per strappare un accordo migliore e convincere gli iscritti a confermare quel risultato.
Altrettanto democratici sono i continui processi di verifica che avvengono a Berlino tra Schulz, il gruppo parlamentare, la segreteria e la direzione della Spd. In questi mesi, il leader socialdemocratico ha dovuto misurarsi passo passo con loro. E, alla fine di un anno vissuto pericolosamente, dopo notti insonni a strappare concessioni a Merkel e Seehofer, dopo innumerevoli riunioni con gli altri big della Spd e un congresso a Bonn vissuto al cardiopalma, l’ex presidente del Parlamento europeo si inchinerà alla volontà di 450 mila iscritti. Se vinceranno i No sarà una tragedia per mezza Europa e la stessa Spd rischierebbe il tracollo alle prossime elezioni. Ma nessuno potrà accusare Schulz di aver condotto il partito nel baratro da solo.

Il Fatto 1.2.18
Al-Sisi & Eni, pacche sulle spalle alla faccia del ricordo di Regeni
A Port Said si celebra l’operazione Zohr, per la produzione di gas grazie a cui il Cairo mira all’autosufficienza. Sullo studente trucidato proprio 2 anni fa solo chiacchiere
Al-Sisi & Eni, pacche sulle spalle alla faccia del ricordo di Regeni
di Valerio Cattano


Poteva essere, in termini brutali, una moneta di scambio. In un mondo dove il senso di giustizia non si prostra sempre e comunque agli affari, la produzione nel campo di gas offshore di Zohr a Port Said da parte dell’Eni – dunque italiana – sarebbe potuta essere una delle leve per chiedere la verità su Giulio Regeni e la sua morte violenta avvenuta al Cairo due anni fa.
I numeri lo avrebbero permesso, l’operazione è imponente: entro la fine del 2019, la produzione raggiungerà circa 822 milioni di metri cubi al giorno, secondo le stesse autorità egiziane. “Speriamo di raggiungere l’autosufficienza” ha detto il ministro del Petrolio, Tarek Al-Molla, durante l’inaugurazione, dinanzi al presidente Abdel Fattah al-Sisi e all’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi. Grazie a Zohr il governo pianifica di interrompere l’importazione di gas naturale liquefatto e di risparmiare 230 milioni di dollari al mese. Una medaglia al petto per al-Sisi in vista delle prossime elezioni. Una bella somma, in cambio di giustizia. Invece è accaduto tutto il contrario ieri a Port Said. Descalzi ha sottolineato che “questo gas è per l’Egitto ma sarà anche per l’export. E il punto più probabile dove il gas arriverà è l’Italia” mentre il presidente al-Sisi ha sfruttato l’occasione per dare una lettura della vicenda Regeni.
“Sapete perché volevano intaccare il rapporto fra noi e l’Italia? Era in modo per non farci arrivare a questo”, in riferimento a Zohr. Insomma, per l’ex generale l’omicidio del ricercatore italiano è stato un tentativo di “tagliare l’amicizia fra Italia ed Egitto”. Ribadendo le condoglianze alla famiglia Regeni e che l’indagine non si concluderà sino a quando i colpevoli non saranno trovati, al-Sisi ha concluso: “Non dimenticherò che l’Italia è stata dalla nostra parte nonostante l’incidente di Regeni. Non lo dimenticherò e non lo farà neanche l’Egitto”.
La versione del presidente potrebbe anche essere corretta; ma, proprio alla luce di questo rapporto speciale con l’Eni e l’Italia, non sarebbe stato meglio dimostrare questa riconoscenza attivando una inchiesta degna di questo nome invece di somministrare due anni di depistaggi e falsi responsabili, aumentando lo strazio dei genitori e di quanti vogliono conoscere quale è stato il movente del sequestro e dell’esecuzione dello studente? Ieri a Port Said tante strette di mano fra il governo al-Sisi e l’Italia rappresentata dall’Eni, su Giulio Regeni solo chiacchiere e distintivi.

Corriere 1.2.18
Libia Il monito di Liu (Msf): «Il calo degli arrivi vuole dire più torture»
intervista di Maurizio Caprara


«Le statistiche non descrivono tutto. Al di là dei numeri, dietro le 119 mila persone arrivate in Italia dal Sud del Mediterraneo nel 2017 ci sono storie individuali: il calo degli sbarchi nel vostro Paese significa, in Libia, aumenti delle torture, degli stupri, di vite in condizioni di fame. Non voglio immaginare che cosa succede. Dopo ciò che ho visto è troppo duro», dice Joanne Liu, la presidente internazionale di Medici Senza Frontiere, organizzazione non governativa formata da 23 sezioni nazionali che assiste in 70 Paesi feriti e malati senza distinzione di idee politiche, etnie e fedi.
Pediatra che ha lavorato in Mauritania, Haiti, Darfur e altrove, canadese di origini cinesi, Joanne Liu fornisce sulla diminuzione degli ingressi di migranti e rifugiati in Italia un punto di vista poco considerato. Con l’aria di chi procede determinata per una propria strada senza cercare applausi, in questa intervista al Corriere della sera fa presente che il filtro alle traversate di barconi in partenza dalla Libia, diventato più consistente l’anno scorso per scelta italiana ed europea, ha conseguenze non soltanto rimosse. Feroci.
Che cosa ha visto nei centri libici per la detenzione di migranti e rifugiati?
«Ne ho visitati due vicino Tripoli nel settembre scorso. Non li chiamerei campi. Sono depositi di persone. Nei miei 22 anni in Medici Senza Frontiere non avevo mai incontrato un’incarnazione così estrema della crudeltà umana».
Quali immagini le sono rimaste impresse?
«Ricorderò sempre un uomo robusto con un bastone in mano: “Vuole vedere dov’è la gente?”. Io: “Sì”. L’uomo ha aperto la porta che aveva alle sue spalle e ha agitato il bastone: dentro un locale delle dimensioni di una palestra, centinaia di persone sono indietreggiate impaurite. Mi sono trovata davanti tanti occhi che mi guardavano da visi emaciati. Le persone hanno cominciato a protendere le mani verso di me e a sussurrare: “Aiutatemi”, “Portatemi via di qui”».
Chi erano?
«In maggior parte maschi, neri, provenienti da altri Paesi. Così tanti che non potevano stendersi per terra. Molti, seduti, trattenevano con le mani le ginocchia piegate».
Ufficialmente il posto era?
«Un centro di detenzione per migrazione illegale. Ma in Libia non esiste un governo capace di controllare l’intero territorio, in ogni zona prevale una milizia diversa. Nessuno sapeva come andavano gestite queste persone. Ognuna di loro cercava un modo per uscire. In genere provano a partire. Se vengono fermate in mare – e se non muoiono in acqua – ritornano in un centro del genere. Qui sta una particolarità della Libia».
Quale differenza ha riscontrato rispetto ad altri Stati nei quali si concentrano flussi di profughi e migranti?
«Che quanti raggiungono la Libia entrano in un circuito di sofferenza senza fine. Vede, poco fa sono stata in Bangladesh: in un campo con migliaia di profughi fuggiti dalla Birmania, tutti venivano da villaggi messi a fuoco o erano sopravvissuti a stragi. La maggior parte delle donne era stata violentata. Tante mogli erano state separate da mariti, molti figli dai genitori. Dopo la fuga però questo non accadeva più. In Libia per la gente che scappa da guerre, persecuzioni e miseria da altri Paesi invece continua. Diventano merce».
Ha in mente un esempio?
«Una mia paziente, moglie di un atleta. L’hanno rapita, portata in una casa con altri sequestrati. È stata torturata affinché il marito pagasse. Se non riescono ad ottenere soldi, trascorso qualche tempo le bande di rapitori ritengono i prigionieri un peso, dunque li passano a un centro di detenzione. E da lì i detenuti tentano di fuggire per partire dal mare verso l’Europa. Con il rischio di tornare indietro».
Dal primo al 31 gennaio, gli arrivi in Italia dalla Libia sono stati 3.143. Il 26,6% in meno rispetto ai 4.251 dell’anno precedente. Secondo chi ne ha favorito il calo cambiando disposizioni per le navi nel Mediterraneo e contribuendo a riattivare la Guardia costiera libica, come il ministro dell’Interno Marco Minniti, se i flussi non fossero regolati potrebbero aumentare intolleranza e xenofobia tra i cittadini italiani.
«Non ho commenti in materia. Io mi occupo di assistenza umanitaria. E in Libia il costo umano è troppo alto ».

Repubblica 1.2.18
Uno spettro si aggira per l’Europa: Carl Schmitt
di Roberto Esposito


La traduzione del saggio di Carl Schmitt su Legalità e legittimità, curata e introdotta magistralmente da Carlo Galli per il Mulino, presenta più di un motivo di interesse. Pubblicato nel 1932, subito dopo le ultime elezioni tedesche, prelude al collasso della Repubblica di Weimar e alla vittoria nazista. Se non si può dire che prepari la svolta totalitaria — pure accettata di buon grado dall’autore l’anno successivo — coglie tutti gli elementi della crisi che avrebbe portato al crollo della democrazia in Germania. Il tramonto dello Stato legislativo apre un varco nell’ordinamento che spezza l’equilibrio costituzionale tra legalità e legittimità, norma e decisione, diritto e politica.
Schmitt, almeno in linea di principio, non contrappone i due termini. Anzi tenta di articolarli, collocando il potere costituente nella volontà del popolo tedesco. In questo modo resta all’interno del quadro democratico, ma lo spinge all’estremo limite arrivando a richiedere un Custode della Costituzione capace di incarnare la volontà popolare. Ciò che in sostanza Schmitt propone è una democrazia plebiscitaria che modifichi in senso autoritario il regime di Weimar. Il secondo motivo di interesse è l’attitudine camaleontica dell’autore a “ripulire” a ritroso la propria storia, ampiamente compromessa col nazismo. Nella postfazione, scritta nel 1958, Schmitt individua in Legalità e legittimità il «tentativo disperato di salvare» la Costituzione di Weimar dall’attacco concentrico delle forze antisistema di destra e sinistra. Ora è vero che Schmitt non fuoriesce formalmente dalla cornice costituzionale. Ma schierandosi per un rafforzamento senza bilanciamento dei poteri del presidente, apre la strada allo strappo del 1933, quando si passa dalla possibile dittatura commissaria di Hindemburg alla reale dittatura sovrana di Hitler: la legge sul conferimento dei pieni poteri e l’abrogazione dei partiti sono l’esito controfattuale del tragico tentativo di stabilizzare la Repubblica, lacerandone il tessuto istituzionale.
Eppure l’interesse del saggio di Schmitt non è circoscrivibile a una vicenda storica fortunatamente chiusa. Nonostante la distanza che ci separa, sono troppi gli echi che risuonano in queste pagine.
A cos’altro richiamano la crisi di legalità e il deficit di legittimità, l’impotenza del Parlamento e il conflitto dei partiti, le forzature della costituzione e il rischio di ingovernabilità, se non alle ferite delle nostre democrazie?

il manifesto 1.2.18
Il totalitarismo burocratico e riluttante dello Stato fascista
«La macchina imperfetta», un denso saggio di Guido Melis per Il Mulino
di Claudio Vercelli


L’Italia divenne per davvero uno «Stato fascista» o non sarebbe invece meglio parlare di uno Stato ai tempi del fascismo? In altre parole, quale dei due capi della relazione prevalse durante il Ventennio mussoliniano?
La dimensione ideologica, con la sua carica al medesimo tempo aggressiva e radicalizzante, ispirata a una tanto incongrua quanto ipnotica modernizzazione, oppure la continuità degli apparati già ereditati dall’esperienza dell’amministrazione liberale, poi transitati attraverso la Grande guerra e riprodottisi, sia pure con alcune differenze, soprattutto dinanzi alle sollecitazioni introdotte dal conflitto sociale postbellico, nell’organizzazione di regime? Guido Melis, storico contemporaneista, docente alla Sapienza di Roma e studioso delle dinamiche delle pubbliche amministrazioni, nel suo corposo lavoro dedicato a La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista (il Mulino, pp. 616, euro 38), parla non a caso di «un totalitarismo sempre annunciato e mai interamente realizzato, un sistema di istituzioni imperfetto, fatto di vecchi e nuovi materiali confusamente assemblati senza un progetto lineare, con un’evidente vocazione, nei momenti cruciali della ricostruzione dello Stato, al compromesso tra vecchio e nuovo».
IL QUADRO che l’autore ci restituisce è quello di una complessa e stratificata policrazia in totale assenza di pluralismo, propendente quasi sempre alla compromissorietà. Quindi incapace di tradurre intuizioni e suggestioni in pratiche politiche autonome, dovendo semmai costantemente rispondere a mediazioni variamente articolate, che ne affaticavano e appesantivano il percorso, molto spesso producendo un’eterogenesi dei risultati. In altre parole, non si era in presenza solo dell’evanescenza, della millanteria e del velleitarismo del regime, caratteristiche sbrigatoriamente identificate dai suoi avversari come i suoi tratti esclusivi, ma dell’organica incapacità di dare corpo e sostanza ad un progetto di Stato «nuovo» da affiancare alle non meno incaute formulazioni sull’affermarsi di un modello di uomo antiborghese, connotato dai tratti viriloidi e guerrieri.
LA GUERRA mondiale si sarebbe peraltro incaricata di fare strame di queste posizioni identitarie, sulle quali il fascismo aveva costruito una ricca narrazione di sé, salvo poi rivelare la fragilità dell’intero impianto.
Alla persistenza così come alla sovrapposizione, alla reciproca contaminazione ma anche alla competizione tra organismi ed apparati vecchi e nuovi, si accompagnava dunque il persistente riprodursi di una dialettica tra interessi contrapposti, proprio per ciò impossibilitati ad arrivare a quella inedita sintesi che il fascismo intendeva invece proporre come la vera chiave attraverso la quale leggere la sua carica eversiva. Afferma Melis: «emerge la novità ambigua di uno Stato-partito costituito ex novo modificando in profondo la Costituzione liberale, ma al tempo stesso condizionato sino all’ultimo dalla sopravvivenza degli antichi equilibri: cioè dal modello di Stato ideato a fine Ottocento dai maestri del diritto costituzionale e amministrativo».
Si tratta di una questione che va ben oltre il problema della reciproca perimetrazione tra la Corona e il regime, in un sistema di persistente diarchia dove la propensione alla neutralizzazione dell’interlocutore, potenzialmente antagonista, si traduceva nella difficoltà di portare avanti linee autonome di indirizzo politico.
UN FATTO che richiama non solo il problema storiografico, al netto di qualsiasi giudizio politico e morale, del grado di effettiva dirompenza del fascismo sulla scena italiana, e poi europea, ma anche il tema della funzione della sovranità, e delle modalità del suo esercizio, in quello Stato contemporaneo che era il prodotto dell’età della nazionalizzazione delle masse. Poiché la vicenda del sistema mussoliniano, ovvero del suo originario costituirsi e poi della sua ventennale coesistenza con quello regio, in assenza di qualsiasi dialettica che non fosse quella prescritta da un rapporto di esclusività tra questi due soggetti, e di riflesso di questi con gli altri attori pubblici, rimanda immediatamente al problema della condivisione competitiva di un comune terreno, quello dell’identità delle istituzioni pubbliche e, con esso, della fedeltà agli autentici centri di potere.
PARE QUINDI più plausibile leggere le mancate od omesse realizzazioni del fascismo in rapporto ad un tale campo di tensioni che non solo come il risultato del suo deficit originario di cultura e capacità di azione politica. Va detto a suo merito che Melis sa accompagnare con coerenza il lettore attraverso il ginepraio di istituzioni, soggetti collettivi, attori individuali ma anche situazioni, percorsi e contesti che hanno caratterizzato tra il 1922 e il 1943 il totalitarismo imperfetto e riluttante dello Stato fascista. Il libro si compone infatti di quattro macroaree tematiche di indagine, rispettivamente dedicate al governo, al partito, alle istituzioni legislative, giudiziarie, repressive e, infine, allo Stato come gestore e mediatore di interessi corporativi. Non costituisce una storia del fascismo ma un’indagine sull’amministrazione italiana in età fascista così come del regime nel suo definirsi in rapporto al reticolo amministrativo. Anche per questo, affiancandosi ai lavori di Sabino Cassese, è un utile contributo di analisi, di contro, invece, alla tendenza alla banalizzazione del problema del lascito dell’esperienza del Ventennio.

Corriere 1.2.17
L’Orso russo senza ideologia
L’Unione Sovietica era meno aggressiva di quanto apparisse. Oggi c’è spazio per il dialogo
Testimonianze. Un libro dell’ex ambasciatore a Roma, Anatolij Adamishin, consente di rivedere i giudizi della guerra fredda sulla politica di Mosca
di Sergio Romano


La guerra fredda fu un’epoca di grandi semplificazioni. I due blocchi sapevano di non potersi fare la guerra; e vi furono persino momenti in cui accettarono di sedere intorno a un tavolo per trovare intese che rendessero la prospettiva di un conflitto più lontana e improbabile. Ma sospettavano delle reciproche intenzioni ed erano entrambi convinti che i loro interessi, nonostante qualche temporanea schiarita, fossero fondamentalmente inconciliabili. Come spesso accade in queste circostanze, l’inconciliabilità era alimentata nei due campi contrapposti da istituzioni e gruppi di pressione che avevano interesse a evitare un reale disgelo.
Per i Paesi occidentali l’Unione Sovietica era il Paese che aveva brutalmente liquidato l’insurrezione di Budapest, installato missili a Cuba, stroncato con una invasione la Primavera di Praga, aggredito l’Afghanistan. Per l’Urss, nel frattempo, gli Stati Uniti erano una potenza imperiale, la nave ammiraglia del capitalismo, il direttore d’orchestra della finanza internazionale. La Carta di Helsinki, firmata dai due blocchi nel 1975, suscitò qualche speranza, ma l’invasione dell’Afghanistan nel 1979, le continue «intrusioni» sovietiche nel Medio Oriente e in Africa, la installazione dei missili di gittata intermedia nei territori occidentali dell’Urss e l’abbattimento di un jumbo delle linee aeree sudcoreane nello spazio aereo sovietico il 1° settembre 1983, sembrarono dimostrare che era inutile attendere da Mosca qualcosa di nuovo. Questo giudizio piace naturalmente a tutti coloro per cui la politica estera della Russia di Vladimir Putin e quella dell’Urss si assomigliano come gocce d’acqua.
Commettevamo un errore. In realtà la politica estera sovietica e quella della Russia dopo il crollo dell’Urss sono sempre state molto più varie e articolate di quanto sembrassero a Washington e a Londra. Lo dimostra un libro apparso recentemente a Mosca. Si intitola In tempi diversi. Saggi di politica estera ed è stato scritto da un ex diplomatico, Anatolij Adamishin, che ha terminato la sua carriera pubblica, durante la presidenza di Boris Eltsin, come ministro per i rapporti con la Comunità degli Stati indipendenti: un incarico che corrisponde a quello del segretario di Stato per il Commonwealth in un gabinetto britannico.
Adamishin conosce bene l’Europa occidentale (è stato ambasciatore in Italia e in Gran Bretagna) e ha lavorato, anche come viceministro con tre persone che rappresentano altrettante fasi della politica russo-sovietica: Andrej Gromyko all’epoca di Leonid Brežnev, Eduard Shevardnadze all’epoca di Mikhail Gorbaciov, e Andrej Kozyrev durante la presidenza di Boris Eltsin. Il libro è molto piaciuto alla sezione moscovita della Carnegie Foundation for International Peace (uno dei migliori osservatori occidentali a Mosca).
In ciascuna di queste tre fasi la politica estera russo-sovietica è stata molto meno ideologica di quanto potesse sembrare a un osservatore straniero. Brežnev, con l’aiuto di Gromyko, voleva consolidare le posizioni conquistate alla fine della Seconda guerra mondiale e aspirava a essere trattato dagli Stati Uniti come una sorta di condomino della scena internazionale. È certamente vero che sostenne i regimi autoritari del Medio Oriente e aiutò i movimenti rivoluzionari a sud del Sahara. Ma in una situazione in cui tutti i vecchi imperi coloniali stavano morendo, non è sorprendente che l’Urss ne approfittasse per allargare la propria area d’influenza a Paesi che si stavano liberando dai loro vecchi padroni.
Shevardnadze assecondò abilmente la politica distensiva di Gorbaciov e verrà ricordato come il ministro degli Esteri che maggiormente lavorò per la fine della guerra fredda. Kozyrev si adoperò perché alle aperture internazionali corrispondessero altrettante aperture sul piano nazionale. Pensava che i rapporti della Russia con le democrazie sarebbero stati tanto più facili quanto più il suo Paese fosse riuscito ad acquisire una rispettabile credibilità democratica.
Esisteva tuttavia un altro fattore di cui Adamishin divenne rapidamente consapevole. Per parlare agli Stati Uniti e alla Unione Europea su un piano di parità non bastava essere un enorme Stato nucleare. Nel momento in cui rinunciava alla economia di comando e accettava le regole del mercato, la Russia doveva dimostrarsi capace di modernizzare se stessa, di sfruttare in modo trasparente le proprie risorse, di garantire le regole della concorrenza, di dare agli investitori stranieri le necessarie garanzie. Sappiamo che le cose sono andate diversamente. Invece di favorire la nascita di nuovi ceti sociali composti da commercianti e imprenditori, la Russia di Eltsin ha generato oligarchi ambiziosi e rapaci.
Putin ha avuto il merito di liberare il campo da questi nuovi boiari, ma sembra averne tollerato altri, purché vicini al Cremlino. Nella questione ucraina credo che siano stati commessi errori da una parte e dall’altra, ma sono convinto che le sanzioni abbiano soltanto l’effetto di ritardare la modernizzazione della Russia e di nuocere ai Paesi, fra cui l’Italia, che hanno maggiore familiarità con il suo mercato e possono dare un maggiore contributo alla sua crescita politica ed economica.

il manifesto 1.2.18
Parabola della stampa libera nell’America di Nixon
Al cinema. «The Post» di Steven Spielberg, la battaglia del quotidiano di Washington per pubblicare i Pentagon Papers
di Giulia D'Agnolo Vallan


NEW YORK L’urgenza del presente e un omaggio al cinema di attivismo politico anni settanta, di cui però Spielberg, figlio della cinefilia, non condivide il DNA, sono le forze che animano The Post -concepito in velocità, la primavera scorsa, tra il fallimento di Il grande gigante gentile e l’uscita, in marzo, di Ready Player One. Un film di attori (Meryl Streep e Tom Hanks, più un supporting cast di prestigio), strappato ai titoli di testa dei giornali e (nella texture) evolutosi con loro in corso di lavorazione, tra due studi di sperimentazione narrativa/tecnologica dedicati a Roald Dahl e al VR.
Sulla carta, The Post ha l’aspetto di un viaggio nel tempo. La giungla verde in cui apre – su note stridenti: i Doors secondo John Williams- è quella del Vietnam. Quella grigio-bianca di mausolei di pietra e palazzi vetrati in cui si sposta subito dopo è la giungla di Washington – primavera 1971.
Il gallese Matthew Rhys, agente KGB protagonista di The Americans, è Daniel Ellsberg, l’analista militare che, dopo aver toccato con mano il disastro nel Sudest asiatico, rivoluzionò l’opinione pubblica rilasciando ai media i Pentagon Papers, lo studio commissionato da McNamara per ricostruire il coinvolgimento politico Usa in Vietnam, dalla seconda guerra mondiale in poi.
Antesignano di Chelsea Manning e Edward Snowden, Ellsberg non è però «la storia» di questo film. The Post decolla infatti quando lui esce di scena e il racconto si sposta ai vertici del «Washington Post» e nella sua redazione, ricostruita già in Tutti gli uomini del presidente, e nel cui spazio aperto la macchina di Spielberg scorrazza con la stessa determinazione di quella di Alan Pakula.
Mondo maschile, romanticamente «ingrato», a base di inchiostro, camice stropicciate, notti solitarie passate alla macchina da scrivere e take out da poco, la newsroom del «Post» è capitanata come una caravella corsara da Ben Bradlee (Tom Hanks, la cui grisaglia una taglia più stretta del dovuto tradisce un’esuberanza da frontiera western che mal tollera il controllo sartoriale della burocrazia).
Ma il vero padrone è un altro. Anzi, un’altra. Virtualmente invisibile in Tutti gli uomini del presidente la proprietaria del «Washington Post», Katherine Graham è la protagonista della parabola di Spielberg, un’avventura di riscossa femminile e di trionfo del free speech nell’America di Richard Nixon che (purtroppo implausibilmente, come nota Bret Easton Ellis) sta per quella di Trump. Figlia del finanziere repubblicano Eugene Meyer che, nel 1933, aveva acquistato il quotidiano della capitale a un’asta post bancarotta, Graham era stata sorpassata alla successione del «Post» a favore di suo marito, Phil Graham. Nella sua autobiografia lei ha dichiarato di non aver preso la scelta di suo padre come uno sgarro, bensì come una mossa logica.
Fu il destino a riparare l’ingiustizia quando, dopo il suicidio del consorte, Graham si trovò alle redini della testata. Streep, nei panni della prima donna a entrare nei Fortune 500, e la cui dirigenza rese possibile l’exploit giornalistico del Watergate, ce la presenta inizialmente un po’ esitante, quasi la caricatura di una socialite. Nella realtà, Graham era tutt’altro che una farfalla da salotto: amava il giornalismo, aveva lavorato per il «San Francisco News» e per la pagina editoriale del giornale di suo padre. Spielberg tesse tra la sua Graham e il burbero, rompicollo, direttore Bradlee una tacita alleanza che si movimenta quando un’ingiunzione impedisce al «New York Times» di continuare la pubblicazione dei Pentagon Papers e il «Post» deve decidere se andare avanti o no.
In gioco, teme il Cda, è l’imminente ingresso della testata su Wall Street, l’appoggio delle banche. Ma è a un’altra reputazione che Graham sta pensando. Sarà lei la più lungimirante. Spielberg chiude con un’inquadratura sulla Casa bianca. La voce dall’ interno è quella di Nixon, che ordina la messa al bando del «Washington Post». Potrebbe essere una classica tirata anti-media di Trump. Lo stacco successivo: tre finestre illuminate in un palazzo d’uffici è l’inizio di Tutti gli uomini del presidente. «Pronto, polizia? Credo sia in corso un break in al Watergate».
Un semplice auspicio, o una profezia

il manifesto 1.2.18
Sullo stendardo sumero di Ur
I bambini ci parlano. «Io non capisco bene una cosa, maestro. Dal disegno sembra che erano tutti pelati, senza capelli. Ma forse… Forse è solo un disegno, non era così veramente»
di Giuseppe Caliceti


L’immagine che avete davanti è lo stendardi di Ur. Attraverso questo stendardo sumero possiamo scoprire insieme alcune delle attività praticate dai Sumeri. O immaginarle. Osservate con attenzione questo ingrandimento e ditemi se riconoscete chi sono e cosa fanno, che attività svolgono i personaggi. «Questo per me è proprio come lo stendardo vero, è grossissimo». «Questo per me è il re. Lui è su una… Su una portantina, si dice? Sì. Perché lo portano. Sì, una sedia, un trono che portano gli altri da sotto». «Quelli che sono vicino ai cavalli sono i contadini». «A me sembrano delle mucche, non dei cavalli». «No, sono cavalli».
«Comunque non sono contadini, loro sono allevatori». «Vabbè, ma i contadini e gli allevatori erano gli stessi». «Per me quelli seduti sono i più ricchi. Invece quelli in piedi, qui nello stendardo, sono i più poveri: perché quelli più ricchi sono seduti, non lavorano; invece gli altri, quelli in piedi, sono quelli che lavorano di più». «Per me questo è il re perché ha degli ornamenti». «A me sembra che indossano tutti la gonna». «Ma no, quelle sono le tuniche. Una volta non esistevano i pantaloni, ma solo le tuniche». «Questo che porta tutto il peso, che porta questa borsa, questo zaino pieno di roba, per me, per me è uno schiavo». «Gli schiavi erano trattati come animali. Gli schiavi erano venduti e comprati come se fossero stati delle cose o degli animali, non delle persone. Per fortuna adesso non ci sono più schiavi». «Queste mi sembrano delle zebre». «Ma no! Sono delle capre. Quella è la lana delle capre che serve per fare i vestiti. Per questo facevano crescere la pelle così tanto alle capre. Cioè, il pelo. Per fare i vestiti. La lana». «A me questo sembra un boscaiolo». «Io non capisco bene una cosa, maestro. Dal disegno sembra che erano tutti pelati, senza capelli. Ma forse… Forse è solo un disegno, non era così veramente». «No, qui hanno anche dei capelli. Ma pochi. È vero». «Questo bue ha una stoffa sopra. Per sedersi. Vuol dire che era molto importante, secondo me». «A me questo stendardo sembra una sfilata.
Sono tutti in fila. Sono tutti ordinati. Uno sopra all’altro. In ordine». «A me invece sembra una festa. Però una festa ordinata, è vero». «No, sembra una sfilata.
Per una festa importante. Anche i cavalli e gli animali, alcuni animali, almeno, hanno dei collari, hanno dei diamanti, forse, delle collane, degli abbellimenti». «I caproni hanno delle corna molto grosse e molto importanti». «Ci sono el pecore che sono le femmine e i caproni che sono i maschi». «Sembra un po’ come l’arca di Noè. Come il diluvio. Quando c’è stato il diluvio». «Ma qui non c’è stato nessun diluvio». «Però nello stendardo sono disegnati tutti i tipi di animale e di persona che c’erano al mondo in quegli anni in cui vivevano loro, i Sumeri». «Io vedo che qui stanno bevendo dell’acqua o del vino». «Alcuni portano delle casse, delle specie di tavoli». «Per me quelli, invece, sono come degli attrezzi per lavorare la terra o il legno, come gli attrezzi che hanno i falegnami». «Le sedie sono strane. Non sembrano sedie. Per me sono delle specie di tavolini dove loro si sedevano sopra». «Anche i vestiti sono strani. Non tutti, ma alcuni sì. In fondo hanno queste righe, queste…». «Si chiamano le frange, come quelle che hanno gli indiani nei loro abiti». «Ci sono dei musicisti, mi pare. Io credo che quello è un flauto come quello che suona mia sorella alle scuole medie». «Se ci sono delle pecore e dei caproni per me qualcuno di questi è un pastore. Anzi, forse ce ne sono molti». «Questo però è il re. Anche perché ha il simbolo del re. Ha l’importanza». «Sono tutti importanti». «Sì, ma alcuni si vede che fanno più fatica, alcuni invece si vede che fanno più fatica e insomma, non si divertono molto. Perché portare dei sacchi pesanti, per esempio, doverli trasportare da un posto all’altro da solo, senza l’aiuto di nessuno che ti aiuta, può essere anche poco divertente, per me. Anzi, non è divertente per niente. Infatti questo qui non mi pare che ha una faccia molto divertita. Anzi, non ce l’ha proprio».

il manifesto 1.2.18
La maternità surrogata è l’apoteosi del patriarcato
di Ginevra Bompiani


Qualche giorno fa, alla Casa delle Donne di Roma, ho assistito a un confronto fra psicanaliste, una italiana, Manuela Fraire, e una francese, Elisabeth Roudinesco, sul tema della maternità surrogata.
Roudinesco spiegava le sottigliezze di una legislazione. Ovvero di una legislazione che regoli puntigliosamente il contratto fra una coppia desiderosa di figli e la donna che fornisce l’utero. E Manuela Fraire vedeva in questa pratica il possibile superamento del patriarcato.
Ahimè, temo che il superamento del patriarcato non verrà da questa pratica, che, a mio vedere, ne è piuttosto l’apogeo.
In realtà, da quando il patriarcato si è imposto su gran parte del mondo, circa 5000 anni fa, il suo proposito è stato quello di spostare il possesso di diritti e di beni dalle donne agli uomini.
E il primo obiettivo, che giustificava e imponeva tutti gli altri era di assicurarsi la proprietà dei figli che, secondo il diritto matrilineare, erano di pertinenza della casa materna.
Il principale diritto rivendicato e difeso dal patriarcato è dunque il diritto di proprietà, per accedere al quale la via più diretta è l’esproprio.
E proprio di questo si tratta nella maternità surrogata: dell’esproprio di un utero e della rivendicazione di proprietà del figlio partorito.
Tutto il resto è secondario e le questioni giuridiche, che dovrebbero regolare il ‘contratto di locazione’ dell’utero e il possesso del suo prodotto, sono semplicemente quelle che il patriarcato – e il capitale, che è la sua più recente ed efficace rappresentazione -, si pongono nei confronti di un organo vitale.
La questione si è posta per la prima volta per la ‘donazione’ degli organi.
Poiché questi non potevano essere espropriati da organismi senza vita, si è cambiata la denominazione della morte, dividendola in ‘morte clinica’ (adatta all’espunzione degli organi) e morte reale.
E’ significativo che la stessa parola ‘dono’ venga usata nel caso di un ‘donatore di organi’ privo di coscienza e di volontà, e delle donne che danno in uso il proprio utero.
Ed è sorprendente che nessuno si ponga la domanda del perché una donna sana di corpo e di mente sia disposta a un sacrificio di nove mesi, con rischio della vita, quando si escluda la ragione economica.
L’opinione corrente fra i sostenitori è che sebbene, nella maggior parte dei casi, l’accordo preveda un compenso in denaro, almeno sotto forma di ‘rimborso spese’, ‘mantenimento’ o semplice ‘gratitudine’, questo non entri in alcun modo nelle ragioni del consenso, che restano puramente altruistiche.
E poiché si tratta di un ‘dono’, non può che venire da uno slancio generoso, anche nei confronti di sconosciuti, incontrati attraverso gli uffici di Stati compiacenti.
E non ci può sorprendere che un simile disinteresse provenga dalla componente femminile della razza umana, che non ha equivalenti nella componente maschile (se non si vuole paragonare il ‘dono’ dello sperma, che dopo tutto richiede pochi minuti di un’attività non spiacevole).
Questo è l’ultimo, in ordine di tempo, esproprio che la donna subisce, e al quale si sottopone ‘volontariamente’, come si è sottoposta a tutti gli altri in questi 5000 anni.
E da parte di chi ne usufruisce, è l’ultima confusione fra desiderio, privilegio e diritto.

La Stampa 1.2.18
Il Novecento di Nicola Chiaromonte
di Bruno Quaranta


Occupato com’è a misurare le sue forze su quelle dei politici e dei potenti, e a non dire che le verità opportune, come farà l’intellettuale a calcolare l’effetto incalcolabile di una semplice verità detta chiara e tonda?».
È la riflessione, d’intatta attualità, formulata nel 1957, sulle colonne di Tempo presente, la rivista diretta con Ignazio Silone, da Nicola Chiaromonte. Fra gli interpreti della vita come un affare di coscienza, non subordinata, la coscienza, a qualsivoglia sirena, ideologica o confessionale, il pensatore lucano riappare nella biografia curatissima di Cesare Panizza (Donzelli, pp. 321, € 29, presentazione di Paolo Marzotto, prefazione di Paolo Soddu).
Nemo propheta in patria, Nicola Chiaromonte (1905-1972). Ma soprattutto, preferibilmente, un intellettuale cosmopolita, a suo agio fuori di casa, oltre i confini. In forza, anche, del tempo toccatogli in sorte. E così, aderente a Giustizia e Libertà, fautore di un socialismo libertario, più che liberale, andò esule a Parigi. Quindi combattè in Spagna, accanto a Malraux, nella sua squadriglia di aviatori (Malraux, ovvero il «demone dell’azione», a cui ispirò lo Scali di L’Espoir). Rifugiandosi, scoppiata la seconda guerra mondiale, a New York, dove risalterà in un cenacolo di menti quali Mary McCarthy (che lo fece protagonista del racconto L’oasi), Hannah Arendt, John Berriman, Robert Lowell...
Confrère tra i confrères di Nicola Chiaromonte, Albert Camus, conosciuto ad Algeri nel 1941, ritrovato a New York nel 1946, condividendone l’idea di engagement: «Vivere il nichilismo - la possibilità che niente avesse senso e tutto fosse permesso - e insieme combatterlo: il più semplice atto di vita è infatti un atto di affermazione». Tornato in Italia dopo la guerra, Chiaromonte collaborò anche al Mondo di Mario Pannunzio. Tra un articolo e un saggio, tra un settimanale e una rivista, meditando sull’irredimibilità degli italiani, per i quali «non c’è emergenza per cui sia lecito perdere di vista i valori della vita quotidiana. Dal far soldi al fantasticare...». Testimone integerrimo di una mai arginata questione morale.

Repubblica 1.2.18
Biotestamento
Il vizio di un Paese impreparato a tutto
di Chiara Saraceno


A due mesi dall’approvazione della legge sul fine vita, ci troviamo ancora in una situazione di incertezza, confusione, discrezionalità. A seconda del Comune in cui si vive o della Asl cui ci si rivolge, dell’ospedale in cui si è ricoverati, si può o meno consegnare le proprie volontà in materia. Come avviene troppo spesso, specie nel campo dei diritti civili, le istituzioni che dovrebbero garantire l’applicazione della legge e i diritti dei cittadini si sono fatte cogliere impreparate, per superficialità, disorganizzazione, quando non vero e proprio ostruzionismo.
Un periodo di rodaggio è sempre da mettere in conto nell’applicazione di nuove norme. Ma non è accettabile che non si sia approntato nulla e che manchi persino la conoscenza dell’esistenza della nuova normativa. Ministero della Salute, Regioni, Comuni, dal giorno dopo l’approvazione della legge avrebbero dovuto preoccuparsi di come fare in modo che i cittadini desiderosi di consegnare le proprie volontà trovassero accoglienza e impiegati preparati. Di più, avrebbero il compito, il dovere di informare i cittadini di questa possibilità, invece di ostacolarli. L’ignoranza della legge non è ammessa quando si tratta di comuni cittadini, tanto meno dovrebbe esserlo quando si tratta di istituzioni pubbliche. Quando poi le istituzioni ostacolano l’applicazione della legge siamo al limite della eversione. Questa situazione di caos istituzionale, se non immediatamente contrastata, rischia di tradursi in anarchia discrezionale nella applicazione delle norme, vanificando il lungo lavoro di mediazione che ha portato alla approvazione di una legge tutto sommato equilibrata, anche se ha alcune zone d’ombra, specie quanto alla possibilità che il medico disattenda il volere di un malato, se questo è materialmente impossibilitato a rifiutare le cure. Se continueranno ad esserci Comuni e Asl che si rifiutano, per impreparazione o peggio, di autenticare le disposizioni di fine vita, il diritto a farle valere sarà effettivo solo per chi abita in un Comune o appartiene a una Asl che invece rispetta la legge che attribuisce, appunto, ad essi il compito di accogliere e certificare queste disposizioni, o a chi è sufficientemente informato da rivolgersi a un notaio. La mancata applicazione della legge in modo generalizzato e uniforme rafforza così le disuguaglianze — di tipo territoriale oltre che socio-economiche — tra cittadini. Non ci si stupisca quindi della diffusa perdita di fiducia nelle istituzioni e nell’utilità della partecipazione politica.

Repubblica 1.2.17
Biotestamento La guida
Domande e risposte
Nelle città
In Comune o dal notaio per indicare le scelte
Le diverse possibilità dall’atto pubblico alla scrittura privata (può bastare un video)
A regime, i documenti confluiranno in una banca dati nazionale
a cura di Caterina Pasolini


Chi può fare il biotestamento?
I maggiorenni capaci di intendere e di volere. Si può nominare un fiduciario che parli e ci rappresenti col medico quando non si potrà o non si vorrà farlo anche se in grado.
Dove vengono depositati i testamenti biologici?
A regime ci sarà un registro nazionale nel quale confluiranno i dati delle singole città. Ma per istituirlo ci vorrà del tempo, anche due o tre anni secondo alcuni osservatori.
E nel frattempo cosa succede?
Le possibilità sono tre: la prima è quella di andare nei Comuni che hanno deciso di istituire un registro (già prima della legge erano 180, molto spesso capoluoghi) o che decideranno di istituirlo da oggi in avanti.
E l’alternativa?
Alcune Regioni stanno provando a registrare le Dat nel fascicolo elettronico. Questo presuppone che il biotestamento possa essere depositato nelle Asl. Ma da questo punto di vista buona parte delle Regioni sono ancora molto indietro.
Qual è la terza possibilità?
Andare da un notaio e fare un atto pubblico o una scrittura privata autenticata. L’atto non sconta nessun tipo di imposta di registro o di bollo né altra tassazione.
Valgono anche le dichiarazioni in video?
Sì, la legge prevede che la propria
volontà possa essere espressa anche con un video.
I testamenti già fatti prima dell’entrata in vigore della legge valgono?
Quelli consegnati a notai e Comuni prima della legge sì.
Quali cure si possono rifiutare?
Tutte. Nel biotestamento si può anche scegliere di entrare nel dettaglio: non voglio essere rianimato, intubato, voglio antidolorifici, oppiacei, rianimazione meccanica. Voglio (o non voglio) che siano iniziati trattamenti anche se il loro risultato fosse uno stato di demenza.
Idratazione e nutrizione?
Si può rifiutare, perché è una terapia, la somministrazione di nutrienti mediante dispositivo medico, come un sondino nella pancia.
Si può cambiare idea?
Sempre: il cambio va annotato nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
Il medico deve ubbidire al malato?
Nessun medico può violare la volontà dei malati, ma al medico è riconosciuto il diritto di non eseguire le scelte del paziente se pensa che vadano contro il codice deontologico. Nella legge non è prevista esplicitamente, come per la legge sull’aborto, l’obiezione di coscienza.
Chi ha l’ultima parola?
Il paziente. Se il dottore si rifiuta per motivi personali, la struttura ospedaliera ha il dovere di trovare un sostituto che garantisca il rispetto delle volontà del malato.
Si può chiedere l’eutanasia?
Suicidio assistito ed eutanasia nel nostro Paese sono vietati.
E la sedazione profonda?
Sì, è prevista per i malati in fase terminale per i quali altre terapie antidolorifiche risultano inefficaci. È garantita dalla legge sulle cure palliative.
I minorenni cosa fanno?
Non possono fare il testamento: il consenso è espresso dai genitori, dal tutore o dall’amministratore sentito il ragazzo.

Torino
“Venga tra due ore dev’esserci anche il suo fiduciario”
Federica Cravero


«Può venire alle tre meno dieci. Le va bene? Mi raccomando, deve esserci anche il suo fiduciario». A Torino per depositare il proprio testamento biologico basta telefonare a mezzogiorno all’Ufficio relazioni con il pubblico del Comune di Torino e si ottiene subito un appuntamento. I documenti da preparare sono elencati sul sito della Città, si mette tutto in una busta, l’impiegata la sigilla, mette timbri e firme sul nastro adesivo, stampa una ricevuta e via. Sono le tre e dieci. In venti minuti l’iscrizione al registro cittadino dei testamenti biologici è completata.
Una rapidità e una semplicità che sono frutto di una tradizione in materia di biotestamento che risale al 2011, quando una delibera di iniziativa popolare avviata dall’associazione radicale Adelaide Aglietta aveva creato a Torino, prima grande città in Italia, il registro sul fine vita.
Per gli uffici dell’Urp, in effetti, ieri non è stato un giorno diverso dagli altri. Se non fosse che da ieri gli 837 testamenti presentati in questi sette anni, alcuni scritti a mano con le proprie volontà, altri redatti usando il modulo che si può scaricare dal sito del Comune, acquistano un valore ufficiale.

Genova
“I moduli? Sul sito dell’associazione Luca Coscioni”
Matteo Pucciarelli


Ufficio testamento biologico, stanza 202, secondo piano. In via Torino non bisogna prendere il numero e fare una lunga anticamera, ma basta guardare il tabellone all’ingresso con le varie dislocazioni dei servizi forniti dal Comune e andare. La funzionaria responsabile della raccolta di richieste sul fine vita, Daniela Gasperini, condivide gli spazi con la Toponomastica.
«Ma in questi giorni verrà spostato tutto all’Ufficio certificati», spiega. Sì perché il capoluogo ligure già dal 2009 dà la possibilità ai residenti di consegnare le cosiddette “disposizioni anticipate di trattamento”. Ma adesso che c’è una legge, non servirà più scorporare una funzione figlia delle volontà politiche delle precedenti amministrazioni di centrosinistra. Il procedimento è semplice: ci si presenta in Comune insieme a un fiduciario — con il proprio e il suo documento di identità validi — e si consegna un plico con il testamento biologico. Sul contentuto (come si scrive una Dat? Ci sono accorgimenti particolari da avere?) i dipendenti non si sbilanciano; «è un tema così delicato», ragiona un’altra funzionaria. Che poi però a bassa voce consiglia: «Vada a dare un’occhiata sul sito dell’associazione Luca Coscioni, lì trova tutto...».

Milano
Il buio alla Asl “Fare il bio cosa? Da noi non si può”
Brunella Giovara


«Biocosa?». All’Ats (ex Asl) di via Andrea Doria nessuno sa proprio cosa sia, il biotestamento. E anche Dat, parola sconosciuta. Infatti un medico dietro allo sportello dice «mai avuta una richiesta del genere, d’altra parte io sono ginecologo. Vada al settimo piano, chieda alla caposala».
Ma lei, gentile, indirizza verso l’altra sede di via Ricordi 1. E nemmeno al quarto piano, dove un centinaio di persone aspetta di cambiare il medico, si capisce dove si possa andare per registrare le proprie volontà. In via Ricordi Mario D., Ufficio relazioni con il pubblico, studia la notizia sul sito di Repubblica e conclude che «da noi non si può fare.
Evidentemente la Regione Lombardia non ha ancora recepito…».
Quindi, resta il Comune.
All’anagrafe di via Larga sono tutti pronti e motivati. Nel salone centrale un cartello avverte che bisogna salire al primo piano stanza 140, dove ci sono due signore, ufficiali di stato civile, pronte ad accettare la richiesta. Il dirigente Claudio Bisi dice «prego, consegni la sua Dat in busta chiusa, la protocolliamo subito e la chiudiamo in cassaforte».
Molto bene, quante persone sono venute oggi? «Neanche una».

Bologna
Per finire in lista bastano un A4 e un documento
Rosario Di Raimondo


«Deve consegnare il testamento biologico? Secondo piano, ufficio sulla sinistra». La funzionaria Giovanna sembra quasi abbia voglia di festeggiare: «Questo è il primo testamento biologico che registro dall’entrata in vigore della legge». Ore 10.30 del mattino, in meno di un’ora l’impiegata del Comune di Bologna rilascia una ricevuta nel quale c’è scritto: «Dichiarazione anticipata di trattamento». La macchina dev’essere ancora rodata ma il testamento biologico sotto le Due Torri è realtà. Basta portare le proprie volontà in formato A4, assieme alla carta d’identità, rivolgersi all’ufficio relazioni con il pubblico di piazza Maggiore, salire all’ufficio Stato civile, sezione decessi, fare una firma e vedere il proprio nome scorrere su un pc dallo sfondo nero che memorizza nomi e date. L’impiegata si limita a questo, non tiene una copia del testamento.
Il prossimo passo sarà collegare il registro dei testamenti al fascicolo sanitario elettronico di ogni cittadino, in modo che i medici possano vedere in ogni momento la storia clinica del paziente e le sue volontà.
Bologna ha fatto da apripista prima delle legge istituendo un proprio registro delle “Dat”.
Quasi 300 i bolognesi che hanno fatto richiesta.

Firenze
La gaffe di 055055 “Non sappiamo Meglio richiamare”
Gerardo Adinolfi


«Vuole fissare un appuntamento per martedì o giovedì prossimo?». A Firenze il testamento biologico si consegna dopo aver prenotato.
La funzionaria dell’ufficio servizi demografici del Comune ha sulla scrivania l’agenda 2018. «Se vuole pensarci può anche chiamare più tardi», dice scrivendo tre numeri telefonici su un post-it giallo. Nel primo giorno dell’entrata in vigore della nuova legge, a Firenze, è promosso l’ufficio di stato civile, ma rimandato il servizio di assistenza al pubblico 055 055. È da qui che Repubblica inizia il suo test: sulla pagina web del Comune, la sezione sul biotestamento è in aggiornamento. Firenze era tra i 30 Comuni toscani dove poter consegnare una simbolica Dat prima della legge: «Le consiglio di riprovare fra qualche giorno — dice l’operatrice del call center — Ancora non ci hanno informato dei cambiamenti». Ritentiamo, e un altro operatore indirizza all’ufficio di stato civile. Non siamo i primi. La funzionaria spiega che i moduli per le Dat non ci sono ancora: «Ma si trovano sul web». I documenti consegnati finiranno, quando verrà fatta la delibera regionale, nella tessera sanitaria elettronica del cittadino. Così i medici conosceranno le volontà dei pazienti.

Roma
“Niente registro Qui possiamo solo vidimare la firma”
Lorenzo D’Albergo


Indietro tutta. Partito con largo anticipo rispetto alla maggioranza dei comuni italiani, ora il Campidoglio arretra sul biotestamento. Il registro non c’è.
Approvato in era Marino su spinta del radicale Riccardo Magi — senza il voto dell’allora consigliera di opposizione Virginia Raggi — è sparito nel nulla. O meglio: non è mai stato attivato. «Quella delibera non ha valore.
Aspettiamo un decreto attuativo del governo», fanno sapere da Palazzo Senatorio. Così il sito di Roma Capitale latita, offre link scaduti. I comunali, poi, cadono dalle nuvole. Rivelano tempismi sospetti: «Guardi — ci si sente rispondere al municipio VIII — qui eravamo gli unici con il registro.
Ma da due settimane non c’è più».
Il pellegrinaggio dei romani e dei loro fiduciari, allora, diventa presto un calvario. I dipendenti capitolini dello stato civile possono al massimo «vidimare la firma», così come i notai. Inserire il biotestamento nel fascicolo medico elettronico pare pura fantascienza. «Non abbiamo avuto ancora direttive», spiegano al call center della Asl Roma 1. «Ci dobbiamo informare — ribattono dalla seconda azienda sanitaria — mi lasci il suo numero, la richiameremo appena possibile.
Ha provato con il medico di base?». Tentiamo: «Certo, si può fare». Ma solo a mano, perché il software «va ancora aggiornato».

Napoli
“Siamo in attesa di indicazioni dalla Regione”
Giuseppe Del Bello


Le 11 di ieri. Palazzo San Giacomo, sede del Comune. Al quarto piano c’è l’ufficio di Stato civile diretto da Luigi Loffredo che ospita anche il registro del Testamento biologico. A Napoli è attivo, a livello comunale, da 4 anni, per volontà del sindaco Luigi de Magistris. È stato tra i primi, con altri 182 Comuni, a istituirlo. Qui, insieme a un fiduciario, si consegna la busta sigillata. Dentro, 3 allegati scaricati dal sito comunale: il principale fa riferimento a temi di fine vita. Come quello delle cure: «a seguito di accidente cerebrale, dichiaro e chiedo che nessun trattamento debba essere iniziato senza il mio consenso...». Pochi minuti, il plico è archiviato (in armadio) e la ricevuta consegnata al cittadino. «Siamo pronti per utilizzare questo registro, — spiega Loffredo — manca ancora la parte informatica, ma non dipende da noi». Sarebbe compito di Regione e Asl. Così il testamento resta nel cassetto. Il direttore generale della Sanità Nino Postiglione rivela: «Siamo in attesa del fascicolo sanitario provvisorio nazionale dal Mef; nelle more, il nostro regionale ci sarà tra 4 mesi». Anche dal Cardarelli l’unico a parlare è il manager Ciro Verdoliva: «Lo farò quanto prima. Anche io attendo disposizioni dalla Regione».

Bari
“Provi tra un mese O forse all’Urp le diranno di più”
Anna Puricella


A Bari non è possibile fare il biotestamento. Il Comune non è ancora pronto, nonostante abbia approvato un registro — mai entrato in funzione — nel 2016.
Repubblica è andata a verificare, ed è finita nel gioco dell’oca. L’Urp del quartiere Poggiofranco rimanda a quello centrale, che a sua volta rimanda all’ufficio di Stato civile. «Non ne sappiamo niente, forse all’Anagrafe». Anche qui — stesso palazzo, stesso piano — il funzionario sembra sorpreso, e ipotizza erroneamente che si potrebbero inserire le disposizioni anticipate di trattamento al rinnovo della carta d’ identità elettronica. Si procede per tentativi, fino a che la segreteria di direzione dell’assessorato ai Servizi demografici non dà una risposta: «Non c’è il registro, provate fra un mese. Magari all’Urp centrale possono dare chiarimenti». Altro ufficio, altra confusione. «Mancano le procedure amministrative, dovreste rivolgervi alla segreteria di direzione». Si torna indietro di una casella, quindi, e a voler uscire dal labirinto ci si può rivolgere ai notai. Ma anche qui è un buco nell’acqua. «Meglio fissare un appuntamento, è una questione delicata e bisogna capire se il cliente è consapevole della scelta». E se si vuol conoscere il costo dell’autentica, più d’uno risponde che «tutto, nella vita, ha un costo».

Palermo
Tutto in tre copie una è archiviata (ma nel cassetto)
Claudia Brunetto


I corridoi degli uffici comunali di piazza Giulio Cesare, a un passo dalla stazione centrale, sono deserti. Ma chiedendo al portiere di turno si scopre, dopo qualche telefonata, che per depositare il testamento biologico bisogna andare al secondo piano. Sono gli uffici dello Stato civile e in coda ci sono una decina di persone pronte a chiedere documenti di ogni tipo. Nessuno è lì per il testamento biologico. E qualcuno non sa neanche che la legge è già entrata in vigore. Il funzionario del Comune, in compenso, è preparato sull’argomento. Tira fuori dal cassetto i moduli da compilare e anche una copia della delibera della giunta risalente al 2015 che ha istituito a Palermo, ben prima che la legge entrasse in vigore, il registro dei testamenti biologici. Da allora, però, solo tre persone si sono fatte avanti. «Adesso — dice il funzionario del Comune — saranno sicuramente di più. In questi giorni tanti hanno telefonato per chiedere informazioni». Compilati tre moduli, in presenza dell’impiegato del Comune, il gioco è fatto. Una copia va all’interessato, una al fiduciario e un’altra in busta chiusa rimane al Comune. Ma nel cassetto. Fino a quando il sistema verrà informatizzato.