il manifesto 31.1.18
L’impietoso sangue delle congiure rinascimentali
Storia.
Tre volumi recenti individuano il tragitto di famiglie e dinastie
cinquecentesche, tra Firenze, Roma e Genova. Dal più noto Lorenzo il
Magnifico, alla vicenda dei Pazzi, per proseguire con gli aristocratici
Fieschi. Percorso di letture tra saggi di Barbara Frale, Franco Cardini,
Luigi Mascilli Migliorini e Gabriella Airaldi
di Martina Montesano
Serie
televisive recenti come i Tudors e i Medici ci hanno abituati a pensare
al Rinascimento come a un’età di intrighi e congiure, oltre che di
splendori artistici. E in un certo senso, il libro di Barbara Frale e
Franco Cardini, La Congiura. Potere e vendetta nella Firenze dei Medici
(Laterza, pp. 306, euro 20) sembra andare incontro alle aspettative di
un pubblico ben predisposto. Si apre infatti con un affresco della
cultura fiorentina del Quattrocento, per molti versi ineguagliata in
Europa, per poi stringere sui Medici e sulla cosiddetta congiura dei
Pazzi.
PARTIAMO dalla storia dell’Italia di quall’epoca. Verso la
metà del Quattrocento, era chiaro che nessuno dei maggiori stati
territoriali italiani maggiori avrebbe mai potuto prevalere sull’altro, e
che dal proseguimento della guerra per la successione al ducato di
Milano tutte le parti in conflitto avrebbero avuto da perdere.
Alfonso
V, re di Napoli e d’Aragona, si rassegnò dinanzi al dato reale che
Firenze non gli avrebbe mai consentito di impadronirsi anche di Milano,
tanto più che la stessa Venezia aveva compreso che in fondo, come duca
di quella città, il condottiero Francesco Sforza era un pericolo minore
che non l’aragonese. Né si potevano escludere ingerenze dai paesi
d’oltralpe. La Francia stava uscendo dalla guerra dei Cent’Anni: la
corona francese vantava diritti di successione sia su Milano (a causa
del matrimonio tra Giangaleazzo Visconti e Isabella di Francia), sia su
Napoli (attraverso i diritti vantati dagli Angioini). Uno stato di
discordia non giovava né allo Sforza, né ad Alfonso: avrebbe potuto
richiamare sulla penisola l’attenzione del re francese.
Inoltre,
nel 1453 Costantinopoli era caduta in mano ai turchi ottomani: la sua
ultima notte è stata di recente raccontata assai bene da Luigi Mascilli
Migliorini, Le verità dei vinti. Quattro storie mediterranee (Salerno,
pp. 144, euro 12). Papa Niccolò V aveva risposto proclamando una
crociata che non si fece mai, ma alla quale sia Alfonso di Napoli sia il
duca di Borgogna avevano risposto con entusiasmo. Il possesso di
Costantinopoli da parte del sultano Mehmet II minacciava gli interessi
commerciali di Firenze, di Venezia e di Genova, ma era idea corrente in
tutte queste città che in fondo ci si potesse accordare con i nuovi
padroni: tutto ciò richiedeva comunque una pausa di ripensamento in
tutta la politica italica. Si giunse perciò alla pace di Lodi (1454),
con la quale si fissava il confine tra Milano e Venezia all’Adda e si
stabiliva una specie di implicita intesa, sulla base della quale i
cinque grandi stati territoriali italiani – ducato di Milano, repubblica
di Venezia, repubblica di Firenze, stato della Chiesa, regno di Napoli –
s’impegnavano praticamente a mantenere lo status quo nel reciproco
interesse.
Il «sistema dell’equilibrio» fu forse d’altronde
sopravvalutato dalla storiografia italiana cinquecentesca, a partire dal
Guicciardini, che, in un momento d’invasione straniera e di guerre
continue sul suolo italico, guardò con nostalgia alla seconda metà del
Quattrocento e prestò ai protagonisti della politica di quegli anni
intenzioni che forse non erano mai state loro, interpretando la
«politica dell’equilibrio» come un’intesa programmatica tesa a tener
fuori i non-italiani dalla penisola.
IL QUARANTENNIO 1454-94 fu
pertanto caratterizzato da una pace generale, ma molto imperfetta: anzi,
qua e là infranta da congiure e da colpi di mano che davano luogo a
tentativi di destabilizzazione e a guerre che però venivano subito
risolte o quanto meno localizzate da un’intesa che impediva loro di
dilagare. Ai primi degli Anni Settanta, una spinta destabilizzatrice fu
impressa da papa Sisto IV (1471-84), il francescano genovese Francesco
della Rovere, che intendeva servirsi del soglio pontificio per portare
avanti una politica «nepotista», tesa a sistemare – con cardinalati,
vescovati e signorie di città e di terre – i suoi congiunti. Per una
lunga serie di ragioni, che La congiura spiega nei dettagli, tra il
pontefice e Lorenzo de’ Medici la situazione si fece presto tesa.
Sisto
IV giunse a convincersi che la politica fiorentina avrebbe potuto venir
modificata in suo favore solo se il potere fosse sfuggito di mano a
Lorenzo; anzi, che sarebbe stato possibile addirittura mettere le mani
sulla città rivale. Era necessario, a tal fine, accordandosi con le
grandi famiglie fiorentine che detestavano casa Medici fra le quali, i
Pazzi, legati economicamente al papa.
IL SUSSEGUIRSI di violenze e
intrighi finirono per coinvolgere non solo Firenze e Roma, bensì
l’Italia intera e lo scacchiere mediterraneo nel quale era inserita.
Addentrarsi troppo nel dettaglio toglierebbe il piacere della lettura,
visto che a tratti il libro si legge come un giallo.
Meno di un
secolo più tardi, un’altra congiura, altro sangue, altre vendette si
consumano intorno alla città di Genova. Una città la cui storia è meno
universalmente nota di quella fiorentina, ma che nel Cinquecento gioca
un ruolo di primo piano nella storia europea. È la congiura dei Fieschi,
grande famiglia dell’aristocrazia genovese, che ci viene raccontata da
Gabriella Airaldi in La congiura dei Fieschi. Un Capodanno di sangue
(Salerno, pp. 140, euro 12). Sullo sfondo, il passaggio del celebre
ammiraglio Andrea Doria, che abbandona il campo del re di Francia,
Francesco I, per unirsi a quello dell’imperatore Carlo V d’Asburgo. Nel
frattempo, proprio come nella Firenze di Lorenzo, anche a Genova si
andava consumando un cambio della guardia che opponeva alcune fra le
grandi famiglie cittadine.
A FARE LE SPESE della congiura
Giannettino Doria, giovane e promettente erede della grande famiglia,
passato dalla storia al mito grazie alla penna di celebri scrittori.
Anche nel caso de La congiura dei Fieschi, la «grande storia», nel senso
della storia istituzionale, si fonde alla perfezione con le trame noir
indispensabili in ogni intrigo.
Non tanto per la congiura, quanto
per ciò che ne consegue, ossia la ritorsione, nella quale convergono gli
interessi di tre soggetti: l’Impero, la Repubblica (ossia l’apparato
istituzionale della città), e il clan familiare della vittima.
Perché,
come scrive l’autrice: «Per tutti e tre la congiura è un atto di
tradimento contro il quale si deve esercitare una giustizia che secondo i
canoni del tempo, è anche vendetta. Infatti nel primo caso si tratta di
fellonia (…); nel secondo, si tratta di un tradimento parricida nei
confronti della Repubblica; nel terzo, di una atto di sangue compiuto
verso una famiglia che, come sempre è accaduto, deve cancellare
quest’atto di sangue con altro sangue».