Il Fatto 26.2.18
Le cattedre “reazionarie” abbandonano la sinistra
Ex roccaforte - Il Pd, con l’ultima legislatura, ha perso l’egemonia sul voto di 700 mila docenti
di Virginia Dalla Sala
Beata
continuità. Lo si raccontava già nel 2015: il Partito Democratico ha
perso con l’ultima legislatura il voto dei docenti, almeno 700 mila in
Italia. E se da un lato è semplice decretare la fuga dal Pd, non lo è
altrettanto capire dove si riverserà il loro voto. O meglio, idee e
orientamenti sono multiformi, i programmi dei partiti sulla scuola
generici e privi di una visione strutturale. Oltre i democratici, non
c’è una destinazione univoca del voto. “Frammentario” è la parola più
usata da sindacalisti e rappresentanti degli insegnanti. La scelta sarà
semplicemente “reazionaria”. La scuola, infatti, ha perso la sua
rappresentatività moderata e progressista mentre ha iniziato a covare la
rabbia dovuta al tradimento della legge 107.
L’origine dello
scontento è la riforma della Buona Scuola: respinta e osteggiata già
quando era un embrione (è stata votata nel 2015), nel tempo ha solo
confermato tutte le sue criticità. Dalle chiamate dirette all’alternanza
scuola-lavoro, passando per il caos della mobilità dei docenti. Ha dato
materiale a chi ne era direttamente colpito, ha creato nuova
insoddisfazione, ha fornito strumenti a chi ha potuto usarla contro il
governo durante la grande stagione dei ricorsi: “Il governo ha portato
avanti la riforma in modo autoritario, fuggendo da qualsiasi confronto
costruttivo”, spiega chi è vicino al mondo ministeriale e
associazionistico. Peggio di non sentirsi rappresentati c’è la
sensazione di non essere neanche ascoltati.
Inutili anche le oltre
50 mila assunzioni arrivate dopo il concorsone del 2016: “Tra i precari
– spiega Sara Piersantelli, fondatrice del Coordinamento Nazionale Tfa –
c’è solo una piccola parte che riconosce un merito al governo Renzi e
ritiene che per lo meno abbia ricevuto un posto a tempo indeterminato e
la fase transitoria per accedere al mondo della scuola. Per la maggior
parte, invece, il concorso e l’assunzione sono stati percepiti come un
atto dovuto arrivato, oltretutto, troppo tardi”. E quando oramai era
inevitabile: il rischio era che gli alunni trovassero le cattedre vuote e
fossero costretti a subire la discontinuità didattica. “Ovviamente i
problemi dei docenti e della scuola sono sempre esistiti – spiega la
Piersantelli – ma negli ultimi quattro anni sono stati affrontati tanti
cambiamenti in una sola volta e tutti troppo velocemente. Si faceva il
buco e si metteva la toppa, a volte anche con incompetenza provocando un
altro buco. È ovvio che così si perde fiducia”.
Stesso
ragionamento per l’aumento salariale introdotto con l’ultima firma del
contratto nazionale. Bloccato da decenni, per tutti è stato percepito
come un atto dovuto, per molti come un fallimento per la sua entità
considerata insufficiente. Nessuno spazio, per la gratitudine.
Dove
andranno a finire allora questi voti? Guardare ai programmi è inutile.
Storicamente, il corpaccione del mondo della scuola è legato alla
sinistra non radicale, formato da moderati e progressisti (con sacche
vicine al mondo cattolico, come ad esempio nella scuola primaria.
Orientamento che si confermerà in parte per il mancato ricambio
generazionale).
Il voto dei docenti, da sempre, è stato legato più
al senso di appartenenza che ai programmi e alle promesse
sull’istruzione. L’insegnamento è infatti visto prima di tutto come una
vocazione (per lo meno da chi, la maggioranza, non lo ha vissuto come un
rifugio statale e garantito): senza prospettive di carriera e di
guadagno, non ci sono interessi quantificabili su cui far leva. La legge
107, la Buona Scuola appunto, è però riuscita a capovolgere questa
dinamica ed è stata vissuta come un tradimento di valori.
Il primo
contraccolpo elettorale è arrivato con il referendum costituzionale,
quando i docenti hanno deciso di votare No. Ora ci sarà la conferma del 4
marzo. Secondo gli ultimi sondaggi (Ipsos per il Corriere della Sera),
insieme agli impiegati il voto dei docenti dovrebbe riversarsi sul M5S,
così come quello degli studenti. Solo al secondo posto c’è la scelta del
Pd e al terzo c’è la Lega. Frammentazione, appunto, con una
interpretazione condivisa: quello della scuola è un voto di “reazione”,
non di convinzione. “Chi non si sente più rappresentato dalla sinistra –
spiega un sindacalista di vecchio corso – si sposta automaticamente a
destra o sui Cinque Stelle perché lì trova il solo sfogo alla rabbia che
ha accumulato”. Sostiene che proprio il fallimento della politica di
questi anni abbia contribuito anche a ingrossare le file dei comparti
sindacali che si occupano di scuola, tanto dei sindacati confederali che
dei nuovi, concentrati quest’ultimi prevalentemente sui ricorsi,
centinaia negli ultimi anni, attraverso i quali costringono i docenti
(soprattutto precari) ad avere la loro tessera. Più volte, da ambienti
ministeriali, è stato fatto notare che i ricorsi si moltiplicano quando
“si fanno le cose”, come ad esempio concorsi per assumere migliaia di
persone. I rischi (e calo del consenso) a quanto pare sono scomodi
annessi.