sabato 24 febbraio 2018

Il Fatto 24.2.18
Crollo Pd, il Colle “studia” un governo per la transizione
Fragili i numeri per le larghe intese Dem-Fi o un esecutivo del centrodestra: un dossier coi precedenti indica la via a Mattarella
di Fabrizio d’Esposito


È stato alla fine della scorsa estate che al Quirinale s’iniziò a formare un dossier sulle prassi seguite dai dieci presidenti della Repubblica in oltre sei decenni di governi. In linea con la sua storia di professore universitario di Diritto parlamentare, Sergio Mattarella diede mandato ai suoi consiglieri di raccogliere sostanza e dettagli di ogni consultazione, conscio e convinto che la dinamica politica di questo antico rito sfugga a una situazione pre-ordinata. In pratica, per dirla fuori dal “quirinalese”, il capo dello Stato mandò il primo segnale ai partiti. Per la serie: con me non ci sarà alcun governo del presidente, tecnico oppure no.
Quando il lavoro fu avviato il quadro delle forze in campo era diverso da oggi: il Pd veniva accreditato di un possibile 25 per cento, i Cinquestelle non arrivavano al 30 e il centrodestra viaggiava alla solita altezza del 37. A distanza di quasi sei mesi da allora, il quadro si è completamente ribaltato: il Pd potrebbe crollare al 20, se non sotto; il M5S toccherà o sfonderà il tetto del 30; il centrodestra non schioda dal 37/38 ma nel frattempo ha cristalizzato le divisioni interne tra Silvio Berlusconi e il blocco fascioleghista di Salvini e Meloni.
Risultato: al Colle matura la sensazione che il voto del 4 marzo non consegnerà vincitori in una sorta di deriva tripolare che poi tanto tripolare non è per le citate fratture tra l’ex Cavaliere e il capo leghista. Nessuno quindi, tra i leader politici, dovrebbe avere il mazzo in mano per distribuire le carte. E qui sovviene il dossier sulle prassi seguite in passato al Colle nella formazione dei governi, un documento diventato corposo e meticoloso.
Punto di partenza, per sgombrare dal campo retroscena ed equivoci di oggi, il destino del governo di Paolo Gentiloni. Oggi l’esecutivo non è dimissionario e quindi è in carica per l’ordinaria amministrazione. Il 23 marzo, giorno d’insediamento delle Camere, al Colle danno per certo l’arrivo del premier per la fatidiche e dovute dimissioni. A quel punto sì che sarà un governo dimissionario in carica per “il disbrigo degli affari correnti”, in attesa dell’esito delle consultazioni di Mattarella con le delegazioni dei partiti.
Il metodo poi. E l’approccio, che partirà dalla fotografia del voto. Esaurita definitivamente la fase bipolarista della Seconda Repubblica (un vincitore e uno sconfitto), il Colle-arbitro dirigerà la partita come ai tempi del proporzionale della Prima Repubblica. Un mero dato di fatto: questa campagna elettorale sta confermando che ogni partito corre per prendere un voto più degli altri e il tema delle coalizioni è scomparso, a meno di non prendere per buona l’alleanza finta o bugiarda del centrodestra. Chiarito il quadro, Mattarella certificherà innanzitutto l’impossibilità di un “governo organico” sia formato dallo stesso centrodestra oppure da Pd e Forza Italia insieme, le cosiddette larghe intese. Questione di numeri, ovviamente.
A quel punto, il Colle riguarderà tre capitoli del dossier fatto preparare. Tre precedenti già sottolineati e vagliati in ogni aspetto. Obiettivo: varare comunque un esecutivo, pur su basi fragili, per poi sperare di sbloccare l’impasse e allargare la base della maggioranza. Il primo precedente è “il governo della non sfiducia” di Giulio Andreotti, votato nel 1976 (e preludio alla tragedia di Aldo Moro). Quel governo prevedeva un accordo tra le due grandi forze “nemiche” di allora: la Dc, da sempre al potere, e il Pci, che per la prima volta si astenne sulla fiducia. Collegato a questa formula nell’agenda del Colle c’è pure il governo Fanfani del 1960, basato sulle “convergenze parallele” morotee per la formazione del centro-sinistra. Due precedenti che presuppongono quindi un accordo tra partiti oggi avversari. Ed è qui che potrebbe entrare in gioco la forza parlamentare del M5S. Le combinazioni sono varie e Mattarella non ne escluderebbe nessuna: Pd al governo e astensione grillina, o viceversa; idem Pd e centrodestra. Qualora dovessero andare in porto la non sfiducia o le convergenze parallele, uno dei tre blocchi di media grandezza è destinato a rimanere fuori. Quale tra Pd, M5S e centrodestra?
Il terzo precedente storico è di mera transizione per poi andare allo scioglimento autunnale: “il governo balneare” o “di decantazione” di Giovanni Leone dopo le Politiche del 1963. Nel novero delle variabili potrebbe rientrare Paolo Gentiloni, investito pure di un’altra formula. Questa: verificata l’impossibilità di formare un governo, Mattarella potrebbe rinviare alle Camere l’attuale esecutivo. Ricevuta una scontata sfiducia, si avrebbe comunque un governo di minoranza per gli affari correnti e per portare il Paese al voto.
La transizione potrebbe però portare anche un cosiddetto “governo di scopo”, con l’obiettivo di fare la manovra economica e una nuova legge elettorale, magari con un accordo a tre fra Pd, 5 Stelle e Liberi e Uguali.
Questo è dunque il quadro tracciato al Colle in queste ore, a una settimana dal voto. E quelle che erano le preoccupazioni estive del Quirinale, e cioè una mancata tenuta del Pd, alla fine si stanno per rivelare giuste, a meno di clamorosi rovesciamenti di tendenza negli ultimi giorni giorni di campagna elettorale. Senza un governo di centrodestra o le larghe intese renzusconiane, la dinamica delle consultazioni metterà in gioco il M5S di Luigi Di Maio per varie formule. È questa la maggiore novità che emerge dall’analisi basata sul dossier confezionato per Mattarella. E non è poco.