Il Fatto 22.2.18
La farfalla e l’arte del dolore
Il segreto -
Com’è possibile che una pittrice tanto concentrata sulla propria
immagine non sia mai narcisista? La sensibilità del suo stesso corpo
martoriato la rendeva consapevole di tutto ciò che è vivo
di John Berger
Erano
conosciuti come l’Elefante e la Farfalla, anche se suo padre la
chiamava la Colomba. Quando è morta ha lasciato centocinquanta piccoli
dipinti, un terzo dei quali classificati come autoritratti. Lui era
Diego Rivera e lei Frida Kahlo.
Frida Kahlo! Come tutti i nomi
leggendari, sembra inventato, ma non lo era. Nel corso della sua vita è
stata una leggenda in Messico e – tra una ristretta cerchia di artisti –
a Parigi. Oggi è una leggenda mondiale. La sua storia è stata
raccontata più volte e assai bene, da lei stessa, da Diego e in seguito
da molti altri. Vittima della polio da bambina, di nuovo menomata in un
incidente d’autobus, introdotta alla pittura e al comunismo da Diego, la
loro passione, il matrimonio, il divorzio, il nuovo matrimonio, la
storia d’amore con Trockij, l’odio per i gringos, l’amputazione della
gamba, il probabile suicidio per sfuggire al dolore, la bellezza, la
sensualità, l’umorismo, la solitudine.
Soltanto alcuni dei dipinti
di Frida Kahlo sono su tela, la maggioranza è su metallo o masonite,
che è liscia come il metallo. Per quanto fine, la trama della tela
opponeva resistenza e sviava la sua visione, rendendo le sue pennellate e
i contorni che disegnava troppo pittorici, troppo plastici, troppo
pubblici, troppo epici, troppo simili (anche se ancora così diversi) al
lavoro dell’Elefante. Perché la sua visione restasse intatta, aveva
bisogno di dipingere su una superficie liscia come la pelle.
Anche
nei giorni in cui il dolore o la malattia la costringevano a letto,
passava ore ogni mattina a abbigliarsi e acconciarsi. Ogni mattina,
diceva, mi vesto per il Paradiso! Facile immaginare il suo viso allo
specchio, con le sopracciglia scure naturalmente unite che lei
sottolineava con il kajal trasformandole in una parentesi nera per i
suoi occhi straordinari. Analogamente, quando dipingeva i suoi quadri
era come se stesse disegnando, dipingendo o scrivendo sulla propria
pelle. In tal caso, ci sarebbe stata una duplice sensibilità, perché
anche la superficie avrebbe sentito quel che la mano andava tracciando –
collegati come sono, i nervi di entrambe, alla stessa corteccia
cerebrale. Quando Frida dipingeva un autoritratto con un piccolo
ritratto di Diego dipinto sulla propria fronte e sulla fronte di lui un
occhio dipinto, sicuramente stava confessando – tra le altre cose –
questo sogno. Con i suoi pennellini, sottili come ciglia, e i suoi
tratti meticolosi, ogni immagine da lei prodotta, una volta diventata a
pieno titolo la pittrice Frida Kahlo, aspirava alla sensibilità della
sua pelle. Una sensibilità acuita dal desiderio, esacerbata dal dolore.
Il
simbolismo corporeo da lei utilizzato quando dipingeva parti del corpo
quali il cuore, l’utero, le ghiandole mammarie, la spina dorsale, per
esprimere i propri sentimenti e la propria brama ontologica è stato
studiato e commentato. Se ne serviva come solo una donna può fare, e
come nessun altro prima di lei aveva fatto. Senza la sua particolare
tecnica pittorica, questi simboli sarebbero rimasti stramberie
surrealiste. E la sua tecnica aveva a che fare col senso del tatto, col
doppio tocco della mano e della superficie come pelle.
Osservate
il modo in cui dipinge i peli, che siano quelli sulle zampe delle sue
scimmie domestiche o quelli che le crescono lungo l’attaccatura dei
capelli sulla fronte e le tempie. Ogni pennellata spunta come un pelo da
un poro della pelle. Gesto e sostanza sono tutt’uno. In altri dipinti,
le gocce di latte spremute da un capezzolo, le gocce di sangue che
colano da una ferita o le lacrime che sgorgano dagli occhi hanno la
stessa identità corporea – in altre parole, la goccia di colore non
descrive il liquido corporeo ma sembra esserne il doppio. In un quadro
intitolato La colonna spezzata il corpo di Frida è trafitto dai chiodi e
lo spettatore ha l’impressione che sia lei a tenere i chiodi tra i
denti e a conficcarli con il martello a uno a uno. Tale è l’acuto senso
del tatto che rende unica la sua pittura.
Com’è possibile che una
pittrice tanto concentrata sulla propria immagine non sia mai
narcisista? Bisogna tornare al dolore e alla prospettiva in cui Frida lo
poneva non appena le dava un po’ di tregua. La capacità di provare
dolore, lamenta la sua arte, è la prima condizione dell’essere
senzienti. La sensibilità del suo stesso corpo martoriato la rendeva
consapevole della pelle di tutto ciò che è vivo: alberi, frutti, acqua,
uccelli e, naturalmente, altre donne e uomini. E così, dipingendo la
propria immagine come se la dipingesse sulla propria pelle, lei ci parla
di tutto il mondo senziente.
I critici dicono che l’opera di
Francis Bacon riguardava il dolore. Ma nella sua opera il dolore è
osservato attraverso uno schermo, come si guarda la biancheria sporca
attraverso l’oblò di una lavatrice. L’opera di Frida Kahlo è l’opposto
di quella di Francis Bacon. Non c’è schermo; lei è in primo piano, che
procede, con le sue dita delicate, punto dopo punto, non a cucire un
abito, ma a suturare una ferita. La sua arte parla al dolore, la bocca
premuta sulla pelle del dolore, e parla della senzienza e del suo
desiderio e della sua crudeltà e dei suoi appellativi privati.
Rivera
disponeva le sue figure in uno spazio di cui aveva totale padronanza e
che apparteneva al futuro; le collocava lì come monumenti: erano dipinte
per il futuro. Nei quadri di Frida Kahlo non c’era nessun futuro, solo
un presente immensamente modesto che rivendicava tutto e al quale le
cose dipinte fanno momentaneamente ritorno mentre le osserviamo, cose
che erano ricordi ancor prima di essere dipinte, ricordi della pelle.
Così
torniamo al semplice gesto di Frida che dispone il pigmento sulle
superfici levigate che ha scelto per dipingere. Distesa a letto o
contratta nella sua sedia, un pennello minuscolo nella mano con un
anello per dito, ricordava quel che aveva toccato, quel che era lì
quando il dolore non c’era. Dipingeva, per esempio, la sensazione del
legno lucido di un parquet, la consistenza della gomma delle ruote della
sua sedia a rotelle, la lanugine delle piume di un pulcino o la
superficie cristallina di una pietra, come nessun altro. E questa
abilità discreta le veniva da ciò che ho definito un duplice senso del
tatto: la conseguenza dell’immaginare che stava dipingendo la propria
pelle.
C’è un autoritratto del 1943 dove è distesa su un paesaggio
roccioso e una pianta le cresce dal corpo, le vene che si uniscono alle
venature delle foglie. Dietro di lei le rocce pianeggianti si estendono
fino all’orizzonte, simili alle onde di un mare pietrificato. Eppure le
rocce richiamano precisamente la sensazione che lei avrebbe provato
sulla pelle della schiena e delle gambe se su quelle rocce fosse stata
distesa. Frida Kahlo stava guancia a guancia con tutto ciò che
raffigurava.
Che sia diventata una leggenda mondiale è in parte
dovuto al fatto che nei tempi bui in cui viviamo sotto il nuovo ordine
mondiale la condivisione del dolore è una delle precondizioni essenziali
per riscoprire la dignità e la speranza. Molto dolore non è
condivisibile. Ma si può condividere la volontà di condividerlo. E da
questa condivisione inevitabilmente inadeguata nasce una resistenza.