La Stampa 22.2.18
Nel ’68 Guttuso scopre la rivoluzione
A
Torino una mostra sul pittore e l’arte rivoluzionaria di 50 anni fa
Folgorato dal Movimento studentesco, l’interprete dell’ortodossia
artistica comunista entrò in collisione con il suo grande amico Giorgio
Amendola
di Marcello Sorgi
Renato Guttuso s’era
preso una sbandata per il ’68. Sembra incredibile, pensando
all’austerità del pittore ufficiale del Pci scomparso nel 1987. Guttuso,
notoriamente filosovietico, era stato officiato del Premio Lenin,
veniva ricevuto a Mosca come un’autorità, considerato un esempio tra i
maggiori del «realismo socialista».
Eppure, come emerge dai
documenti della mostra che si aprirà domani alla Gam di Torino, con
alcuni dei suoi più importanti dipinti politici, nella primavera del
Maggio francese il pittore visse una sorta di tormento e un completo
rivolgimento, personale ed esistenziale, prima che politico. Qualcosa
che lo portò in rotta di collisione con uno dei suoi più grandi amici
nel partito, il leader storico della destra comunista Giorgio Amendola
(immortalato, tra l’altro, in un memorabile ritratto a olio). In uno
scritto riservato ma assai esplicito, espresse al «caro Giorgio» dubbi,
perplessità e riserve sulla linea di contrapposizione che il Pci aveva
assunto verso il Movimento studentesco.
L’attacco del migliorista
La
lettera è datata 14 giugno 1968. Meno di un mese prima, alle elezioni
del 19 maggio, il Pci aveva guadagnato quasi un milione di voti. Due
mesi prima, il 19 aprile, Luigi Longo, il leggendario comandante
partigiano «Gallo» e allora segretario comunista, aveva ricevuto a
Botteghe Oscure una delegazione di studenti romani guidata da Oreste
Scalzone (poi coinvolto in indagini sui fiancheggiatori del terrorismo e
latitante a Parigi con Toni Negri per molti anni). Amendola, fiero
oppositore del movimento, di cui contestava quelli che ai suoi occhi
apparivano evidenti limiti, come l’approssimazione culturale, il
marxismo superficiale e i primi cedimenti alla violenza, per un po’
s’era tenuto, trincerandosi in un silenzio che decise di rompere
all’improvviso il 7 giugno, con un fiammeggiante articolo su Rinascita.
Fin
dal titolo, «Necessità della lotta su due fronti», il testo si
presentava come drastico raddrizzamento di una linea valutata troppo
cedevole: dovere del Pci, a suo giudizio, era condurre una battaglia
parallela senza esclusione di colpi contro «l’opportunismo
socialdemocratico» e «l’estremismo settario». Un estremismo, quello del
Movimento, del tutto inaccettabile, dagli attacchi al Pci
all’assemblearismo, agli slogan delle manifestazioni inneggianti alla
violenza, ai non chiari rapporti economici con la Cina, agli striscioni
con la faccia di Che Guevara - repulsione, quest’ultima, condivisa con
il resto del partito. Si pensi che quando il Che era stato assassinato
in Bolivia, il 9 ottobre ‘67, non si trovò un solo dirigente comunista
di livello disposto a commemorarlo, e dovendosi pur pubblicare qualcosa
sull’Unità, fu precettato l’allora segretario della Fgci Claudio
Petruccioli. Che lo criticò garbatamente, come si fa con i morti, ma fu
egualmente stigmatizzato con una nota di rammarico dell’ambasciata
dell’Avana a Roma.
L’articolo di Amendola aveva sollevato reazioni
nella sinistra del partito, da Lucio Lombardo Radice a Rossana Rossanda
a Davide Lajolo. Ma una replica di Guttuso, da sempre annoverato tra
gli amendoliani e amico personale del compagno Giorgio, non era
immaginabile. Invece, a una settimana dall’uscita di Rinascita, la busta
vergata a mano con la caratteristica grafia del pittore era stata
recapitata a destinazione.
Scusandosi per non poter intervenire al
dibattito sulla vittoria elettorale in Comitato centrale, Guttuso
contestava subito «la critica nei confronti del Movimento studentesco»
perché «non accompagnata da sufficiente autocritica sulle esitazioni, i
ritardi, i distinguo» del partito, forse condizionato da «irrigidimenti
postumi, specie da parte sovietica», e non in grado di cogliere «i
motivi profondi di rivolta» sviluppatisi «senza attivo intervento dei
comunisti, ai quali è toccato spesso di far da freno».
Di qui il
fendente più vigoroso: «Noi abbiamo discusso sull’opportunità di portare
in giro la faccia, ma non sulla sballata ideologia di Guevara, Debré e
del loro maestro Althusser. Credi che la faccia di Garibaldi abbia
contato poco, ai suoi giorni?». Seguiva una presa in giro di
intellettuali come Adorno e Marcuse, del «vecchio Lukács», e delle loro
strane teorie, genere «oggi è l’Eros il fantasma che percorre l’Europa»,
che si affermavano liberamente, perché chi avrebbe dovuto contrastarle,
come ad esempio il filosofo Cesare Luporini, le condivideva
dichiaratamente. La conclusione era che il Pci si sarebbe dovuto aprire e
confrontare con gli studenti. Come appunto per la prima volta Guttuso
confessava apertamente di aver fatto.
L’atmosfera del Maggio
All’epoca
della lettera, infatti, il pittore aveva pienamente maturato la sua
sbandata, tra Parigi e Roma. Imbevuto dell’atmosfera del Maggio e della
«Rive gauche», sentendosi ringiovanito, era entrato in contatto con il
gruppo situazionista degli «Uccelli», in cui militava l’attuale
direttore del Tgcom24 Paolo Liguori. Aveva partecipato all’occupazione
di Architettura a Valle Giulia, illustrandone con un graffito la
facciata, condividendo il progetto di trasformarla in una comune
agricola e finanziando personalmente l’acquisto di un gregge di pecore,
che vennero messe a pascolare nel parco della facoltà, fino al duro
intervento della forza pubblica per liberare l’edificio, che ispirò a
Pasolini la famosa poesia a favore dei poliziotti e contro gli studenti.
Amendola,
che rispose blandamente alla lettera, forse consapevole del carattere
ombroso dei siciliani, la sua rivincita se la prese nel 1978. Celebrando
il decennale del ’68 in una lunga intervista sull’Unità, ripropose pari
pari le sue posizioni (peraltro oggettivate dall’escalation del
terrorismo) e concluse che anche Longo, ormai fuori gioco, sotto sotto
era d’accordo con lui: quegli studenti a Botteghe Oscure li aveva
ricevuti solo a scopo elettorale.