lunedì 19 febbraio 2018

Il Fatto 19.2.18
Il riconoscimento dell’eutanasia nel diritto romano
di Orazio Licandro


La vicenda di Marco Cappato, processato per aver aiutato il dj Fabo, reso cieco e tetraplegico da un incidente stradale, a morire in una clinica svizzera, pone una questione delicatissima che merita attenzione e rispetto. Tra etica, religione e diritto, il prestare aiuto a chi in condizioni di dolore inimmaginabile non vuole più essere costretto a condurre quella che non è più un’esistenza dignitosa è un problema antichissimo. Nella civiltà romana il suicidio era ammesso, l’atto di annientamento di se stessi non era considerato uno scandalo. Non lo era per i canoni morali né andava contro precetti religiosi, tanto che non vi era alcuna prescrizione giuridica. Secondo il diritto romano il suicidio era del tutto legittimo, anzi i giuristi lo definivano una libertà naturale. Ma era assolutamente condivisa l’idea che un essere umano potesse darsi la morte per sottrarsi alle sofferenze di una malattia. A proposito dei malati terminali, Plinio il Vecchio scriveva che “tra tutti i beni che la natura offre agli uomini, nessuno è migliore della morte tempestiva” (Storia naturale 28.1-14); Cicerone, che invece rimetteva alle divinità la decisione del tempo della morte di un uomo, ammetteva ma solo per evitare sofferenze la libertà di darsi la morte quale “eterno rifugio per non sentir più nulla” (Dispute Tuscolane 5.40.117); allo stesso modo Seneca, disposto ad accettare il suicidio dinanzi a un corpo divenuto “un edificio putrido e decadente” o alla malattia incurabile (Lettere 6.58.34-36). E allora basta guerre di religione o ideologiche: la Corte costituzionale abbia la forza di far uscire questo paese dalle sagrestie per affermare il diritto di morire o alla dignità dell’esistenza.