il manifesto 18.2.18
Ecco come ribaltare il classismo della scuola italiana
La proposta. L'alternativa alla "Buona Scuola" di Renzi e del Pd esiste e si chiama Lip: una legge di iniziativa popolare, frutto di un lungo percorso di elaborazione democratica, che prospetta un altro mondo per gli studenti, i docenti, i lavoratori e i genitori
di Marina Boscaino
Ha ragione Piero Bevilacqua a sottolineare la «distrazione» nell’attuale campagna elettorale rispetto a un tema strategico come quello dell’istruzione. Esiste però un testo che affronta la decostituzionalizzazione intenzionale cui la scuola è soggetta da 20 anni.
Si tratta della Lip (legge di iniziativa popolare) Per la scuola della Costituzione. L’8 settembre è stata depositata in Cassazione e da qualche giorno è iniziata la raccolta delle firme per proporne la discussione parlamentare. 37 articoli, che abrogano gran parte della normativa degli ultimi 15 anni, dalla riforma Moratti, alla Gelmini, alla «Buona Scuola», tentando di riportare la scuola al modello dettato dagli artt. 3, 9, 33 e 34 della Carta.
Non solo abrogare, dunque, ma anche ri-costruire e ri-portare la scuola all’altissimo rango di organo costituzionale, quale fu pensata – non a caso – nell’Italia che risorgeva sui principi dell’antifascismo. La Lip non si propone di intervenire su tutti gli aspetti della normativa scolastica, ma di disegnare un’idea di scuola. Vi si parla di gratuità e di inclusione, perché la scuola è lo strumento che la Repubblica ha in mano per «rimuovere gli ostacoli»; di laicità (sono vietate le cerimonie di culto negli edifici scolastici; l’IRC è in orario extracurricolare; viene abolito l’inserimento delle scuole paritarie private dal sistema nazionale di istruzione); si prevede un rapporto alunni-docente che scongiuri per sempre le classi pollaio; l’unico insegnamento obbligatorio esplicitamente previsto (la legge non si occupa di programmi e discipline) è quello di Costituzione e cittadinanza; diritto allo studio e all’apprendimento; sapere disinteressato ed emancipante; si rende obbligatorio il terzo anno di scuola dell’infanzia, in previsione della generalizzazione; si abrogano i test Invalsi e il voto numerico alla primaria e alle medie; si ripristinano tempo pieno e prolungato; si riconducono alla loro centralità gli organi collegiali, riaffidandogli prerogative che sono espressione della democrazia scolastica; il biennio è unitario, posticipando così la scelta della scuola superiore – troppo spesso compiuta su base socio-economica – di due anni e garantendo i saperi imprescindibili per tutti più a lungo; l’obbligo al termine della scuola superiore, in modo che la scuola riprenda ad essere ascensore sociale e garanzia di pari opportunità per tutti, nessuno escluso; un presidente del collegio sovrano, eletto dai docenti, affiancherà il dirigente scolastico, con funzioni amministrative; l’autonomia scolastica viene riportata nel suo alveo costituzionale, quello del principio della libertà dell’insegnamento, strumento dell’interesse generale.
L’alternanza scuola lavoro diventa un «percorso di cultura del lavoro», obbligatoria per tutti gli indirizzi di scuola superiore, organizzati dalle scuole, che «possono prevedere, sia l’intervento in aula di esperti/e, oltre a quello degli insegnanti curriculari, sia l’inserimento del/la singolo/a allievo/a in realtà di lavoro e di ricerca nel rispetto degli artt. 2, 35 e 36 della Costituzione». Si effettuano al fine di «garantire agli studenti e alle studentesse attività coerenti con il loro percorso di istruzione, utili per acquisire gli strumenti critici necessari a comprendere non solo gli aspetti operativi della realtà lavorativa analizzata, ma anche il quadro dei diritti e delle responsabilità e il rapporto fra i processi produttivi ed economici e le implicazioni sociali e ambientali».
Grande attenzione, nel testo, al linguaggio di genere e alla purificazione da anglicismi e tecnicismi di matrice anglofona ed economicista. Si prevede di spendere il 6% del Pil nazionale, come da media dei paesi europei: anche per questo la raccolta si affianca a quelle – promosse dal Coordinamento Democrazia Costituzionale – per ripristinare il testo originario dell’art. 81 della Costituzione, eliminando l’equilibrio di bilancio; e per una legge elettorale proporzionale – per sanare tre ferite che gli ultimi parlamenti hanno inflitto alla democrazia nel Paese.
Ribaltare il paradigma corrente, privatistico e classista, disinfestare lo spazio culturale dal dominio del mercato, ricostruire l’equilibrio di diritti e poteri, restituire il sistema scolastico alla funzione di promozione del pensiero critico e della cittadinanza consapevole: questo e tanto altro nel testo che troverete in www.lipscuola.it.
Il Fatto 19.2.18
Il riconoscimento dell’eutanasia nel diritto romano
di Orazio Licandro
La vicenda di Marco Cappato, processato per aver aiutato il dj Fabo, reso cieco e tetraplegico da un incidente stradale, a morire in una clinica svizzera, pone una questione delicatissima che merita attenzione e rispetto. Tra etica, religione e diritto, il prestare aiuto a chi in condizioni di dolore inimmaginabile non vuole più essere costretto a condurre quella che non è più un’esistenza dignitosa è un problema antichissimo. Nella civiltà romana il suicidio era ammesso, l’atto di annientamento di se stessi non era considerato uno scandalo. Non lo era per i canoni morali né andava contro precetti religiosi, tanto che non vi era alcuna prescrizione giuridica. Secondo il diritto romano il suicidio era del tutto legittimo, anzi i giuristi lo definivano una libertà naturale. Ma era assolutamente condivisa l’idea che un essere umano potesse darsi la morte per sottrarsi alle sofferenze di una malattia. A proposito dei malati terminali, Plinio il Vecchio scriveva che “tra tutti i beni che la natura offre agli uomini, nessuno è migliore della morte tempestiva” (Storia naturale 28.1-14); Cicerone, che invece rimetteva alle divinità la decisione del tempo della morte di un uomo, ammetteva ma solo per evitare sofferenze la libertà di darsi la morte quale “eterno rifugio per non sentir più nulla” (Dispute Tuscolane 5.40.117); allo stesso modo Seneca, disposto ad accettare il suicidio dinanzi a un corpo divenuto “un edificio putrido e decadente” o alla malattia incurabile (Lettere 6.58.34-36). E allora basta guerre di religione o ideologiche: la Corte costituzionale abbia la forza di far uscire questo paese dalle sagrestie per affermare il diritto di morire o alla dignità dell’esistenza.
Il Fatto 19.2.18
“In lista anche altri massoni con il Pd e il centrodestra”
I dem hanno abolito l’incompatibilità nel 2010. Le rivelazioni di Bisi, gran maestro del Goi: “I governatori renziani ci ringraziano”
“In lista anche altri massoni con il Pd e il centrodestra”
di Fabrizio d’Esposito
Stefano Bisi, gran maestro del Goi, il Grande Oriente d’Italia, è di ritorno da Norcia, dove ha premiato sei studenti della zona terremotata e dove il sindaco azzurro, Nicola Alemanno, tempo addietro ha ricevuto la massima onorificenza del Goi riservata ai non massoni, la Galileo Galilei. Nelle liste grilline è venuto fuori un altro fratello in grembiule del Grande Oriente, il quarto – un avvocato candidato all’uninominale a Ravenna, David Zanforlini – e Bisi non si tiene più: “Contro di noi c’è una caccia all’uomo e si viola pure la Costituzione, perché una volta eletto un parlamentare non si può dimettere contro la sua volontà, nella nostra Carta non c’è il vincolo di mandato. Ma lo sanno i Cinquestelle che senza di noi l’Italia sarebbe ancora nel Medioevo? Antonio Baslini (liberale, ndr) e Loris Fortuna (socialista, ndr) fecero la legge sul divorzio ed erano due fratelli, due massoni”. La caccia all’uomo lamentata da Bisi, giornalista senese a capo della maggiore obbedienza massonica italiana, con più di ventimila affiliati, è fondata appunto sul paradosso dei pentastellati, in sonno o no, candidati con il M5s. E così da un lato c’è Luigi Di Maio che minaccia cause per danni d’immagine, dall’altro Renzi che ironicamente dà la sua solidarietà ai massoni finiti nel tritacarne dell’intransigenza grillina. Ché poi è dal 2010 che il Pd non ha più l’incompatibilità tra politica e massoneria. Ad abolirla, dopo il caso di alcuni assessori dem-massoni, fu Luigi Berlinguer alla guida dei garanti. Continua Bisi: “Abbiamo sempre avuto esponenti impegnati nelle istituzioni, cito per tutti Lando Conti, libero muratore e sindaco di Firenze, che venne ammazzato dalle Brigate Rosse il 10 febbraio 1986. Altri candidati per le elezioni del 4 marzo, oltre a quelli del M5s? Ho fatto le mie verifiche, sì che ce ne sono, almeno tre fra Regionali e Politiche, sia nel centrosinistra, sia nel centrodestra. Le dico però che tutta questa corsa del massone a candidarsi non c’è stavolta. I liberi muratori preferiscono l’impegno nel sociale”. Bisi si sofferma pure sul rapporto con il Pd. Se non altro per un certo strabismo del partito renziano nei confronti del Grande Oriente, laddove germinò la P2 di Licio Gelli, loggia deviata e coperta, zeppa di fratelli di prestigio iniziati “all’orecchio”, la cui affiliazione era nota solo al gran maestro. Tra questi c’era anche Silvio Berlusconi. “Per carità, da noi le logge coperte non ci sono più”, precisa Bisi. Per spiegare lo strabismo. Bisi e il Goi sono stati stroncati dall’Antimafia presieduta da Rosy Bindi nella relazione finale su massoneria e mafie, che fa anche il punto sui fratelli in rapporti coi clan, ben 193. Al tempo stesso, Bisi ha incassato in queste settimane la gratitudine pubblica di due big renziani per l’impegno nelle zone terremotate dell’Italia centrale: i governatori di Umbria e Marche, rispettivamente Catiuscia Marini e Luca Ceriscioli. Sostiene Bisi (coinvolto nel crac senese della Mens Sana basket): “Io so solo che il Pd ufficialmente ha abolito l’incompatibilità tra massoneria e partito per i suoi iscritti. La Bindi? In commissione Antimafia mi sono trovato di fronte a cinquanta inquisitori spietati. Ricordo Giarrusso, Lumia, la Sarti che ora ha problemi per la storia dei bonifici. Ma a lei non riservo il trattamento che ha avuto con me, quando ha messo in collegamento la mia elezione a gran maestro con la morte del mio amico Davide Rossi (l’ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi, ndr) a Siena. In realtà, la morte di Rossi era stata un anno prima”. La secondaobbedienza massonica italiana è la Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori (Alam). Nacque da una storica scissione del Goi nel 1908. Per motivi politici. Gli scissionisti non vollero allinearsi all’ordine di votare in Parlamento la mozione del socialista massone Leonida Bissolati per abolire l’ora di religione nelle scuole. Il gran maestro della Gran Loggia è Antonio Binni, avvocato. Dice: “Noi siamo circa 7mila e le nostre logge sono miste, uomini e donne. Le dico subito che noi non abbiamo candidati alle elezioni. Per un semplice motivo: per noi la politica non è una questione partitica ma la difesa del diritto costituzionale dell’eguaglianza, delle garanzie di libertà e democrazia. E non diamo neanche indicazioni di voto anche se i fratelli sono intelligenti. Che vuol dire? Che sanno quali sono i due partiti che stabiliscono incompatibilità tra politica e massoneria, cioè i Cinquestelle e la Lega”. Binni non si sottrae alla questione della trasparenza sugli iscritti: “Facciamo come in Francia dove dal 1902 c’è una legge sulle associazioni. A quel punto tireremo fuori tutti i nostri iscritti, così come i sindacati e i partiti, che sono i primi a non voler questa legge. Senza la massoneria non ci sarebbe stata l’unità d’Italia. Cinque presidenti del Consiglio furono massoni, ce lo ha riconosciuto in un convegno anche il dottor Paolo Mieli”. Ma si può essere ex massoni? Risposta: “Dire che si è stati massoni per hobby è una follia. Il nostro è un percorso iniziatico sulla natura umana”. Insomma si è massoni per sempre. Compreso Berlusconi, o no?
Corriere 19.2.18
Lotti «mediatore» per proteggere i voti e la corsa di Piero
Così la famiglia cede sul passo indietro
di Tommaso Labate
ROMA «Vi faremo ringoiare tutto». Lo conoscono bene, il suono di quel verbo, gli amici e i nemici di Enzo De Luca. «Ringoiare», per il governatore, è come il «segnale dopo cui scatenare l’inferno» di Massimo Decimo Meridio ne Il Gladiatore . L’aveva usato contro Rosy Bindi che l’aveva inserito nella lista degli “impresentabili”, e lui a replicare che «per me non conta vincere ma far ringoiare le cose ignobili dette su di me». L’ha usato ieri l’altro, poco dopo l’uscita dell’inchiesta di Fanpage che ha portato all’indagine sul figlio Roberto: «Vi faremo ringoiare tutto». Ma l’esito, stavolta, è stato diverso. Niente guerra, niente testa bassa. Anzi, un passo indietro, le dimissioni del secondogenito indagato da assessore al Bilancio del comune di Salerno, le prime dimissioni della “De Luca dinasty”, una retromarcia che sembrava non far parte del patrimonio genetico della famiglia.
Venerdì sera, quando Fanpage pubblica il video, nessuno in famiglia pensa ad alzare bandiera bianca. Non il padre, non il fratello Piero candidato col Pd alla Camera, non il diretto interessato. La linea è «avanti contro tutto e tutti». Come da stile della casa. Poi, però, nella notte il quadro cambia. Il Pd nazionale comincia a premere perché si inverta la rotta. A cominciare da Matteo Renzi, che in Campania si gioca le chances residue di rimanere a galla. Salerno è un feudo che pare inespugnabile, e quindi i rischi sono minori. Ma a Napoli e nel resto d’Italia — nel voto d’opinione che può allentare la morsa infernale tra Berlusconi e Di Maio che rischia di stritolare il Pd — l’inchiesta può fare molto male.
Sono riflessioni che alle orecchie di uno come De Luca senior si rischia di peggiorare le cose. Più che Renzi, serve un interlocutore che la «famiglia» è abituata a riconoscere come voce amica. Uno come Luca Lotti, che nel Pd campano è riuscito nell’impresa di far firmare un armistizio tra i salernitani di De Luca e i napoletani del consigliere regionale Mario Casillo. Più che un pressing, è una moral suasion. Sul corridoio diplomatico tra il Nazareno e Salerno si soppesano costi e benefici. L’argomentazione che convince il governatore a «dimettere» il secondogenito Roberto riguarda le sorti del primogenito Piero. E quello che significherebbe perdere, a Salerno, il collegio uninominale in cui è riuscito a superare, nei sondaggi, gli sfidanti.
Quel collegio è un simbolo che nessun paracadute proporzionale può sostituire. Perderlo vorrebbe dire la rappresentazione plastica di un impero al declino. Non si può rischiare. Roberto De Luca annuncia le dimissioni. Renzi, che fino a quel momento era stato gelido («Mi dispiace non essere riuscito a fare tutte candidature belle come quelle di Paolo Siani»), cambia registro. E così, da ieri, la parola «dimissioni» entra nel vocabolario dei De Luca’s. Non s’erano mai fermati di fronte a nulla, il padre e i figli. Sin da ragazzi, soprattutto Piero, hanno acquisito lo stile del padre. Il primogenito era in minoranza tra i giovani Pd di Salerno? Ecco che, 15 luglio 2009, dipendenti delle municipalizzate, accompagnati da ultras della Salernitana, trasformavano il congresso locale in una scazzottata. Ancora il primogenito, sempre lui, viene rinviato a giudizio per il crac di una società immobiliare? Nessun passo indietro rispetto alla candidatura già blindata dal Pd. Anzi, in Rete finiscono le sue foto col figlio del procuratore capo di Salerno Corrado Lembo, Andrea, di cui è grande amico.
A Roberto, invece, amici e nemici riconoscono uno stile più sobrio. E dire che non era detto che venisse destinato anche lui alla politica. Più schivo e riservato di padre e fratello, l’ormai ex assessore comunale s’è ritrovato come risucchiato da un vortice. Della madre, invece, c’è traccia solo per una polemica innescata da Ciriaco de Mita anni fa: «Parla di sanità De Luca, che ha imposto la moglie che non aveva i titoli a un concorso di una Asl». Quella volta, De Luca fece ringoiare tutto anche al sindaco di Nusco: «È la mia ex moglie, se la veda con lei». Non si curò di lui, insomma. Guardò e passò.
Corriere 19.2.18
Le scelte alternative
I delusi del Nazareno tra Bonino e il Prof Chi vota la coalizione evitando il simbolo pd
di Giuseppe Alberto Falci
ROMA «Voto la coalizione ma non il Pd». È l’ultima tendenza che si sta affermando da qualche settimana. È la strategia di chi è rimasto deluso dalla «rottamazione» di Matteo Renzi, non seguirà la disciplina di partito, ma soltanto la disciplina di coalizione. Dunque, il 4 marzo per i delusi del Nazareno la scialuppa di salvataggio si chiamerà o Insieme, la lista di stampo prodiano, o Più Europa, il contenitore di Emma Bonino e Bruno Tabacci.
L’elenco dei delusi cresce di giorno in giorno e ingrossa sempre più le file degli alleati dei democrat. In cima alla lista c’è certamente Romano Prodi che ha manifestato massimo apprezzamento per Paolo Gentiloni. Ma per la prima volta l’ex premier, fondatore dell’Ulivo, non porrà la croce sul Pd ma, per dirla con la sua portavoce Roberta Zampa, «il professore ha detto: sostegno alla lista Insieme e alla coalizione».
Franco Monaco, fedelissimo dell’ex premier e fondatore dell’Asinello, è un altro dei volti storici del centrosinistra degli ultimi venti anni che ha deciso di abbandonare il Pd. «Devo ancora decidere», sorride quando risponde al telefono. Salvo poi aggiungere: «Sono orientato a votare la lista Bonino. D’altronde quella di Emma è la sola lista collegata al Pd “non civetta”, che può ottenere il 3%, conquistare una sua autonoma rappresentanza e dunque portare al centrosinistra un effettivo valore aggiunto. Però in Lombardia opterò per Gori».
Fra i prodiani corre voce che anche Silvio Sircana, ex portavoce del professore, sia tentato dalla pasionaria radicale. Non solo.
Raccontano che Giovanna Melandri avrebbe confidato alla Bonino che per la prima volta potrebbe non votare Pd. L’elenco dei delusi annovera anche chi, come Emanuele Macaluso, negli anni del Pci apparteneva alla corrente dei miglioristi. «Voterò il centrosinistra. Su questo non c’è dubbio. Nel mio collegio ci sono il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ed Emma Bonino. Perciò non avrò problemi», allarga le braccia Macaluso, storico dirigente di Botteghe Oscure e fraterno amico di Giorgio Napolitano.
Non a caso lo stesso Napolitano, in un’intervista al Corriere , ha esaltato il programma del partito di Emma Bonino: «Un programma per l’Europa, indubbiamente rigoro-so e circostanziato risulta quello che caratterizza la lista Più Europa presentata da Emma Bonino anche in autonomia rispetto alla coalizione di cui fa parte».
Gad Lerner, giornalista e fino a poco tempo iscritto al Pd, non ha dubbi: «Voterò centrosinistra e non Pd. Ancora non ho scelto se optare per Insieme o per la Bonino». Luigi Manconi, senatore dem ed escluso all’ultimo minuto dalle liste, mette a verbale parole di questo tenore: «Voterò Bonino. Non posso dire altro».
E poi c’è Carlo Calenda. Il ministro dello Sviluppo economico ha preso parte al lancio della lista Più Europa e nel corso dell’iniziativa ha indossato la spilla del partito. Cosa farà? Ufficialmente non ha svelato le carte. Di certo, fra la radicale e Calenda corre buon sangue. «C’è feeling», confidano i fedelissimi di entrambi.
La Stampa 19.2.18
“Ancora troppi in difficoltà. La rabbia sociale favorisce politiche contro la crescita”
L’economista Vecchi: per alcuni una crisi peggiore del ’29
di A. Bar.
Secondo l’ultima rilevazione Istat le persone in condizione di povertà assoluta in Italia sono circa otto su cento. Fra gli economisti in questi mesi si dibatte se dopo l’uscita dalla doppia crisi del 2008 e del 2012 l’aumento si sia arrestato o meno. L’indice di Gini misurato dalla Banca d’Italia ci dice che il livello di diseguaglianze negli ultimi vent’anni è rimasto sostanzialmente stabile, anche se resta molto più alto di quello di inizio anni novanta. Giovanni Vecchi è professore all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, consulente della Banca Mondiale e autore di più saggi sul benessere degli italiani. «La situazione delle persone con un reddito sotto la media è preoccupante, e lo si vede anche dalla piega che ha preso il dibattito pubblico».
Perché?
«Lasciamo un attimo da parte se siano o meno aumentate di molto le diseguaglianze rispetto a vent’anni fa. In alcuni momenti è meglio salire sulla montagna e guardare i contorni della foresta piuttosto che osservare la forma dei tronchi».
Cosa si vede dalla cima della montagna?
«Il numero di persone in condizione di povertà assoluta in Italia è aumentato come non avveniva da decenni. La grande recessione ha avuto un’intensità superiore e prodotto effetti più persistenti della grande depressione del 1929. Fino a metà degli Anni Ottanta le disuguaglianze sono scese, poi hanno ripreso a salire».
Si stava meglio prima dell’euro?
«No, non c’è spazio per la nostalgia. Gli italiani stanno meglio di vent’anni fa e gli indicatori di salute sono in crescita. Il problema è che siamo complessivamente più vulnerabili e con una più bassa capacità di reagire agli eventi negativi. Inoltre una fetta di italiani è rimasta fuori da questi miglioramenti: basta farsi un giro in certi grandi ospedali del Sud».
Il governo ha introdotto il reddito di inclusione, il M5S vuole quello di cittadinanza. La politica ha compreso il problema. O no?
«Alla buon’ora. Ciò che mi stupisce del dibattito italiano è la tendenza a sottovalutare la rilevanza di fenomeni come questi, anche perché se qui c’è una cosa che non funziona sono le scorciatoie. Bisogna valorizzare le risorse, aprire le porte, investire in ricerca. Ciò che mi preoccupa è l’idea che qualcuno si convinca che i problemi della complessità si possano risolvere con ricette semplici».
Ad esempio?
«Quando un Paese smette di crescere per un periodo troppo lungo - dieci o vent’anni - la gente inizia ad aver paura e chiede soluzioni che vanno nella direzione opposta a un maggior benessere. È questo che ci deve preoccupare».
Il Fatto 19.2.18
Via De Luca jr. e Renzi insulta Fanpage: cronista aggredita
Tensioni al convegno del Pd dopo l’annuncio di Roberto che attacca il sito autore dello scoop: “Montaggio strumentale”
di Vincenzo Iurillo
Dimissioni e scaricabarile. L’exit strategy di Roberto De Luca va in due direzioni. Sul versante politico, il colpo di teatro delle dimissioni da assessore al Bilancio di Salerno. Roberto le ha annunciate ieri mattina a sorpresa durante una convention dei candidati Pd al Grand Hotel Salerno, alla presenza del padre, il governatore della Campania Vincenzo De Luca. Sul versante giudiziario, una difesa che punta a smontare la genuinità dei video di Fanpage – “montaggio strumentale e visione distorta rispetto alla versione integrale”, scrive l’avvocato Andrea Castaldo – e ad accollare tutte le responsabilità su Francesco Colletta, il ‘mediatore’ dell’incontro con l’ex boss di camorra Nunzio Perrella per discutere di appalti per lo smaltimento delle ecoballe, un affare da oltre 400 milioni di euro di competenza della Regione Campania. L’obiettivo è quello di derubricare le accuse di corruzione a millantato credito, di cui risponderebbe solo Colletta. Il commercialista di Angri è l’unico ad accettare (e rilanciare) le proposte di tangenti “del 10-15%” nell’ultimo dei tre incontri con Perrella, peraltro avvenuto in assenza di De Luca jr. Se questa linea fosse accolta dalla Procura di Napoli, e ci sono buone possibilità in tal senso, Roberto potrebbe ottenere una rapida archiviazione. E tornare a fare l’assessore a elezioni avvenute e bufera superata.
Sì, perché ieri De Luca jr ha dosato bene le parole. “Ho ricevuto attestati di stima e solidarietà, anche da tanti avversari politici, dopo la vicenda oscura in cui sono stato coinvolto. È chiaro a tutti che è stata messa in piedi una provocazione vergognosa addirittura con l’ingaggio di ex camorristi. Ma non intendo offrire alibi a nessuno, né pretesti per operazioni di aggressione politica. Quindi rimetto il mio mandato di assessore al Comune di Salerno”. Il sindaco è Vincenzo Napoli, già ex vice sindaco di De Luca padre. Napoli è il cappello del governatore della Campania su Salerno: potrebbe decidere di congelare le deleghe, in attesa che il peggio sia passato. Ieri De Luca padre si è visibilmente commosso e qualcuno giura di averlo visto in lacrime mentre il figlio si dimetteva.
Ma non c’era altra strada. La pressione su Roberto era insostenibile e le ripercussioni elettorali di questa storia, in assenza di un segnale forte, sarebbero state incalcolabili. Persino Matteo Renzi, sabato in tour elettorale a Napoli, aveva chiesto in privato un passo indietro del rampollo del governatore. Lo ha ottenuto e lo apprezza: “Sono un gesto personale che lui ha fatto con grande serietà, grande rispetto perché dice di non aver fatto niente. Penso e spero che querelerà Luigi Di Maio che gli ha dato dell’assassino e spero che Di Maio rinunci all’immunità parlamentare, se è un uomo” ha detto il segretario del Pd Matteo Renzi a In 1/2 ora in più.
“Aspetto la querela di De Luca (se mai arriverà visto che oggi si è dimesso), ma soprattutto aspetto una dura presa di posizione da parte di Renzi e Gentiloni contro l’aggressione Pd alla giornalista di Fanpage“ ha replicato il candidato premier del M5s sui social, che aggiunge: “Sono nati comunisti, stanno morendo squadristi”. Ieri, infatti, è successo anche questo. Una videoreporter di Fanpage, Gaia Bozza, nel tentativo di fare qualche domanda a Roberto De Luca, seduto in prima fila della sala convegni insieme al fratello Piero (capolista Pd della Camera a Caserta e candidato nel collegio uninominale di Salerno) e al padre Vincenzo, è stata aggredita da una supporter della ‘family’. Uno spintone, uno schiaffo sulla telecamera, un tentativo di sberla al viso non andato a segno. “De Luca è numero uno, no questa monnezza”, le parole della signora davanti alla telecamera.
Le dimissioni di De Luca jr non placano gli animi dei grillini. Oggi il gruppo M5s in Campania darà vita a un flash mob “per invocare la cacciata della dynasty dei De Luca dalle istituzioni”. Alle 11.30 parlamentari, candidati e attivisti organizzeranno presidi simultanei davanti ai palazzi della Regione Campania e del Comune di Salerno. “Il figlio assessore l’abbiamo fatto fuori ma non basta che i De Luca siano fuori dalle istituzioni. Vogliamo che se ne vadano anche tutti i loro uomini, eterodiretti dal governatore”.
Il Fatto 19.2.18
“Unica a far domande, volevano menarmi”
La giornalista racconta il clima violento dei simpatizzanti democratici
“Unica a far domande, volevano menarmi”
di Vin. Iur.
L’informazione in Italia è davvero ridotta male se, come riferisce la cronista di Fanpage Gaia Bozza, “ero l’unica a fare domande sul nostro video”. A una convention dei candidati del Pd di Salerno, coi De Luca schierati al completo, con l’agenda politica dominata dal caso di Roberto De Luca filmato di nascosto a discutere di appalti con un ex boss, in un paese normale le testate non si sarebbero occupate d’altro. E non deve sorprendere che se sei la sola a fare domande scomode, ti ritrovi isolata e qualcuno ti mette le mani addosso. “Nessuno dei dem presenti mi ha detto una parola di conforto, ma non so quanti abbiano visto, c’era confusione”. In serata Richetti le ha espresso solidarietà “a nome di tutto il Pd”.
Bozza, si era qualificata come cronista di Fanpage?
C’era scritto sul microfono.
Che clima ha trovato?
Ostile. Violento.
Chi ha provato a sentire?
Ho iniziato con Franco Alfieri e subito sono iniziate le contestazioni alle mie spalle. Ero l’unica nel gruppetto a porre un certo tipo di domande.
Perché, cosa chiedevano gli altri?
Domande da campagna elettorale, sulle aspettative dei candidati.
E sui vostri video?
Io non ne ho ascoltate.
Ha provato a farle lei.
Ci ho provato.
E una donna ha cercato di prenderla a schiaffi.
Mi volevo avvicinare a Roberto De Luca, volevo chiedergli qualcosa sull’indagine che lo riguarda. Un cordone di sicurezza mi ha tenuto a distanza. Ho ascoltato una signora che gridava ‘basta con queste domande, sono monnezza, De Luca è un grande’. Mi sono girata per chiederle se sapesse qualcosa dei video, volevo intervistarla per capirne qualcosa di più. Mi ha insultato e poi si è avventata su di me. Per fortuna mi sono scansata.
E addio intervista a De Luca junior.
Inquietante un’aggressione avvenuta davanti ai candidati.
Vincenzo De Luca sabato parlava di “camorristi assoldati per ricattarlo”.
Una violenza verbale di quel tipo spiana la strada ad altre violenze.
Il sistema dei media non vi ha difeso del tutto.
Siamo amareggiati. Abbiamo solo fatto il nostro lavoro. Ma abbiamo avuto tante attestazioni di stima.
Il Fatto 19.2.18
La Chiesa e la rivoluzione della conservazione
Pii auspici. Tra il vuoto della formazione del prossimo governo e il blocco di centrodestra a trazione leghista, i vescovi pregano per un Gentiloni bis e Minniti
di Carlo Tecce
Oggi Camillo Ruini compie ottantasette anni. Ogni tanto l’anziano cardinale – che fu longevo presidente dei vescovi italiani – interviene per condannare l’irrilevanza dei cattolici in politica. Ruini ha attraversato (e assommato) vent’anni di potere: le spoglie della prima Repubblica, la discesa di Silvio Berlusconi, l’ascesa di Romano Prodi, finanche i prodromi del grillismo. Con la nomina di Gualtiero Bassetti – arcivescovo di Perugia, tenero di carattere e riformista di formazione – proprio sul trono che fu di Ruini, la Conferenza episcopale si è perfettamente allineata al pontificato di Francesco. Vuol dire che non esistono governi vicini o lontani per definizione o addirittura per ideologie, ma politiche che possono soddisfare la dottrina sociale della Chiesa. A un paio di settimane dal voto per il Parlamento, lo sguardo dei vescovi si posa sulle manovre del 5 marzo e non sui risultati del 4 marzo. Perché la Cei teme il vuoto (o il nulla) fra il mandato di Paolo Gentiloni e la complicata formazione del prossimo governo e teme, soprattutto, la prevalenza nelle urne del blocco di centrodestra a trazione leghista. Il cambiamento più rivoluzionario, confidano al Fatto autorevoli vescovi, sarebbe prolungare il presente nel futuro e non interrompere il lavoro di Gentiloni e di Marco Minnini, il ministro più apprezzato per la gestione dell’immigrazione.
I vescovi diffidano dai partiti che esaltano la “famiglia tradizionale” e combattono per il “presepe natalizio” e poi alimentano lo scontro fra italiani e stranieri, negano l’umana accoglienza e deridono Jorge Mario Bergoglio quando paragona Gesù ai profughi. Il cardinale Gualtiero Bassetti ha diluito l’evidente sfiducia nei leghisti nell’elaborata prolusione all’ultimo consiglio permanente: “Ricostruire la speranza, ricucire il Paese, pacificare la società. Immorale lanciare promesse che non si possono mantenere”.
Un tempo c’era sintonia, però, fra il centrodestra di Berlusconi e la Conferenza episcopale, adesso la Cei – che a qualche monsignore pare di “sinistra” – osserva l’ex Cavaliere con distacco perché lo considera l’abito dentro cui si nascondono le pulsioni leghiste e dell’estrema destra. All’ineffabile coalizione che va da Berlusconi a Salvini, la Cei preferisce i Cinque Stelle per un semplice motivo: non hanno connotazioni nette sugli argomenti sensibili per la Chiesa e, in campagna elettorale, sui migranti e l’Europa hanno assunto posizioni più morbide. Il voto che spaventa gli anonimi mercati finanziari e le fattucchiere vestite da analisti non impensierisce la Conferenza episcopale, non ostile alle larghe intese, se servono a escludere le istanze leghiste, e fiera sostenitrice di Gentiloni.
Non da sempre, ma dall’intensa estate 2017. Quando Minniti ha imposto il codice di condotta alle Organizzazioni non governative e Palazzo Chigi ha ripreso il controllo del Mediterraneo. Un pezzo di cattolici – importanti associazioni e il quotidiano Avvenire (dei vescovi) – hanno aspramente criticato Minniti. Per un tempo lungo, forse eccessivo, il Vaticano ha taciuto. Poi la segreteria di Stato ha avviato una trattativa con Palazzo Chigi che s’è conclusa a casa di monsignor Angelo Becciu, il sostituto per gli affari interni, con il colloquio fra Bergoglio e Gentiloni. Bassetti si è adeguato volentieri e pure Nunzio Galantino, il segretario generale, che all’inizio del pontificato fu spedito da Bergoglio in Cei per sorvegliare Angelo Bagnasco, allora presidente.
Al rientro dal viaggio in Colombia, in settembre, Francesco ha benedetto ufficialmente la linea di Minniti su Libia e migranti: “Un governo deve gestire tale problema con la virtù propria del governante, la prudenza. Cosa significa? Primo: quanti posti ho. Secondo: non solo ricevere, ma integrare”. E sui campi libici: “Ho l’impressione che il governo italiano stia facendo di tutto – con lavori umanitari – per risolvere anche questioni che non può assumersi”, ha detto Bergoglio in versione postulatore della causa per san Minniti. Dopo qualche mese di rodaggio, la Conferenza episcopale e il governo italiano hanno “aperto” i corridoi umanitari. Il primo, a ridosso di Natale, ha portato 162 profughi libici all’aeroporto di Pratica di Mare. I vescovi hanno stanziato altri fondi dell’otto per mille per consentire ai migranti, non più costretti a rischiare la morte nel Mediterraneo (o almeno, non sempre), di vivere con dignità in strutture religiose. Che sia un compromesso modesto o l’unico rimedio (pragmatico) a una questione gigantesca, il modello Minniti sull’immigrazione funziona perché Minniti è ministro degli Interni e Gentiloni è un premier prudente. Il buon rapporto fra la Chiesa e lo Stato è sfruttato anche per circostanze diverse. Per esempio, due settimane fa, i vescovi con Libera di don Ciotti e il governo hanno firmato un protocollo – che la Cei finanzia con mezzo milione di euro in tre anni – per l’assistenza a donne e minori provenienti da famiglie della criminalità organizzata o vittime di violenza mafiosa.
E dopo Gentiloni, che accadrà? Il dubbio spaventa. In epoca renziana c’erano più contrasti col governo. E non soltanto perché – legittimamente – Renzi ha ottenuto l’approvazione delle unioni civili. Più banalmente, non è mai scattata l’empatia personale fra papa Francesco e il segretario dem né mai – oltre alla stretta cerchia di Bagnasco – Luca Lotti è riuscito a influenzare la Cei. Non si ricordano memorabili visite di Renzi da Bergoglio né proficui dialoghi fra palazzo Chigi e il governo vaticano di Pietro Parolin. Claudio De Vincenti coltivava i tradizionali contatti con Becciu e Parolin, ma le interferenze di Lotti con la Chiesa non giovavano all’autorevolezza del sottosegretario. Gentiloni non ha delegato a Maria Elena Boschi – erede di De Vicenti a Palazzo Chigi – neanche un dossier sul Vaticano. La scorsa settimana all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, alla cerimonia per la ricorrenza dei Patti Lateranensi, c’era mezzo governo con in testa Gentiloni. E non c’era, però, la nostalgia di un’esperienza che sta per finire. I vescovi pregano per un Gentiloni bis.
Il Fatto 19.2.18
“Impostore”, “gradasso”, “Lucifero”: gli insulti al papa dei tradizionalisti
L’invettiva di Francesco contro i conservatori che lo accusano di eresia, tra cui il cardinale Burke
di Fabrizio d’Esposito
La “resistenza” clericale e farisea anti-Bergoglio, com’era prevedibile, non ha reagito bene alla dura invettiva di Francesco contro siti, vaticanisti illustri e semplici blog tradizionalisti che considerano il pontefice argentino un vero e proprio eretico a capo della Chiesa.
Le parole del papa, consegnate alla fidata Civiltà Cattolica di padre Antonio Spadaro sono state queste: “Per salute mentale io non leggo i siti Internet di questa cosiddetta resistenza. So chi sono, conosco i gruppi, ma non li leggo, semplicemente per mia salute mentale… Alcune resistenze vengono da persone che credono di possedere la vera dottrina e ti accusano di essere eretico. Quando in queste persone, per quel che dicono o scrivono, non trovo bontà spirituale, io semplicemente prego per loro”.
Tra i più lesti a rispondere gli “anonimi della Croce”, misteriosi autori di sapidi retroscena curiali, che oltre a ribadire le accuse di eresia a Francesco pubblicano commenti zeppi di insulti cattolici all’indirizzo del papa. Un assaggio: “pappa Francesco”, “stolto”, “impostore argentino”, “falso papa”, “gradasso” persino “Lucifero”. In questa sede, e non solo, abbiamo già dato conto della consistenza più che altro telematica non reale di questa opposizione interna. Si tratta di élite tradizionaliste con l’aggiunta di autorevoli vaticanisti tra cui spicca quello del Tguno, Aldo Maria Valli.
La guerra a Bergoglio, soprattutto per le aperture ai divorziati dell’Amoris Laetitia, ha però solidi punti di riferimento nel clero, tra cui il cardinale americano Raymond Leo Burke, non più patrono dei Cavalieri di Malta per volontà di Francesco. Burke è uno degli autori dei cinque Dubia (dubbi) sull’Amoris Laetitia e più di una volta ha accusato il pontefice di eresia. Di qui la minaccia di un clamoroso scisma nella Chiesa di Roma. Per Burke, Bergoglio potrebbe già decadere per “manifesta eresia”. Non quindi un processo da fare, ma una semplice e solenne “declaratoria” del collegio cardinalizio. La “deposizione” di Bergoglio è solo una delle tre ipotesi sperate da questo fronte fariseo. Le altre due sono le dimissioni e la morte.
La Stampa 19.2.18
Duello sotterraneo con Gentiloni
Renzi riapre i canali con Berlusconi
Il leader Pd preoccupato dal crescente sostegno per il premier E adesso punta all’ex Cavaliere per tornare a Palazzo Chigi
di Fabio Martini
«Ciao Emma, sono Matteo...». È sabato mattina, Emma Bonino ha appena risposto al suo cellulare e in linea c’è Matteo Renzi, che con affettazione amichevole, le dice che è assurda quella storia che raccontano i giornali, non è vero che lui è ostile a Più Europa e anzi, visto che in quelle ore tutti e due sono a Napoli, perché non fare un’iniziativa assieme? Emma Bonino, con garbo, lascia cadere. Quel che la leader radicale omette di dire al suo interlocutore è che oramai è tardi per esibire comunanze, le due liste sono apparentate e non sorelle e dunque la notte del 4 marzo si vedrà come è andata.
La telefonata di Matteo Renzi a Emma Bonino è solo uno dei tanti frammenti che raccontano la difficoltà nella quale si trova il leader del Pd. E per uscirne, Renzi sta imbastendo nuovi escamotage. Alcuni pubblici, con ostentazioni di generosità irrituali per un solista come lui. E altri affidati invece ai contatti personali e riservati con l’interlocutore che nel dopo-voto potrebbe disporre della chiave d’ingresso per Palazzo Chigi: Silvio Berlusconi.
Gli escamotage pubblici, dissonanti rispetto al recente passato, si stanno moltiplicando: ieri Renzi ha accettato l’idea di presentarsi ai telespettatori di «In mezz’ora» di Lucia Annunziata, affiancato dal ministro dell’Interno Marco Minniti. E dagli studi di Raitre Renzi ha espresso nei confronti del presidente del Consiglio parole amichevoli, anche se non corrispondono a un investimento pieno sul presidente del Consiglio. Ma avere Gentiloni sulla stessa barca è diventato indispensabile anche perché in queste ultime 48 ore è diventato palese un dualismo per la premiership, destinato a proporsi in modo plastico in un dopo-elezioni che imponesse al Pd le larghe intese: da una parte Matteo Renzi, dall’altra il «partito» di Gentiloni. Il pubblico endorsement di Romano Prodi a favore del presidente del Consiglio si aggiunge ad analoghe dichiarazioni di ministri come Carlo Calenda e Marco Minniti, per non parlare di Emma Bonino, che ha invitato Gentiloni (e non Renzi) alla Convention di Più Europa. E nei giorni prossimi anche Walter Veltroni si aggiungerà ad un «rassemblement» di simpatizzanti, un cartello la cui durata è però legata al risultato elettorale.
E proprio alla tenuta del Pd si legano le persistenti ambizioni di Matteo Renzi che non ha affatto rinunciato a tornare a Palazzo Chigi. Tanto è vero che, l’altro giorno, a chi gli chiedeva se oramai avesse deciso di restare al partito, Renzi ha risposto con sincerità: «Dipende da come andranno le elezioni. Io sono molto convinto che per il bene del Paese il primo partito debba essere il Pd». Ma l’ambizione di tornare a Palazzo Chigi - Renzi lo sa - diventerebbe legittima e praticabile in caso di tenuta sulla «soglia Bersani», (25 per cento al proporzionale) e proprio confidando in una tenuta, il segretario del Pd ha ripreso sotterraneamente i contatti con Silvio Berlusconi e tenuto aperto un canale con Roberto Maroni.
Certo, dall’altra parte, gli interlocutori di centrodestra sono prudenti, non incoraggiano oltre il ragionevole le ambizioni renziane. Berlusconi ha confidato di essere preoccupato per una caduta libera del Pd, che rischia di venir meno come interlocutore di un governo di larghe intese. E al tempo stesso l’ex Cavaliere è sempre più consapevole che, laddove la Lega insistesse nella pregiudiziale anti-Pd, a lui servirebbero mesi per preparare il distacco dai suoi alleati.
Tutto questo Renzi lo sa. Ecco perché sta preparando quello che qualcuno dei suoi definisce «un precotto da inserire nel micro-onde» dopo le elezioni. La scommessa si riassume in pochi dati: se il Pd sarà per davvero «la prima forza in Parlamento», come lui auspica e se Forza Italia consoliderà la sua rimonta, a quel punto si potrà trattare con le forze disponibili e necessarie per un governo Renzi, dalla Lega sino all’ala più realista di Liberi e Uguali. Uno schema che deve fare i conti con un’incognita - il risultato finale del Pd - ma soprattutto con un dato finora sfuggito ai media: la rimonta di Forza Italia si è rallentata, per qualche istituto persino arenata. Secondo le ultime rilevazioni consentite di Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, l’istituto preferito da Berlusconi, nelle ultime due settimane Forza Italia ha perso circa un punto, passando dal 18,4 al 17,3%, mentre salgono le forze anti-inciucio: Lega e Fratelli d’Italia.
Il Fatto 19.2.18
Il caso Macerata e il vuoto di una politica irresponsabile
Qualcuno muore e un matto fascista spara a caso sulla gente, ma il discorso pubblico si aggroviglia su chi sia il responsabile. Tutto è parte di un balletto scoraggiante, asservito agli scopi elettorali di questa o quella tribù
di Mirko Canevaro
Tanto è stato già detto dei fatti di Macerata, che hanno portato alla ribalta alcuni dei problemi più drammatici del Paese – molti, a giudicare dalle reazioni: immigrazione, fascismo, droga, xenofobia, buonismo, insicurezza, bullismo, ecc. Qui, lasciando da parte questioni moralmente più drammatiche, voglio concentrarmi su un problema ulteriore e forse altrettanto serio: il peculiare rapporto del nostro dibattito pubblico con la nozione di causa ed effetto.
Il dibattito su Macerata è stato una lente di ingrandimento: qualcuno muore (o gli sparano cercando di ammazzarlo), e il discorso pubblico si aggroviglia su chi sia il responsabile. Non tanto su chi abbia sparato, ma su chi siano i mandanti morali, su quali forze ideologiche, sociali ed economiche più o meno remote siano dietro al gesto. È una sfida tra catene causali più o meno sostenibili, più o meno logiche. Vale la pena soffermarsi, perché i problemi dell’Italia, come tutti i problemi, di norma hanno delle cause e su queste cause bisogna agire per tentare di risolverli. Insomma, un discorso pubblico che parli di cause, responsabilità ed effetti probabili con un po’ di rigore è indispensabile se non si vuole far danni, che si stia a destra, a sinistra, al centro, di sopra, di sotto o di traverso.
Ricapitolando, tre spacciatori nigeriani ammazzano a Macerata una povera ragazza, Pamela, fuggita da una comunità di recupero (e, alla ricerca di droga, convinta anche a prostituirsi per soldi con un italiano). Una storia terribile. Di chi è la responsabilità? Dei tre, certo, ma non solo: ci spiega Salvini che la responsabilità è del fenomeno di cui sono parte – l’immigrazione – e quindi di chi li ha lasciati arrivare – la sinistra buonista. Perché, va da sé, se non ci fossero immigrati (solo dalla Nigeria o in generale?), i tre non avrebbero ucciso la ragazza – problema risolto. Folle oceaniche di leoni da bar e da tastiera convergono sulla spiegazione: l’immigrazione (nel suo complesso) è causa della morte di Pamela e quindi tutti gli immigrati, e tutti quelli che li lasciano arrivare, sono responsabili. Sulla base di questo ragionamento un matto fascista, già candidato della Lega, si mette a sparare a caso alla gente secondo il colore della pelle: un attentato terroristico bello e buono.
Chi è responsabile? Ci si divide. Per alcuni è Salvini e quelli come lui, con la loro retorica dell’invasione che poi spinge i matti fascisti a sparare. Ma, scopriamo da Salvini stesso, da CasaPound, da Forza Nuova e dalle legioni di leoni da tastiera e da bar, che responsabile è in realtà sempre la sinistra buonista che fa arrivare gli immigrati – se non ci fossero gli immigrati i nigeriani non avrebbero ammazzato la ragazza, e quindi il matto fascista (che alla fine va capito, dicono) non si sarebbe incazzato e non sarebbe andato in giro a sparare a caso ad immigrati innocenti (che peraltro, come abbiamo visto, non ci sarebbero stati a monte, per cui sarebbe stato difficile centrarli).
Dal Pd Minniti ci spiega, con uno svolazzo sul tema salviniano, che tutto questo è dimostrazione che ha avuto ragione lui ad adoperarsi con successo per ridurre gli sbarchi e fare in modo che gli immigrati restino (a morire?) in Africa. Quando vengono qui, poi finisce che ammazzano le ragazze a Macerata e come risultato vengono presi a pistolettate dai matti fascisti – insomma, meglio restare (a morire?) in Africa, no? Un ingenuo potrebbe domandare: ma se sono davvero gli sbarchi la causa del problema e la loro riduzione ne è la soluzione, com’è che, nonostante Minniti abbia ridotto gli sbarchi, i tre nigeriani hanno comunque ammazzato la povera ragazza e il matto fascista ha comunque sparato agli immigrati a Macerata? Renzi ci mette del suo e spiega, commentando il gesto del matto fascista, che è sempre sbagliato farsi giustizia da soli. Il che, a rigor di logica, implicherebbe che in qualche modo quei poveri cristi immigrati a cui il matto fascista ha sparato fossero responsabili della morte di Pamela. Altrimenti in che senso parla di “fare giustizia”?
Al M5S non sfugge la complessità dei rapporti di causa ed effetto. Di Maio sa bene che condannare senza se e senza ma il matto fascista sarebbe interpretato dalle legioni di leoni da tastiera e da bar come equivalente a disconoscere l’intera catena causale di cui sopra. Se il matto fascista è responsabile delle sue azioni in quanto matto e in quanto fascista, allora vuol dire che causa dell’attentato è, primo, che è matto e, secondo, che a forza di certa retorica lo si è fatto diventare fascista – non dell’immigrazione in generale. Di Maio lo sa, e tace.
Alcuni dei rapporti di causa effetto che ho riassunto sono più assurdi e illogici di altri. Alcuni sono poi più cinici, più feroci, più strumentali di altri. Ciò che hanno in comune però, mi pare, è che al centro non c’è un tentativo di capirci davvero qualcosa, di avanzare il dibattito pubblico su temi e problemi complessi. Non c’è neppure un’attenzione vera per le vittime o per i carnefici. Tutto è parte di un balletto scoraggiante, in cui l’analisi delle cause di episodi specifici come di fenomeni epocali è asservita agli scopi elettorali di questa o quella tribù. Che da questo groviglio di interessi, di pregiudizi e di miopie possano emergere soluzioni pare davvero, ad oggi, impossibile.
Corriere 19.2.18
Boldrini: «Sciogliere i gruppi neofascisti»
Il leader di FI: ma il vero pericolo sono i centri sociali. Napoli, antagonisti in piazza contro CasaPound
di Rinaldo Frignani
ROMA Ha scelto il murales realizzato nel quartiere Niguarda a Milano dedicato ai partigiani e riempito di svastiche e croci celtiche per affermare con forza che «i gruppi che si rifanno a un’ideologia fascista vanno sciolti. Non c’è spazio per loro in democrazia». Così ieri la presidente della Camera Laura Boldrini, candidata di Liberi e uguali in Lombardia, davanti a quello che ha definito «un simbolo della Resistenza e della Liberazione di Milano». «Dobbiamo stare attenti — ha detto — perché nel nostro Paese si sono moltiplicate le azioni provocatorie e violente da parte dei gruppi neofascisti, nei territori come sulla Rete. Non possiamo più far finta di niente».
Parole dure che arrivano in una domenica caratterizzata non solo da manifestazioni antirazziste e antifasciste, come quella di Macerata, ma anche da confronti carichi di tensione come quelli di Venezia e Napoli, oltre a quello di Roma, a Monteverde. Il segnale che, a meno di tre settimane dalle elezioni, il clima — quantomeno in piazza — sta diventando rovente, mentre il ministro dell’Interno Marco Minniti, ospite di Mezz’ora in più su Rai3, ha sottolineato come «in una grande democrazia bisogna sempre tenere molto alta la guardia: dobbiamo mantenere fortissimi i sensori, abbiamo una democrazia forte e solida». Durante il programma «Che tempo che fa», Silvio Berlusconi è tornato sul tema dicendo che «Il fascismo è morto e sepolto. mentre c’è un movimento dell’antifascismo che è pericoloso perché viene dai centri sociali».
L’aria che si respira non promette nulla di buono. Ieri sera nel capoluogo campano, nella zona della Stazione centrale, polizia e centri sociali si sono fronteggiati a lungo (alla fine ci saranno due feriti lievi e 20 fermati tra i manifestanti), con lanci di petardi e fumogeni contro gli agenti. I centri sociali hanno organizzato anche blocchi stradali e un corteo per tentare di interrompere il comizio del candidato di CasaPound Simone Di Stefano all’Hotel Ramada.
Rischio scontri — con negozi e alberghi che hanno sbarrato vetrine e portoni — anche alla stazione veneziana di Santa Lucia, dove la Questura ha deciso all’ultimo momento di annullare il presidio di Forza Nuova. Il leader Roberto Fiore si è dovuto spostare all’Arsenale, dalla parte opposta della città, visto che il piazzale davanti allo scalo ferroviario era stato occupato dai no global, presenti a un sit-in di Leu.
Nelle stesse ore a Roma, in via di Donna Olimpia, confronto a brevissima distanza fra CasaPound, riunita per gli ottant’anni di un complesso di case popolari costruito durante il regime fascista, e gli attivisti del circolo pd di zona.
A Macerata, infine, corteo sotto la pioggia di alcune centinaia di persone — appartenenti a Cgil, Cisl, Uil, Anpi, Arci locali e a una trentina di associazioni di migranti — da piazza della Libertà a piazza della Vittoria, dove un gigantesco Tricolore è stato srotolato davanti al monumento ai Caduti, nel luogo in cui il neofascista Luca Traini concluse il suo raid anti immigrati facendosi arrestare dai carabinieri.
Nel suo discorso il sindaco dem Romano Carancini ha ricordato sia Pamela Mastropietro, la diciottenne romana uccisa il 30 gennaio proprio a Macerata, sia i sei stranieri feriti da Traini a colpi di pistola quattro giorni dopo.
«Macerata è libera. Non violenta, antirazzista e antifascista», era scritto sullo striscione in testa al corteo, al quale oltre ai sindaci dei comuni del territorio, ha preso parte in veste ufficiale il Pd, assente invece all’iniziativa dei movimenti antagonisti del 10 febbraio. Allora negozi chiusi in centro per la paura di danneggiamenti, ieri invece esercizi commerciali (almeno quelli in attività di domenica) aperti al pubblico. Sempre su Traini il primo cittadino ha sottolineato come «nelle piazze virtuali c’è perfino chi giustifica quello che è accaduto. Oggi partiamo per un percorso contro ogni fascismo, razzismo e violenza. Un lavoro quotidiano in teatri, scuole, università, biblioteche e nelle nostre famiglie».
Il Fatto 19.2.18
Italia a mano armata: molti arsenali nelle mani di pochi
In Italia girano troppe armi acquistate e detenute in modo illegale
di Enrico Fierro
Luca Traini, lo sparatore di Macerata, il fascio-leghista candidato dalla Lega, bodyguard ad un comizio di Salvini, che è stato immortalato mentre gli stringe la mano, era un regolare detentore di porto d’arma. Come lo era Gianluca Casseri, il suprematista bianco simpatizzante di Casapound, che il 13 dicembre 2011 uccise a Firenze due inermi cittadini senegalesi. Ma le analogie tra i due fatti non finiscono qui. Quando i vertici di Casapound seppero che un loro simpatizzante aveva fatto una strage, risposero con una alzata di spalle: “Noi non siamo soliti chiedere la patente di sanità mentale ai nostri militanti”. Stesso concetto espresso da Salvini poche sere fa nel confronto tv con Laura Boldrini: “Non faccio lo psichiatra”. Sì, perché, anche per giustificare l’azione di Traini si è tirata fuori una non meglio precisata “follia”.
Un modo per liquidare una questione che dovrebbe essere al centro del dibattito politico: in Italia girano troppe armi acquistate e detenute in modo legale. Le statistiche ci dicono che il 10% degli italiani possiede legalmente il suo “giocattolo” (titolo di un preveggente film che Giuliano Montaldo girò nel 1979). Traini e il suo predecessore fiorentino avevano la licenza di porto d’arma per uso sportivo. Apparentemente erano degli appassionati del tiro.
Ottenere questo tipo di autorizzazione è facile. Si va al commissariato di polizia, si riempiono dei moduli, compresa l’iscrizione ad una sezione di tiro a segno nazionale, o ad una associazione iscritta al Coni, ci si fa rilasciare dalla Asl un attestato medico di “idoneità fisica e mentale, oltre che assenza dell’uso di stupefacenti e alcol”, e il gioco è fatto.
Il permesso dura 6 anni e in questo lasso di tempo nessuna autorità, né di pubblica sicurezza, meno che mai sanitaria, controllerà la tua vita. Se bevi, se partecipi a strani movimenti politici, se in famiglia ci sono episodi di maltrattamenti e violenze. Niente di tutto ciò. Si scopre che il Traini della situazione è borderline, matto, oppure disagiato, solo dopo l’assassinio o la tentata strage. “Traini ha usato per il suo attentato una pistola Glock, regolarmente detenuta con licenza di tiro sportivo. Era, quindi, a tutti gli effetti un legale detentore di armi e anche le munizioni che ha usato erano state acquistate con regolare licenza. L’intento di Traini era di fare una strage. La miscela esplosiva che accomuna la tentata strage di Macerata a quelle negli Stati Uniti, come ad esempio la carneficina fatta da Dylann Storm Roof, il giovane 22enne suprematista bianco che nel giugno del 2015 uccise nove afroamericani nella chiesa metodista di Charleston in South Carolina, sta proprio nell’unione di questi due elementi: l’odio razziale e la legale detenzione di armi.
“Se la questione dell’odio razziale e dell’accrescersi nel nostro Paese di espressioni razziste, xenofobe e nazifasciste sono state ampiamente commentate, pochissima attenzione si è posta invece sulla facilità con cui, anche in Italia, si possono acquistare e detenere armi”, scrive Giorgio Beretta, analista del settore in un suo studio per l’onlus Opal di Brescia (l’Osservatorio permanente sulle armi leggere italiane). Ma c’è un di più: richiedere una licenza per uso sportivo o per caccia, oppure per semplice detenzione di armi in casa, è un escamotage per superare le difficoltà ad ottenere un porto d’arma per difesa personale. Un esempio, aumentano le licenze per la caccia, 774 mila, un più 12,4% negli ultimi quattro anni, ma diminuiscono i cacciatori. Lievitano (del 18,4%) i permessi per uso sportivo, arrivati ormai a mezzo milione. Il BelPaese si arma, e anche se non siamo ancora ai livelli degli Usa, da noi si registrano 0,71 omicidi con armi da fuoco ogni 100 mila abitanti.
Quante armi ci sono in Italia, quante se ne costruiscono e quanti sono i possessori, è difficile saperlo. Troppa opacità denuncia l’Opal. “Rendere noto il numero di armi legalmente detenute – si legge nei documenti dell’osservatorio – permetterebbe di raffrontare il dato con quello dei legali possessori di armi. E potrebbe balzare agli occhi una certa qual anomalia. Quale? Che un limitato numero di persone detiene un ampio quantitativo di armi. Non è un’ipotesi azzardata o peregrina: basti pensare che oggi in Italia con una mera licenza di nulla osta, uso sportivo o da caccia, un cittadino può detenere 3 armi comuni da sparo, 6 armi classificate ad uso sportivo sia lunghe che corte, 8 armi antiche e – si noti – un numero illimitato di fucili e carabine classificate “da caccia” (ed inoltre 200 cartucce per arma comune, 1.500 cartucce per fucili da caccia e 5 chili di polveri da caricamento). In parole semplici: più di qualcuno in Italia ha in casa un piccolo arsenale privato e relativo munizionamento. Pronto all’uso. Quali controlli vengono fatti su questi cittadini armati?”. Pochi, come abbiamo visto. E il futuro non promette nulla di buono. Basta leggere gli slogan della Lega e della destra sulla legittima difesa con al centro l’obiettivo di cancellare il reato di “eccesso colposo”. Armiamoci e partite.
Il Fatto 19.2.18
30 anni fa l’Italia scoprì la violenza sulle donne
La prevenzione. Una donna non la si salva soltanto togliendola alle percosse, bisogna darle gli strumenti per cavarsela da sola anche sei mesi dopo l’aiuto
di Silvia D’Onghia e Alessia Grossi
Si fa presto a dire “la violenza contro le donne nasce dall’ignoranza”. Non è così. E non è neanche vero che a subirla sono le donne che non hanno strumenti culturali. Non lo dicono soltanto gli esperti, lo dicono i numeri. Nel 2017 il 9,7 per cento delle donne che si sono rivolte al 1522 – il numero verde promosso dal dipartimento Pari Opportunità e gestito dall’associazione Telefono Rosa – ha un diploma di laurea; il 15,25 per cento una licenza media superiore. In totale, per prendere contatti, ricevere informazioni, chiedere aiuto o segnalare casi di maltrattamenti, gli operatori hanno registrato in tutta Italia 33 mila 466 chiamate. La maggioranza? Al Nord, in Lombardia soprattutto (2.549 richieste, il 7,6 per cento). Forse perché al Sud ancora si denuncia poco: ci sono realtà – ma questo purtroppo vale anche altrove – in cui gli atteggiamenti violenti del marito sono considerati quasi la normalità. Vergogna, difficoltà ad esprimersi, mancanza di informazioni, paura di controlli di polizia: le straniere che chiamano sono soltanto il 15 per cento del totale. Di norma le vittime si convincono a telefonare quando hanno paura per l’incolumità dei propri figli: soltanto il 30 per cento delle richieste di aiuto è arrivata da donne non madri. Capitolo a parte quello dello stalking: in questo caso hanno avuto bisogno soltanto 818 donne – una cifra irrisoria rispetto a un fenomeno così esteso –, il 33 per cento delle quali ha una laurea o un diploma superiore. Anche in questo caso, si tratta in prevalenza di italiane, ma sono quasi la metà quelle senza figli.
Il 1522 è un servizio istituito nel 2009, attivo 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno e gratuito. Si parlano l’italiano, l’inglese, il francese, lo spagnolo e l’arabo. Le operatrici forniscono una prima risposta alle vittime, con assoluta garanzia di anonimato, offrendo loro informazioni e un orientamento verso i servizi socio-sanitari pubblici e privati presenti sul territorio nazionale. I casi che rivestono carattere di emergenza vengono accolti con una specifica procedura condivisa con le Forze dell’Ordine.
Recuperare i bambini ed educare i giovani
“Sulla violenza si è cominciato a lavorare con serietà – spiega Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente di Telefono Rosa – mentre non si è fatto quasi nulla su quella sommersa, che viene assorbita dai bambini. Il loro modello è quello di un padre violento e di una madre che lo subisce. Quindi va bene continuare a lavorare sulle donne, dando loro la consapevolezza di non sapersi sole, ma bisogna anche sradicare questo esempio culturale”. È l’eterna questione mai realmente affrontata in questo Paese: come si fa a prevenire quelli che, con una parola orribile, vengono chiamati femminicidi? “Partendo dalle scuole. Noi nel Lazio abbiamo realizzato un progetto di formazione scuola/lavoro a spese nostre, che coinvolge 800 studenti”. Una classe a turno, dopo essere stata istruita dai docenti, si trasferisce per un sabato in una casa-famiglia, per stare con donne e bambini. Viene realizzato un laboratorio, i ragazzi possono parlare con le vittime – quelle che accettano – incontrano le psicologhe, le educatrici e le avvocate. Capiscono come potrebbe essere lavorare in questo campo e, a volte, riescono a tirar fuori anche sentimenti altrimenti messi a tacere, come la rabbia o gli attacchi di ira. “Ma la cosa più bella sa qual è? – prosegue Carnieri Moscatelli – Vedere le facce dei bambini, che magari per la prima volta in vita loro si trovano davanti a uomini ‘normali’”. Se un progetto come questo fosse rifinanziato nel tempo, si potrebbero vederne i risultati tra qualche anno. Perché questo è uno dei problemi, i finanziamenti. Lo Stato finora concede fondi dietro la presentazione di progetti.
Finanziamenti a pioggia ma non dove serve
Attualmente si discute di trasformare la modalità dei finanziamenti, adeguandola a quanto si fa per gli stranieri: 35 euro al giorno a persona assistita. “Non si rendono conto che mangiare e dormire non sono le nostre voci di spesa principali – conclude la presidente di Telefono Rosa – perché il compito più importante per noi è recuperare quelle donne. L’assistenza legale, quella psicologica, le trasferte per seguire i processi, i gruppi di auto-aiuto, il ‘dopo’, che significa il reinserimento nel mondo del lavoro e la possibilità di trovare un alloggio. Una donna non la si salva soltanto togliendola alle percosse, bisogna darle gli strumenti per cavarsela da sola sei mesi dopo. E questo ha un costo che va ben oltre i 35 euro al giorno”.
Pronto? Qui 1988: le donne al Telefono
È un esperimento temporaneo. Cinque volontarie, tra cui la futura presidente Giuliana Dal pozzo in una stanzetta del Tribunale 8 marzo, in via della Colonna Antonina, Roma rispondono a un numero di telefono attivato in caso le donne avessero bisogno di segnalare violenze e abusi. In mano ognuna ha una matita e un foglio di carta su cui prendere appunti. Ma quale matita e quale foglio. In quattro anni arrivano 75 mila chiamate. È l’Italia “segreta”: dall’altro capo del telefono ci sono mogli, figlie e anche madri. Il primo teatro di violenza sono le mura domestiche e a perpetrarla uomini con un buon livello di cultura e una professione importante. Così qualche mese dopo quel febbraio 1988 i fogli diventano questionari. Domande che arginino lo sfogo incontrollato delle donne al Telefono Rosa, e che diano la possibilità a chi vuole aiutarle di raccogliere dati indispensabili. Nomi, cognomi e indirizzi di chi fino a quel momento aveva bussato ai commissariati di Polizia, dove funzionari in pantaloni rispondevano perlopiù: “Signora, torni a casa, suo marito la picchia perché è geloso, la ama”. Allora c’è bisogno di una struttura ora, di qualcosa di più di una linea amica. Per questo nel ’90 le volontarie si costituiscono in associazione. Iniziano a prendere lezioni. Si impara a reagire a quelle confessioni quasi incredibili. Si insegna a riportare le donne alla realtà. Quello non è uno sfogatoio, bisogna risolvere i problemi delle vittime, che nel frattempo si scopre essere anche madri. Cioè, a picchiare sono anche i figli. E allora una ricerca aiuterebbe. Nasce nel ’94 e si chiama “Le voci segrete della violenza”. Col Telefono iniziano a parlare anche le istituzioni e da questa sinergia si scrive la prima legge contro le molestie e lo stalking con un nuovo punto di vista: l’impressione di chi subisce, non di chi abusa.
L’Europa è Paese: la rete e i progetti antiviolenza
Da cinque volontarie il Telefono arriva a 47, la sede cambia: prima Piazza Navona, poi in Viale Mazzini. E guarda all’Europa, ma soprattutto alla prevenzione e all’educazione dei rapporti. L’Ue finanzia opuscoli e guide su “come difendersi da aggressioni, stupri e molestie, in casa e per strada”. E a Bruxelles il Telefono porta Cercando Eva storie di giovani donne che viaggiano per il Continente. La fondatrice, Dal Pozzo, raccoglie le storie in un libro Così fragile e così violento. È il 2000. Potrebbe essere oggi.
“Non toccate le allieve”: Weinstein alla Sapienza
È il 1994 e le avvocatesse del Telefono Rosa raccolgono le denunce delle studentesse molestate all’Università di Roma. È il caso Weinstein italiano. Si fanno nomi e cognomi dei professori implicati. Il Rettore minaccia querele. I giornali titolano: “Sapienza, lezioni insidiose”. Viene istituita una linea apposita. Ed escono le prime cifre. Su 3.000 studenti il 50 per cento dichiara di essere stato molestato.
La Commissione parlamentare: i dati oggi
“Negli ultimi 6 anni – si legge nella relazione finale pubblicata questo mese – una graduale riduzione (con una lieve risalita nel 2012) del numero dei delitti di violenza sessuale denunciati: sono passati dai 4.617 episodi del 2011 ai 4.046 del 2016 (-12 per cento circa)”. Anche se il dato evidente è la “divergenza fra il numero dei delitti di violenza sessuale denunciati e quelli, più esigui, relativi alle condanne”. Trent’anni dopo il Telefono squilla ancora. Qualcuno risponde?
Corriere 19.2.18
«Shoah, ebrei tra i responsabili» Bufera sul premier polacco
Nuova polemica sulla memoria. Morawiecki omaggia brigata filonazista
di Maria Serena Natale
Parole come lame di ghiaccio in quest’inverno di scontri sul passato che divide. Prima, l’approvazione della legge sulla Shoah voluta dal governo nazional-conservatore di Varsavia che prevede fino a tre anni di carcere per chiunque attribuisca alla nazione polacca complicità con i crimini nazisti. Poi la rottura alla conferenza sulla sicurezza di Monaco, dove il premier polacco Mateusz Morawiecki ha parlato di «responsabilità degli ebrei» nella voragine dell’Olocausto, provocando l’immediata reazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: «Affermazioni oltraggiose che dimostrano incapacità di comprendere la Storia e mancanza di sensibilità per la tragedia della nostra gente». Una polarizzazione pericolosa, nella quale il linguaggio non trova più un senso condiviso e la verità storica cede il passo alla politica e a un frainteso orgoglio nazionale.
La nuova legge — che vieta di definire «campi di morte polacchi» i Lager nazisti nella Polonia occupata come Auschwitz, Treblinka, Belzec, Sobibor — era stata presentata come una forma di difesa della «reputazione» del Paese dalle accuse di collaborazionismo e antisemitismo. La successiva contrapposizione frontale con i partner, dall’Europa al Medio Oriente, ha rafforzato il clima d’assedio. E sul sito web del Senato è comparso un appello affinché i polacchi all’estero segnalassero qualsiasi dichiarazione volta a danneggiare «il buon nome» della patria. A Monaco lo scontro è stato innescato dalla domanda rivolta a Morawiecki dal reporter israeliano Ronen Bergman: «Mia madre fuggì dalla Gestapo in Polonia poco dopo aver saputo che i suoi vicini l’avevano denunciata, se raccontassi questa storia sarei considerato un criminale nel suo Paese?». Risposta: «Non sarà incriminabile per aver detto che c’erano criminali polacchi, se si aggiungerà che ce n’erano anche di ebrei, russi, ucraini, e tedeschi». Poche ore dopo il premier, che segue la visione della Polonia vittima della Storia coltivata dal leader del partito di governo Jaroslaw Kaczynski, ha esacerbato ulteriormente gli animi rendendo omaggio ai caduti della Brigata delle montagne della Santa croce, unità militare clandestina che in guerra combatté i tedeschi per poi passare dalla loro parte contro i comunisti.
Ricordi di lotte feroci, nel Centro-Est dalla memoria lacerata, in un continuo sovrapporsi di confini fisici e mentali. La legge sulla memoria ha innescato una crisi anche con Kiev poiché punisce la negazione dei «crimini commessi da nazionalisti o esponenti di formazioni ucraine che collaborarono con il Terzo Reich». Gruppi oggi riabilitati dall’altra parte della frontiera.
Ieri, sui muri dell’ambasciata polacca a Tel Aviv sono comparse svastiche e scritte oscene. In una nota il governo di Varsavia ha spiegato di non voler negare l’Olocausto o alludere a responsabilità degli ebrei «nel genocidio perpetrato dai nazisti».
La Stampa 19.2.18
“Vi spiego perché io, No Tav mi sono unita alle milizie curde”
Siria, dopo mesi di silenzio Eddi, attivista torinese, diffonde un video “Questa battaglia è di tutte le persone che credono nella libertà”
di Federico Genta
«Sono in Siria perché qui c’è la prova del fatto che non solo un altro sistema rispetto al capitalismo è possibile, ma già esiste». Il cantone di Afrin è all’estremo Nord della Siria. Da almeno due anni è la roccaforte dei guerriglieri curdi e delle unità di protezione del popolo curdo. Un territorio ritornato da gennaio nel mirino dell’esercito turco. Qui sarebbe stato girato il video, pubblicato ieri su YouTube e divulgato dal network antagonista Infoaut. Protagonista delle riprese è Eddi, studentessa No Tav. Al secolo Maria Edgarda Marcucci, 26 anni, nata a Roma, da tempo impegnata nella lotta al cantiere dell’Alta velocità in Valsusa e nei comitati anti-sfratto legati ai centri sociali di Torino.
Tuta mimetica e zaino militare sulle spalle, Eddi stringe nella mano sinistra un kalashnikov. Lei però non accenna alla violenza della guerra. Parla delle forze siriane democratiche, Ypg, impegnate nella difesa della libertà, di un nemico che odia il sogno di una società libera. «Qui tutti i giorni tantissime persone di diverse nazionalità, di diversa religione, cultura e origine contribuiscono a creare, insieme, una società etica, libera, democratica. In questi giorni la Turchia, e prima ancora Isis, sta attaccando il cantone di Afrin pensando di poter distruggere questa possibilità. La cosa che è importante ricordare è che alla loro storia si può contrapporre la nostra. Il nemico odia le libertà, le donne e il futuro che si sta provando a costruire. È responsabilità di tutte le persone che credono alla democrazia prendere parte a questa battaglia. In ogni modo: parlandone, venendo qui, creando informazione. E importante che sentiamo come nostra responsabilità essere affianco alla popolazione della Siria del Nord. Ogni loro vittoria sara anche la nostra».
Il video di Eddi ricorda da vicino un altro filmato, diffuso nel settembre 2016 sempre attraverso gli stessi canali web. Era quello di un altro giovane torinese, Davide Grasso. Trentasei anni, anche lui attivista No Tav, si era rivolto direttamente all’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi per denunciare «Turchia e Arabia Saudita come i principali foraggiatori dello Stato Islamico». Grasso adesso è rientrato in Italia. Al momento sarebbero almeno una quindicina gli italiani impegnati nei contingenti Ypg.
La notizia della partenza di Eddi risale allo scorso novembre. «Per me questo è fondamentale: io non sono siriana. Ma questa battaglia è anche la mia e di tutte le persone che credono che un altro futuro sia possibile». Maria Edgarda Marcucci era salita alle cronache dopo la lettera-appello del regista Paolo Virzì - con cui lei aveva lavorato come comparsa sul set del film «Caterina va in città» - pubblicata da «La Stampa» nel luglio 2016. La ragazza, ricercata dalla polizia per gli scontri al cantiere Tav di Chiomonte, era fuggita da Torino. Si era poi costituita tre mesi dopo ed era finita agli arresti domiciliari. Al momento non è possibile sapere quando è stato registrato il filmato, che ritrae la studentessa accovacciata dietro a un muro di terra. Il video potrebbe risalire anche a un mese fa, quando sul territorio di sono ripresi i bombardamenti.
Afrin oggi è di fatto isolata e i curdi stanno per cedere il suo controllo all’esercito regolare siriano. Lo Ypg è costretto a cedere perché non può resistere all’offensiva turca. La trattativa è portata avanti dalla Russia e dalla stessa Turchia, che potrebbe essere più interessata alla città di Manbij, anche questa controllata dai curdi ma con l’appoggio degli Stati Uniti. In caso di accordo, i turchi otterranno che il confine ad Afrin venga sigillato, lo Ypg ceda le armi pesanti ai governativi e non possa più compiere attacchi in territorio turco.
La Stampa 19.2.18
Corbyn e i Labour sotto accusa
“Informatori dei servizi di Praga”
Un’ex spia dell’Est: negli Anni 80 collaboravano con il blocco sovietico
Le accuse ai vertici del Labour britannico su presunte collaborazioni coi servizi segreti dell’allora blocco sovietico non si limitano al leader Jeremy Corbyn: oggi è la volta del suo numero due, John McDonnell e dell’ex sindaco di Londra, Ken Livingstone
di Vittorio Sabadin
Il leader del partito laburista inglese Jeremy Corbyn ha incontrato più volte negli Anni 80 una spia cecoslovacca, alla quale avrebbe passato informazioni ritenute interessanti dal servizio segreto sovietico. La spia ceca, Jan Sarkocy, oggi ha 64 anni e vive a Bratislava: oltre a Corbyn, ha accusato di essere stati informatori del Kgb anche l’attuale Cancelliere del governo ombra John McDonnell, l’ex sindaco di Londra Ken Livingstone, il deputato laburista scozzese Ron Brown e una dozzina di altri esponenti del partito dei quali non ha fatto i nomi. Tutti negano fermamente le accuse, ma la tempesta che si è abbattuta sui laburisti britannici non si placherà facilmente e la leadership di Corbyn, già vacillante, è in serio pericolo.
Tutto è cominciato alcuni giorni fa, quando dagli archivi della Statni Bezpencost, l’ex servizio segreto cecoslovacco, sono emersi documenti dai quali risultava che Corbyn aveva incontrato nel 1986 e 1987 per tre volte a Londra Jan Sarkocy, che agiva sotto una copertura diplomatica con il nome di Jan Dymic. Il «Sunday Telegraph» ha raggiunto l’ex spia a Bratislava e poiché la Guerra fredda è finita, il Muro di Berlino è caduto e la Cecoslovacchia e l’Urss non esistono più, Sarkocy ha raccontato tutto.
Secondo quanto riferito dal «Telegraph», gli incontri sono stati molti più di tre. «Corbyn era un bravo ragazzo - ha detto l’ex agente della Statni Bezpencost - ma un po’ stupido. Non c’è alcun dubbio che sapesse che io era una spia, tutto era estremamente chiaro». Il leader laburista, ha aggiunto Sarkocy, aveva un nome in codice, «Cob» ed ritenuto all’epoca un informatore di buon livello: era Mosca a preparare gli incontri e a analizzare le informazioni ricevute. «Era una nostra risorsa, era stato reclutato e prendeva i nostri soldi», ha aggiunto Sarkocy, precisando però di non avere mai pagato personalmente Corbyn.
Il leader laburista ha smentito tutto attraverso un portavoce. Le accuse sono definite false, gli incontri con Sarkocy ci sono stati, ma Corbyn non sapeva che si trattasse di una spia. Lo ha invitato una volta alla Camera dei Comuni a bere un tè, e per quanto riguarda i rapporti con l’Unione Sovietica sì, c’è stato qualche incontro, «ma niente è accaduto». Degli inviti a Westminster ha parlato anche Sarkocy, precisando che furono numerosi e che si beveva whisky e non tè. In questa imbarazzante situazione un aiuto a Corbyn è arrivato da Svetlana Ptacnikova, la direttrice dell’archivio del servizio segreto cecoslovacco, la quale ha precisato che dai documenti non risulta che il leader laburista fosse un collaboratore. Ma non significa niente, ha detto Sarkocy, perché «moltissimi dossier sono stati distrutti».
La rete di contatti creata dall’ex spia era comunque molto vasta. Aveva reclutato persino una stretta collaboratrice dell’allora primo ministro Margaret Thatcher e se ne è vantato: «Sapevo che cosa mangiava e che cosa avrebbe indossato il giorno dopo». Thatcher, evidentemente informata, lo fece espellere nel 1989. Nella rete dei collaboratori, secondo Sarkocy, c’erano anche altri due esponenti di rilievo del Labour come McDonnell e Livingstone. Il primo, attraverso un portavoce, ha definito le accuse «false e ridicole», ma il «Sun» ricordava che tra i suoi filosofi preferiti negli Anni 80 c’erano Marx e Lenin. L’ex sindaco avrebbe partecipato a molti incontri all’ambasciata cecoslovacca: «Veniva a bere un whisky e parlava poi di tutto», ha detto Sarkocy. Livingstone ha definito le accuse «false e bizzarre», e ha aggiunto anche una prova a discolpa: «Non mi piace il whisky, io bevo brandy».
Il Fatto 19.2.18
I dieci anni di rabbia e povertà di Atene
La crisi dalla quale il paese sta forse cominciando a uscire solo ora ha mutato il panorama sociale tra umiliazioni finanziarie ed episodi di corruzione
di Roberta Zunini
La prima volta in cui Alexis Tsipras neo-leader di Syriza, la coalizione di sinistra radicale, pensò di avere qualche chance di vincere le elezioni fu nel 2012. Lo sottolineò in apertura del primo comizio elettorale all’inizio della campagna per le consultazioni di giugno di quell’anno. Ad ascoltarlo, nel quartiere operaio di Nikea (Vittoria, ndr) nei pressi del Pireo, il porto di Atene, c’era però solo un centinaio di persone. La maggior parte erano donne, perlopiù mogli e figlie delle migliaia di disoccupati di quella che fino al 2009 era l’industria più fiorente del paese: la cantieristica navale. I loro mariti e padri, fieri operai che fino ad allora avevano votato per il partito comunista greco e soprattutto per i socialisti del Pasok, preferirono invece rimanere a casa o cambiare percorso. In direzione del comizio di Alba Dorata, a poca distanza. Il partito neonazista e xenofobo greco stava infatti ritirando fuori la testa con una spavalderia mai mostrata fino a quel momento e toni ancora più populisti del solito, approfittando della crisi politico-economica di giorno in giorno più drammatica e dell’affluenza sempre più massiccia di profughi da Afghanistan e Siria.
Ufficialmente il tracollo economico greco diventò di dominio pubblico nel 2009, ma era un segreto di pulcinella anche tra i non addetti ai lavori già da un anno. Sono pertanto dieci anni che la maggior parte dei greci – 11 milioni in tutto – vivono in condizioni da terzo mondo. Anche durante questi mesi invernali sono ancora in tanti a non potersi permettere di pagare il riscaldamento e a ricorrere alle stufe a legna.
La tragedia più devastante della storia contemporanea greca dopo la fine della dittatura dei Colonnelli nel 1974 fu dichiarata da George Papandreou, figlio di Andreas, fondatore del partito socialista panellenico Pasok e già primo ministro. George (esponente della famiglia che dall’uscita di scena della Giunta militare si è alternata fino al 2015 alla guida della repubblica greca con la famiglia Karamanlis e Mitsotakis del partito conservatore Nea Dimokratia), da poco diventato premier ammise apertis verbis che il deficit statale era in realtà il doppio di quello stimato dal precedente governo. Per questo lo Stato greco sarebbe potuto collassare a causa dei debiti contratti e dichiarare bancarotta. Poco dopo l’agenzia di rating Fitch retrocesse il Paese da A- a BBB, definendo spazzatura i titoli di Stato. Nel 2010, per la prima volta dalla costituzione dell’Unione europea, un paese membro si ritrovò a chiedere un prestito alla stessa Ue e al Fondo Monetario Internazionale.
Da allora, nonostante e a causa dei prestiti capestro della troika – Unione europea, Banca Centrale Europea e Fmi – la disoccupazione è andata via via impennandosi e nemmeno la vittoria di Syriza alle elezioni del 2015- dunque 3 anni dopo l’inizio della scalata al potere di Tsipras – ha invertito la spirale negativa. Eletto due volte durante l’anno, dopo il pasticciaccio del referendum del 5 luglio e il crollo del sistema bancario, il leader della sinistra radicale si è ritrovato a dover fare i conti con la dura realtà di chi va al governo e quindi ad accettare i compromessi della realpolitik. Emblematica fu la frase: “Volete anche la mia giacca?” che Tsipras pronunciò durante il tesissimo incontro con gli esponenti della troika nell’agosto di quell’anno per ottenere il terzo salvataggio. Ovvero una nuova tranche di prestiti in cambio di riforme draconiane che hanno strangolato ancora di più il ceto medio spingendolo nell’indigenza vera e propria.
Una tragedia socio-economica di cui Tsipras non aveva alcuna colpa. Perché era stata provocata dalla malapolitica e dalla corruzione del partito conservatore Nea Demokratia e del socialista Pasok, che per più di quaranta anni hanno governato a fasi alterne il Paese.
Nonostante gli indicatori macroeconomici segnalino un miglioramento, le condizioni di vita del “coro greco” sono ancora molto difficili. La microeconomia, e di conseguenza le possibilità economiche della gente comune, rimangono pressochè bloccate a causa delle scioccanti misure di austerity imposte dalla troika. A dirigere fin dall’inizio l’orchestra dell’austerity è stato il ministro uscente delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, che mirava a punire la Grecia per mostrare al resto dell’Unione che i desiderata di chi tiene la bacchetta economica della Ue in mano vanno seguiti senza discutere. Pena l’espulsione. Ma non prima di aver di fatto appoggiato il saccheggio degli asset dello Stato greco da parte di società tedesche, come Fraport. Un esempio per tutti: l’acquisto in blocco a prezzo stracciato delle concessioni per la gestione dei 14 aeroporti interni greci.
A lucrare sulla miserrima condizione socio-economica e sulla corruzione endemica della classe politica greca hanno contribuito anche multinazionali di paesi esterni all’Unione. Come il gigante farmaceutico svizzero Novartis che ha corrotto, secondo la magistratura ellenica, i principali esponenti dei due maggiori partiti oggi finiti all’opposizione sopra citati. In cambio di cospicue tangenti all’ex primo ministro conservatore Samaras, all’ex vice premier ed ex ministro degli Esteri socialista Venizelos, al Commissario Ue all’’Immigrazione Avramopulos fino al governatore della banca centrale greca Stournaras e ad altri ministri e parlamentari, Novartis è riuscita a imporre i propri farmaci e ausili paramedici al sistema sanitario pubblico. Inoltre ha imposto anche l’aumento dei loro prezzi che fungono da parametro di riferimento per determinare i costi degli stessi medicinali negli altri paesi dell’Unione. Tra i quali l’Italia. Mentre la magistratura attende che il Parlamento decida se acconsentire o meno a togliere l’immunità ai parlamentari coinvolti per metterli sotto processo, proprio Stournaras – in qualità di governatore della Banca Centrale – ha recentemente diffuso previsioni economiche positive per l’anno in corso e soprattutto per il 2019. La luce in fondo a un tunnel lungo dieci anni.
Il Fatto 19.2.18
Grecia
Un popolo fiero tradito e trafitto nell’orgoglio
di Matteo Nucci
Una delle feste nazionali più importanti in Grecia cade il 28 ottobre. È il giorno del “Grande No”. Il No con cui Ioannis Metaxas nel 1940 rispose a Mussolini e alla sua pretesa di occupare militarmente il Paese. Nel nuovo millennio greco, invece, non esiste data più importante del 12 luglio 2015. La notte in cui Tsipras ha trasformato un altro “Grande No” in un drammatico Sì. La notte in cui l’attuale Premier sconfessò il risultato del referendum di una settimana prima in cui oltre il 60 per cento dei Greci aveva rifiutato il memorandum imposto dalla Troika, firmandone uno a condizioni ben peggiori del precedente.
La storia probabilmente ricorderà quella data come la fine della Primavera greca. Ma chi conosca bene il Paese sa che quel giorno si è perso molto di più. Non soltanto l’entusiasmo di una specie di vague che aveva fatto di Atene il centro del mondo occidentale, con tutte le speranze di cambiamento e nuove prospettive per l’intera Europa e il capitalismo occidentale tutto. Quel giorno i greci esterrefatti si sono ritrovati senza l’arma più grande con cui hanno vissuto la loro storia secolare: l’orgoglio. Bisogna tenere a mente due fatti che, con la loro potenza ideale, formano il Dna del greco moderno. Innanzitutto la dominazione turca durata oltre quattro secoli. Eppoi l’indipendenza, raggiunta nel 1827 e coronata nel 1832 dall’istituzione di una monarchia imposta dalle grandi potenze che scelsero per Atene un re bavarese: Ottone di Wittelsbach.
Un Paese dalla storia immensa fu dunque costretto a subire l’umiliazione di percepirsi come un Protettorato anche nel momento della più gloriosa indipendenza. L’orgoglio, tuttavia, ha continuato a formare il carattere greco. Il radicalismo antiamericano ne è stato una prova lampante nel secondo Novecento. Oggi, quell’orgoglio è ferito a morte. Autore del crimine il politico di sinistra che per dar seguito alle promesse fatte a Bruxelles ha sconfessato tutte quelle fatte al popolo, lasciando al Paese solo il senso dell’offesa. I numeri con cui le analisi macroeconomiche sanciscono una presunta ripresa non possono raccontare questa offesa. Tanto violenta da annichilire le illusioni di ogni generazione e ogni credo politico.
Ricordo perfettamente l’entusiasmo trasversale dei giorni che precedettero quel 12 luglio. Erano in pochi a non sentirsi fieri di poter di nuovo offrire una via all’Europa. Anche chi aveva votato Sì partecipava con speranza. Ricordo uomini e donne storicamente conservatori improvvisamente rapiti dal fascino di Yanis Varoufakis, massima incarnazione del No greco alla Troika. Notoriamente, nulla è peggio dell’umiliazione di un popolo orgoglioso nel momento della sua massima speranza. Quel che è venuto dopo infatti è stata la disillusione più profonda che ha conquistato tutti i segmenti sociali e politici del Paese.
Una perdita di prospettive radicale come potrebbe solo il radicalismo greco. La scorsa primavera, Atene ha accolto dOCUMENTA 14 la più grande manifestazione di arte contemporanea in Europa per la prima volta uscita dai confini di Kassel per “imparare da Atene”, come recitava lo slogan. Ma si trattava di uno slogan forgiato prima del luglio 2015. Quel che s’impara da Atene in questi anni è semmai la rabbia di chi è stato irriso, umiliato e calpestato per dimostrare la forza di un’Europa di cui nessuno cura più l’anima.
La Stampa 19.2.18
Namibia, la corsa ai diamanti arriva in fondo all’oceano
Giacimenti esauriti tra 15 anni, l’azienda De Beers inizia l’estrazione negli abissi
di Lorenzo Simoncelli
A forza di scavare sottoterra alla ricerca di pietre preziose in tutta l’Africa australe, anche la nota azienda mineraria De Beers si è resa conto che lo slogan lanciato nel 1999, «un diamante è per sempre», era alquanto fuorviante. Il governo della Namibia, dove la De Beers detiene numerose concessioni minerarie, ha annunciato che fra 15 anni le cave di diamanti saranno vuote.
Nel giro di vent’anni, dunque, il nuovo slogan si è trasformato in «un diamante non è per sempre». L’azienda, venduta dalla famiglia sudafricana Oppenheimer al colosso minerario Anglo American, lo ha capito ed è corsa subito ai ripari, spostando l’estrazione dalla terra al mare. Non più a temperature infuocate sotterranee, bensì a 150 metri di profondità nel gelo dell’oceano Atlantico al largo delle aride coste della Namibia. «I diamanti marittimi sono il nostro futuro» – ha detto Paulus Shituna, direttore commerciale della Namdeb, società divisa al 50% tra la De Beers ed il governo namibiano ed attiva nell’estrazione dei diamanti. Secondo la Namdeb, in futuro, il 95% dei diamanti immessi sul mercato verranno dal fondo degli oceani africani e grazie alla qualità superiore i prezzi saranno anche più elevati. Il Dipartimento di Scienze Biologiche di Città del Capo stima che, nonostante di dimensioni inferiori, le pietre preziose sarebbero di maggior valore perché prive di imperfezioni. Il prezzo dovrebbe passare da 187 a 528 dollari per carato.
«È in corso una lotta per accaparrarsi le licenze per le estrazioni sottomarine - ha detto Andrew Bloodworth, direttore del dipartimento minerario del British Geological Survey - perché molti Paesi hanno capito che la posta in palio è alta». Aziende private, ma anche governi nazionali. Nel 2017, le società minerarie coinvolte nell’estrazione di pietre preziose sottomarine, hanno fatturato oltre 600 milioni di dollari. L’ex primo ministro David Cameron ha investito molto sul rastrellamento oceanico di pietre preziose, valutando che avrebbe potuto fruttare al Regno Unito 40 miliardi di sterline nei prossimi 30 anni. Anche perché gli studi della società di consulenza Bain&Company parlano chiaro: nel 2019 la domanda di diamanti supererà l’offerta.
I picchi del 2006 in cui si sono estratti in tutto il mondo 177 milioni di carati sono lontani. Da anni la produzione si assesta intorno ai 144 milioni con trend negativo. È in questo panorama che la De Beers ha deciso di realizzare una flotta di navi capaci di sfruttare la nuova frontiera dell’industria mineraria. Costate 157 milioni di dollari l’una, lunghe più di 170 metri e con un personale a bordo di 80-100 persone, sono dotate di un trattore che viene immerso a 150 metri sotto il livello dell’oceano Atlantico e con bracci lunghi 20 metri iniziano ad estrarre il materiale roccioso. Un’enorme manica di gomma fa emergere in superficie 60 tonnellate di sedimenti all’ora. I detriti vengono setacciati sulla nave per separare il materiale non prezioso, rigettato in mare. Il primo processo di pulizia è a bordo, con estreme misure di sicurezza poi i diamanti vengono trasportarti via elicottero dalla nave fino a Windhoek, la capitale.
Solo così De Beers sarà in grado di raggiungere l’obiettivo di estrarre 1,2 milioni di carati all’anno per i prossimi 20 anni. Una visione lungimirante che risale al 1991, quando l’allora azienda sudafricana aveva investito a costi ridotti per l’acquisto delle licenze. Ad oggi, dei circa 6mila chilometri quadrati di concessioni a disposizione, infatti, solo il 3% del totale è stato esplorato. Non mancano le critiche da parte degli ambientalisti secondo cui sarebbe in corso una sorta di «land grabbing» marittimo, che starebbe nuocendo ai fondali oceanici africani e alle specie ittiche già a dura prova per la pesca estensiva. «È inutile nascondere che l’attività ha un impatto ambientale – ha detto Jan Nel, a capo delle operazioni di Debmarine, il braccio operativo della DeBeers nell’estrazione dei diamanti marittimi in Namibia –, la zona di perforazione è circoscritta a 200 metri di distanza dallo scavo, l’impatto è ridotto e meritevole se si pensa al numero di posti di lavoro creati e ai guadagni. per un Paese che rimane il terzo al mondo per disuguaglianza».