lunedì 19 febbraio 2018

ALCUNI SETTIMANALI

l’espresso 18.2.18
Così governa una buona sinistra
Cinque anni fa il Portogallo era quasi al default. Oggi cresce a ritmi record. Con un esecutivo socialista e comunista. Liberale in economia, ma con una politica sociale
Il merito non è soltanto dell’attuale esecutivo. Che però ha cambiato il clima, aumentato il salario minimo, ripristinato la tredicesima e gli scatti d’anzianità
di Stefano Vergine da Lisbona


Dalla terrazza di São Pedro de Alcântara, a Bairro Alto, Lisbona sembra un enorme cantiere aperto. Solo nella zona intorno ad Avenida da Liberdade, il grande viale alberato che taglia in due il centro città, si vedono almeno venti gru in movimento. Nuove case, centri commerciali, ristrutturazioni di strade, piazze, palazzi. L’impressione del visitatore è confermata dai dati ufficiali. I prezzi degli immobili nella capitale sono aumentati in un anno di quasi il cinque per cento. Una ripresa che riguarda più in generale tutta l’economia lusitana. Il prodotto interno lordo cresce a tassi invidiabili per parecchi Paesi della zona euro, la disoccupazione è ai minimi degli ultimi dodici anni, il deficit pubblico ha raggiunto il punto più basso dalla rivoluzione dei garofani del 1974. E pensare che poco più di cinque anni fa il Portogallo era stato costretto a chiedere il salvataggio della Troika per evitare il fallimento. Un’inversione di marcia che ha portato parecchi osservatori internazionali a vedere nella piccola nazione affacciata sull’Oceano Atlantico un esempio che tutta la sinistra potrebbe seguire. Perché la crescita coincide con l’arrivo al potere di Antonio Costa, il leader del partito socialista eletto al grido di “basta austerità”, che dopo due anni di governo ha addirittura aumentato i consensi evitando che a Lisbona i delusi dalla politica potessero farsi attirare dalle sirene del cosiddetto populismo, come invece sta avvenendo nel resto d’Europa. Il premier di origini indiane (una parte della sua famiglia vive ancora Goa, antica colonia lusitana) è stato l’artefice di un accordo politico inedito. Quello tra il partito socialista, liberale in economia, e due formazioni della sinistra radicale, il Bloco de Esquerda e la Coalizione democratica unitaria (Cdu), composta da comunisti e verdi. Un’alleanza stretta dopo i risultati delle ultime elezioni politiche, che si sono tenute nell’ottobre del 2015 e hanno visto il centrodestra - allora al governo - perdere voti ma ottenere la maggioranza relativa (il 38,5 per cento dei voti) mentre i socialisti crescevano al 32 per cento, il Bloco de Esquerda superava il 10 e il cartello verde-comunista Cdu si attestava all’8 per cento. Il centrodestra non aveva alleati per tornare al governo ed è stato a quel punto che Costa ha mostrato tutta la sua abilità politica, riuscendo a ribaltare gli equilibri e ottenere dal presidente della Repubblica l’incarico per formare un governo. Il 56enne avvocato di Lisbona guida oggi un esecutivo appoggiato esternamente dai due partiti della sinistra radicale: i comunisti e il Bloco de Esquerda non hanno ministri, ma votano quasi sempre le leggi proposte dai socialisti. La strana alchimia è basata su una doppia promessa: rispettare i vincoli di bilancio e cancellare alcune riforme dettate dalla Troika. Impegni mantenuti. Se da una parte il deficit è calato ben oltre la soglia fissata dall’Ue (il debito pubblico resta invece ancora altissimo), dall’altra parte Costa ha ristabilito la tredicesima e gli scatti d’anzianità per i dipendenti pubblici, reintrodotto alcuni giorni di festa nazionale, cancellato la sovratassa sui redditi personali, abbassato l’Iva al 13 per cento per molti prodotti alimentari, alzato il salario minimo garantito da 557 a 580 euro al mese. Le polemiche abbondano anche qui, con gli alleati che spesso contestano al premier l’incapacità di varare cambiamenti radicali come l’aumento delle pensioni e dei redditi da lavoro. Ma la coalizione tiene, a smentire la vecchia abitudine delle sinistre - incluse quelle italiane - a litigare su tutto e a sfasciarsi appena arrivano al governo. Risultato: alle elezioni comunali dello scorso ottobre i socialisti hanno ottenuto la miglior performance di sempre, 38 per cento dei voti, quasi 6 punti in più rispetto a due anni prima. Tendenza che, se dovesse proseguire, potrebbe permettere a Costa di ottenere alle prossime legislative (2019) abbastanza consensi per governare anche da solo. I meriti dell’attuale miracolo, tuttavia, non sono ascrivibili interamente all’attuale governo. Per capirlo bisogna tornare indietro di qualche anno. Aprile 2011: dopo due trimestri consecutivi di decrescita, il Portogallo entra ufficialmente in recessione. La disoccupazione supera il dieci per cento, il rapporto deficit/pil oltrepassa di quasi quattro volte il tetto fissato dall’Unione europea, Lisbona rischia di non riuscire più a rifinanziare i propri debiti. Per questo il governo dell’epoca, guidato dall’allora leader dei socialisti Jose Socrates, chiede aiuto a Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale. La Troika acconsente a prestare 78 miliardi di euro al Portogallo in cambio di una serie di riforme tra cui la privatizzazione di alcune aziende, l’innalzamento dell’Iva, il taglio della tredicesima e degli scatti d’anzianità per i dipendenti pubblici, la riduzione della durata dei sussidi di disoccupazione da tre anni a 18 mesi. È la ricetta standard già applicata in Grecia e Irlanda. A fare inghiottire l’amara pillola non è però il governo socialista, perché poco dopo la firma dell’accordo le elezioni decretano un nuovo premier: il leader del centrodestra Pedro Passos Coelho, che resta in carica sino alla fine del 2015. A inizio 2013, quando il centrodestra è ancora al governo, arrivano i primi segnali positivi. Da allora in poi il miglioramento è praticamente continuo, trasformandosi in crescita sostenuta da quando Costa diventa primo ministro. Lo scorso gennaio, quando gli hanno chiesto di spiegare i fattori che stanno trainando l’attuale ripresa, il ministro dell’Economia Manuel Caldeira Cabral ha risposto così: l’aumento del turismo «è una storia già conosciuta», mentre «meno noto è che stiamo crescendo a tassi superiori al 20 per cento nell’export di prodotti agricoli e sopra il 15 per cento in quello di automobili, aeronautica, meccanica e software». La causa principale del boom turistico è piuttosto semplice. Gli atti terroristici in nome di Allah hanno reso pericolose agli occhi di molti mete tradizionali come Egitto e Tunisia, ma anche parecchie capitali europee, mentre il Portogallo finora non è mai stato teatro di violenze simili. Le ragioni dell’aumento delle esportazioni sono invece collegate direttamente alla crisi economica. Nel 2011, quando è stato approvato il salvataggio, l’export rappresentava il 40 per cento del Pil, mentre ora siamo arrivati al 50 per cento. Insomma, il “made in Portugal” si è rafforzato durante la recessione. Almeno questo è quanto sostiene Pedro Santa Clara, docente di Finanza alla Nova School of Business and Economics, ateneo pubblico tra i migliori al mondo secondo varie classifiche del settore, spiegando che dietro la crescita dell’export c’è il parallelo miglioramento dell’economia mondiale, i bassi prezzi dell’energia (il Portogallo, come l’Italia, è un importatore netto di gas e petrolio), la politica monetaria adottata dalla Bce per favorire il credito bancario verso imprese e cittadini. L’aspetto essenziale sono però i salari, tiene a sottolineare Santa Clara: «I nostri erano già tra i più bassi d’Europa, con la crisi si sono ridotti ulteriormente. E così vendere all’estero è diventato più facile per gli imprenditori che hanno avuto il coraggio di spingersi oltreconfine». Caschetto antinfortunistico e giubbino giallo fluorescente, il professore ci accoglie in un cantiere di Carcavelos, paesino a metà strada fra Lisbona e Cascais. Un altro simbolo del periodo di grazia lusitano. Qui, a pochi metri dal punto in cui il fiume Tago sbocca nell’Atlantico, sta infatti nascendo un nuovo campus dedicato a 600 studenti, in maggioranza stranieri, interessati ad approfondire i temi dell’economia digitale. «È un progetto da 50 milioni di euro, realizzato grazie alle donazioni di aziende come Microsoft, Cisco, Nestlé, Accenture e molte altre», racconta Santa Clara, che punta a trasformare Milano per ragioni di cuore, professore associato di Informatica all’università Nova Information Management School, dice di non essere sorpreso da tutto questo interesse: «Investire qui vuol dire puntare su una nazione europea dove i costi sono bassi, la qualità della vita è alta, la maggior parte della gente parla inglese e la preparazione dei neo-laureati è buona. Certo», aggiunge, «in Italia gli studenti sono in media più bravi, ma un portoghese che esce dall’università è più abituato al mondo del lavoro: qui, tanto per fare un esempio, si può sostituire la tesi con uno stage presso un’azienda, perciò quando si ottiene la laurea spesso si è già inseriti nel mercato». Secondo Pacheco Pereira, ex vice presidente del Parlamento Europeo, per anni deputato socialista e amico personale del premier, «le politiche del governo attuale non sono poi così diverse rispetto a quelle degli ultimi anni, ma per capirne il successo bisogna guardare un il suo Paese nella «California d’Europa perché - dice - da noi si può studiare e poi andare in spiaggia, godere del buon cibo e di infrastrutture moderne. E si può fare tutto questo a prezzi molto abbordabili». Ad accorgersene non sono stati solo i pensionati di mezzo mondo, attirati nella patria di Magellano da una legge (del 2009) che per dieci anni garantisce la totale esenzione fiscale sul reddito. Negli ultimi tempi anche parecchie multinazionali hanno deciso di scommettere sul Portogallo. Investimenti privati che hanno spinto al rialzo il Pil nazionale senza costringere il governo ad aumentare la spesa pubblica. È il caso della tedesca Daimler, l’azienda della Mercedes, che meno di un anno fa ha aperto a Lisbona una sede con 100 dipendenti dedicati allo sviluppo di prodotti digitali. Della pattuglia di imprese attirate nella culla del fado fanno parte anche Huawei e Fujitsu, Microsoft e Uber, Vestas, Zalando, Renault, Bosch e Siemens. Alcune hanno assunto personale per far fronte alle richieste del mercato, altre hanno aperto nuove sedi rivolte ai mercati internazionali. Come Google, che secondo quanto annunciato il mese scorso dal premier Costa inaugurerà a Oeiras un centro tecnologico con 500 ingegneri dedicati ai mercati di Europa, Medio Oriente e Africa. Lorenzo Vanneschi, trasferitosi qui sette anni fa da altro aspetto». Pereira lo spiega passeggiando sul selciato della Lx Factory, un vecchio complesso industriale alla periferia di Lisbona trasformato in un centro artistico alla moda. «Ciò che è cambiato con questo governo è soprattutto il linguaggio politico: non si dice più alla gente che viviamo al di sopra delle nostre possibilità, non si parla più della necessità di fare sacrifici. Ed è soprattutto questo a fare la differenza». Le analogie tra l’Italia di oggi e il Portogallo di due anni fa sono tante, ma c’è anche una differenza eclatante: l’assenza di un partito populista, un movimento anti-establishment capace di raccogliere consensi. Federico Santi, analista politico italiano che per conto della società di consulenza americana Eurasia Group segue con attenzione quanto avviene nei Paesi del Mediterraneo, fa notare un particolare: «Fino a prima di diventare di fatto parte del governo, i due partiti portoghesi di estrema sinistra erano euroscettici, i comunisti facevano campagna per l’uscita dall’euro. Poi Costa li ha portati dalla sua parte, ha neutralizzato la loro rabbia e ora i loro consensi sono stabili, mentre quelli dei socialisti crescono». Potrebbe succedere anche in Italia? «Difficile», ragiona Santi, «ma di certo Renzi è stato meno fortunato, i tempi non sono stati dalla sua parte. In Italia la situazione economica sta iniziando a migliorare solo ora».

internazionale 18.2.2018
Esperimento
di Giovanni De Mauro


In Brasile la Folha de S.Paulo, il più grande quotidiano del paese, smetterà di condividere i suoi articoli su Facebook. La prima ragione è che da quando Facebook ha cambiato l’algoritmo che decide con quale frequenza compaiono i post sulle pagine degli utenti, sono sempre di meno le persone che arrivano sul sito del quotidiano passando dal social network. E questo sta succedendo alla gran parte dei mezzi di informazione di tutto il mondo. La seconda ragione è che su Facebook è aumentata la visibilità dei siti di notizie false. “Facebook è diventato un terreno inospitale per chi vuole offrire contenuti di qualità”, ha scritto Sérgio Dávila, direttore del quotidiano.
In Danimarca la rete televisiva Tv Midvest, che deve il 40 per cento delle visite sul suo sito ai social network, ha smesso per due settimane di pubblicare contenuti su Facebook. Com’era prevedibile, i visitatori sono diminuiti del 27 per cento e le pagine viste del 10 per cento. Ma la sorpresa è stata che i visitatori rimasti hanno passato il 42 per cento del tempo in più sul sito e hanno visitato il 12 per cento in più di pagine. “È stato un test che ci ha aperto gli occhi”, ha detto Nadia Nikolajeva, dirigente della rete. Ma l’esperimento non è finito qui: Tv Midvest ha anche chiesto a quattro utenti – uno studente, un politico, un imprenditore e un manager – di smettere per un po’ di usare Facebook. L’obiettivo era capire in che modo riuscivano a informarsi senza i social network. Intervistati alla fine dell’esperimento, i quattro hanno detto che gli sono mancate le interazioni con gli altri utenti, ma che si sono sentiti più informati. Nel Regno Unito una commissione parlamentare ha incontrato i rappresentanti delle grandi aziende tecnologiche statunitensi, tra cui Facebook, per capire come fermare la diffusione di notizie false. La risposta potrebbe essere, tanto per cominciare, fare tutti l’esperimento dei quattro utenti danesi.

internazionale 18.2.2018
Parole
L’isola afollata
di Domenico Starnone


Ogni tanto si sente dire: è un caso isolato. Il caso è in genere dei più orribili: ci fa ribrezzo, ci fa rabbia, la notte dormiamo male. Ma ecco che dai formulari che custodiamo nella memoria viene fuori l’immagine di un’isola sperduta nell’oceano e il caso lo collochiamo lì, lontano – come si dice – dagli occhi e dal cuore. Questa operazione ci dà più sollievo che ingoiare un tranquillante. Infatti, una volta isolato il caso, prendiamo subito sonno. Unico problema è che così la coscienza diventa sempre meno vigile e a forza di isolare casi non si accorge che l’isola si va pericolosamente affollando. Tanto per capirci la via che porta ad Auschwitz è lastricata di casi isolati. Casi isolati sono state le aggressioni con goliardici aperitivi all’olio di ricino. Casi isolati sono stati all’origine di massacri spaventosi. Casi isolati hanno preparato le guerre mondiali. E non sono stati casi isolati le atomiche su Hiroshima e Nagasaki? Così isolati che negli ultimi tempi c’è sempre più voglia di toglierli dall’isolamento e riprovarci. Di conseguenza la cosa migliore è non considerare alcun caso un caso isolato, ma tenere gli occhi aperti e coltivare il pensiero che ogni ferocissimo disprezzo per la vita altrui e perino per la propria, sia che venga da coloro che sentiamo lontanissimi, sia che venga da quelli che avvertiamo come vicini, è un segnale di pericolo, è il tassello possibile di un mondo disumano.

“... un assoluto disprezzo della democrazia...”
internazionale 18.2.2018
Come un colpo di stato
Ad agosto scade l’ultimo dei piani di salvataggio imposti alla Grecia a partire dal 2010. La sovranità del paese è stata azzerata, la situazione sociale è disastrosa e la fine della crisi è ancora lontana
di Edward Geelhoed, De Groene Amsterdammer, Paesi Bassi.


Non c’è niente di più surreale che girare per Atene pensando ai rapporti della troika (il gruppo formato da Commissione europea, Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea). Davanti all’Evangelismos, il più grande ospedale greco, la fila per il pronto soccorso si vede da lontano. All’interno c’è una temperatura di trenta gradi e c’è chi aspetta anche sei ore in una sala soffocante. Vecchie ambulanze arrivano e ripartono. La troika ha scritto nei suoi memorandum: “Noi proteggiamo i più deboli”. Ma negli ultimi anni il bilancio di questo ospedale si è più che dimezzato. Manca tutto, in particolare gli infermieri. In Grecia ne servirebbero trentamila, ha dichiarato di recente il ministero della salute. Ogni infermiera si occupa di una cinquantina di pazienti, di notte circa ottanta, e molte si ammalano a causa dei lunghi turni di lavoro. Nei corridoi passano albanesi sudati con il marsupio che distribuiscono biglietti da visita. Fanno da intermediari per chi vuole affittare un televisore o un’ambulanza privata. O un’infermiera privata, “esperta, affidabile e greca”. Per cinquanta euro ti assiste per mezza giornata, per venti ti aiuta a fare la doccia. In realtà si tratta di donne georgiane o bulgare che prima della crisi lavoravano come ragazze alla pari e ora si arrangiano, in nero e senza diploma. “Chi se la può più permettere, un’infermiera?”. Stathis avanza a piccoli passi nell’atrio dell’ospedale con la sua  flebo. Poco più avanti una busta passa di mano, la donna con l’accento straniero conta le banconote, quella greca piange. “Due o tre anni fa avevamo ancora qualche risparmio”, dice Stathis, “ora non resta più niente. Non è colpa degli albanesi, è stata la troika a creargli un mercato”. Ogni tanto la polizia arriva e arresta le infermiere irregolari. A volte anche i neonazisti di Alba dorata controllano i passaporti. un quarto dei greci ha perso la copertura sanitaria. Eppure due anni fa la Commissione europea scriveva: “Il governo greco deve garantire a tutti l’accesso alla sanità, anche a chi non è assicurato” e “una società più giusta richiede un sistema di assistenza sociale”. Negli ospedali mancano lenzuola, garze e medicinali. Il numero di aborti clandestini è in forte aumento, la psichiatria è stata praticamente cancellata. Il 20 marzo del 2017 l’ospedale di Volos ha esaurito il suo budget mensile e ha cominciato a rifiutare i malati di cancro. su ordine del ministero, che secondo la troika dev’essere più “parsimonioso”. Le infezioni sono sempre più frequenti, e girano un sacco di racconti su interventi di routine finiti con la morte dei pazienti. I medici migliori sono partiti per l’estero. Questa è la Grecia sette anni dopo l’arrivo della troika. È un declino senza fine, con conseguenze drammatiche: migliaia di persone sono morte di una morte evitabile, riconducibile alle politiche di austerità. Ma nonostante tutto c’è aria di rassegnazione. Dopo che Syriza, il partito del premier Alexis Tsipras, è stato messo in ginocchio nel luglio del 2015, la protesta si è spenta. Le manifestazioni sono finite, la rabbia si è trasformata in disperazione, molti si sono chiusi in casa. Le notizie sulla Grecia sono sparite dai mezzi d’informazione internazionali, ma la crisi c’è ancora. Com’è riuscita la troika a fare tutto questo? Si sente spesso parlare di “abuso di potere”, ma com’è andata esattamente? Quali sono gli interessi in gioco? Come valuta le sue scelte la troika stessa quando si guarda indietro?
A queste domande non c’è nessuna risposta. Il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca centrale europea (Bce) e l’ex presidente dell’eurogruppo Jeroen Dijsselbloem hanno respinto ogni richiesta di chiarimento. solo Matthias Mors, per anni rappresentante della Commissione ad Atene, aveva accettato di parlare. Anche se non è più in servizio, ha dovuto chiedere il permesso a Bruxelles, e gli è stato rifiutato. La troika, a quanto pare, preferisce lavorare dietro le quinte. Non deve rendere conto ai cittadini, ha un potere immenso e incontrollato. In Grecia invece la volontà di chiarire c’è. Questa inchiesta porta ai ministeri greci delle finanze e del lavoro e all’eurogruppo, dove la troika esercita il suo massimo potere. Parlare con gli interessati aiuta a farsi un’idea della situazione: quello in corso in Grecia dal 2010 non è altro che un progressivo colpo di stato, un golpe europeo mascherato. Prima le banche
È cominciato tutto alla fine del 2009.
Il governo dei socialisti del Pasok si trovò alle strette a causa di un deficit di bilancio del 13 per cento (ereditato dai conservatori di Nea dimokratia). I mercati finanziari chiedevano interessi da usura per i prestiti di cui lo stato greco aveva bisogno per pagare i suoi debiti. si profilava la minaccia di un fallimento, e la cancelliera tedesca Angela Merkel si rifiutava d’intervenire. Solo quando le banche tedesche e francesi rischiarono il crollo a causa delle decine di miliardi di euro prestati alla Grecia, Berlino e Parigi decisero di muoversi. Un secondo giro di aiuti alle banche finanziato dalle tasse francesi e tedesche non era giustificabile, così nacque la troika: la Commissione europea, la Bce e l’Fmi avrebbero salvato la Grecia. stilarono una procedura in base alla quale i soldi arrivavano ad Atene e tornavano subito ai creditori. Nel frattempo veniva raccontata la storia dei “greci scialacquatori”, che non era del tutto falsa ma nascondeva il fatto che erano state le banche a essere salvate, non la Grecia.
Una ricerca dell’istituto tedesco Esmt mostra che il 95 per cento dei 216 miliardi di euro dei primi due pacchetti di emergenza andò al pagamento di debiti e interessi, all’Fmi e alle banche tedesche, francesi ed elleniche, mentre lo stato greco ottenne una percentuale minima. Il terzo accordo ha funzionato allo stesso modo: gli 8,5 miliardi di euro sbloccati dalla troika a giugno del 2017 non sono finiti “ai greci”, ma soprattutto all’Fmi e alla Bce. Per “guadagnarseli” Atene ha dovuto tagliare le pensioni per la tredicesima volta. Allo stesso tempo, secondo una stima del Leibniz institute for economic research, fino al 2015 Berlino ha risparmiato qualcosa come cento miliardi di euro in interessi sui titoli di stato perché gli investitori cercavano in Germania un porto sicuro e vi depositavano il proprio denaro a tassi molto bassi. La Bce ha guadagnato più di otto miliardi di euro grazie agli interessi greci, l’Fmi più di tre miliardi.
La Grecia è continuamente costretta ad accettare tagli tramite un “waterboarding finanziario”, come lo ha definito l’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis. Il ricatto funziona così: il governo greco deve pagare i debiti e cerca di mitigare le richieste troppo dure della troika. La troika rifiuta, il tempo passa, la bancarotta si avvicina e alla fine Atene accetta tutte le richieste, per quanto impossibili, e la troika versa parte del denaro. È quello che successe nel luglio 2013, quando Dijsselbloem bloccò una tranche da due miliardi di euro perché Atene aveva soddisfatto solo 21 delle 22 condizioni. L’obiettivo non rispettato era il licenziamento di 4.200 funzionari: sulla lista fornita dal governo c’erano solo 4.120 nomi. Il ministro dell’istruzione voleva risparmiare gli insegnanti che avevano ottenuto un master. Quando furono mandati a casa anche loro, i soldi furono versati. La troika aveva presentato la sua politica nei minimi dettagli in tre memorandum, tutti in inglese, che di fatto esautoravano completamente il governo greco. Nel 2010 i ministri greci ammisero di non aver avuto il tempo di leggere il primo corposo documento prima di firmarlo. Per quanto riguarda il terzo accordo, nel 2015, il parlamento ebbe un giorno e mezzo di tempo per accettare 977 pagine di legislazione senza cambiare neanche una parola. Il parlamento greco non ha più nessuna autonomia. se prende da solo qualche decisione viene accusato di “agire unilateralmente”, e questo è vietato. Quando Syriza voleva dare buoni alimentari ed energia elettrica ai più poveri, la troika ha mandato un’email: “Non fatelo”. Se il governo non rispetta ogni desiderio della troika, il prestito non arriva: è questo il colpo di stato silenzioso, e l’asservimento di Syriza è un golpe minore al suo interno. Varoufakis ha raccontato che una volta chiese all’allora ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble: “Lei accetterebbe questo accordo?”. Dopo un attimo di silenzio, Schäuble rispose: “No, sarà terribile per i vostri cittadini”. Varoufakis: “E allora perché mi costringe ad accettarlo?”. Schäuble: “Non capisce? L’ho già fatto in Irlanda, in Portogallo e negli stati baltici. A noi interessa la disciplina, e io voglio portare la troika a Parigi”.
È un’idea che Varoufakis ha sentito spesso: tutto ruota intorno a Parigi e Roma. La Grecia serve da spauracchio, da “laboratorio di crudeltà”. La troika e i paesi dell’eurozona agiscono in base a un intreccio d’interessi. Al centro ci sono le banche e il controllo sull’Europa meridionale, ma anche ideologia, profitto economico e il rifiuto di ammettere gli errori. E sete di vendetta.
Nel 2010 Timothy Geithner, allora ministro delle finanze statunitense, aveva partecipato a una cena con i leader europei e aveva origliato alcuni discorsi: “Daremo una bella lezione ai greci”, “Ci hanno mentito, li stritoleremo”. Naturalmente c’è molto da rimproverare ai governi greci. Nepotismo e corruzione abbondavano già prima dell’intervento della troika, anche nella società: famiglie che continuavano a riscuotere la pensione di un parente defunto, persone che si fingevano cieche per ricevere sussidi. Ma queste cose non succedevano solo in Grecia, e non si può parlare di una “società colpevole”.
In un’intervista a distanza – è continuamente in viaggio per promuovere il suo nuovo partito, Diem25 – Varoufakis afferma: “Come insegna Shakespeare, se vuoi nascondere un misfatto devi compierne un altro e un altro ancora, fino a intrecciare una tela assurda e confusa. È così che è cominciata anche questa vicenda. Con il primo salvataggio Berlino e Parigi misero al sicuro le loro banche, senza pensare al futuro. Ma poi scoprirono che per avere il consenso dei parlamenti dovevano essere dure con i greci. Così la Germania chiese la partecipazione dell’Fmi, il despota dei paesi poveri, per imporre tagli senza precedenti. Quando gli analisti dell’Fmi informarono i loro capi che il risultato sarebbe stato una nazione fallita, si sentirono rispondere di stare zitti e di mettere per iscritto il ‘giusto’ esito”.
Nel 2012 l’economia greca aveva già perso quasi un quarto del suo valore. “La troika fu presa dal panico”, ricorda Varoufakis. “Per nascondere gli errori emise un secondo prestito e creò una piccola ondata speculativa che definì ‘il successo greco’ per fingere che il programma funzionava. Se qualcuno osava dissentire, la troika diceva che era stata Atene a non applicarlo bene, tirando in ballo le pensioni generose, i lavoratori indegni, la corruzione e altre mancanze, che certamente esistono ma che in quel caso non c’entravano niente”. Quando i telegiornali annunciarono il “salvataggio greco”, Harald Schumann capì che in gioco c’era ben altro.
Schumann si occupava di finanza per il quotidiano tedesco Der tagesspiegel fin dal crollo della Leh man Brothers, e sapeva che in Grecia erano in ballo miliardi di euro tedeschi: in realtà erano le banche tedesche che venivano salvate. “Quando lo scrissi fui subito definito un complottista.
Un nazionalismo emotivo investì la stampa tedesca, che ancora oggi segue fedelmente la linea del governo. Un mistero”.
Per il documentario Trail of the troika, Schumann intervistò Jörg Asmussen (Bce), Albert Jäger (Fmi) e Thomas Wieser (eurogruppo). Quando chiedeva spiegazioni sul fallimento o prove della ripresa greca, otteneva solo frasi di rito o negazioni, da “la vedo diversamente” a “no comment”. “È la mentalità del tecnocrate: conta solo la dottrina di mercato”, dice Schumann. “Anche quando l’Fmi ammise di aver quantificato in maniera errata i tagli, la troika non cambiò una virgola del suo programma. A queste persone la miseria dei greci non interessa, si spostano tra hotel e sale riunioni e non vedono nient’altro”. La presa di potere della troika in Grecia non è giustificata da nessun trattato europeo, sottolinea Schumann: “C’è un assoluto disprezzo della democrazia. A luglio del 2015 il sociologo tedesco Jürgen Habermas disse che Angela Merkel ‘aveva svenduto in una notte mezzo secolo di diplomazia tedesca’.
Ma anche nel mio giornale il mito della troika resiste. Di recente la caporedattrice politica è stata in vacanza in Grecia e quando è tornata mi ha detto che non aveva visto neanche un bambino moribondo. Cosa gli è preso a queste persone ‘autorevoli’?”.
Io non pago
Da anni ogni mercoledì alle quattro davanti al tribunale di Atene si compie un rituale. I militanti del movimento Den plirono (io non pago), guidato da Leonidas Papadopoulos e da suo fratello Ilias, bloccano la porta dell’aula con uno striscione lungo diversi metri, su cui è scritto “Neanche una casa in mano ai banchieri”. Il loro obiettivo è respingere i notai che arrivano in tribunale per partecipare alle aste giudiziarie. Leonidas indica un angolo lontano dove otto o nove “corvi” aspettano seduti sulle panchine. “Di qua non passano!”, tuona. Il gruppo circonda i notai e gli urla in faccia: “Andatevene!”. I fratelli barbuti prendono per il braccio due donne e le spingono verso l’uscita. Loro ubbidiscono senza fare resistenza. La campagna contro le aste è riuscita. “Qui non è stata venduta neanche una casa”, dice Leonidas. “Ne abbiamo salvate dodicimila”. Molti proprietari non riescono più a pagare l’ipoteca, “ma avere una casa non è immorale, è un diritto di tutti”, affermano i militanti. Le banche greche sono in grande difficoltà con i mutui. La Bce vuole sistemare i bilanci raccogliendo quaranta miliardi di euro, e le aste sono la soluzione. Un militante di Den plirono, Nikos, tiene d’occhio i notai. È disoccupato e ha un tumore ai polmoni, le sue entrate sono pari a zero. Per un po’ ha vissuto al buio, finché Leonidas non gli ha riallacciato illegalmente l’elettricità. “Due corvi al bar!”, esclama Nikos all’improvviso. Stanno cercando di vendere una casa di nascosto, anche se è vietato. “Prendiamoli!”, grida Leonidas. I militanti fanno irruzione nel locale e si avventano contro una signora bassa, grassottella e incipriata, che per tutta risposta scaraventa uno di loro contro il bancone. In un attimo la donna si ritrova fuori con le spalle al muro, circondata dai poliziotti. In silenzio ascolta le accuse di Leonidas, con la testa girata dall’altra parte. Alla fine una macchina della polizia porta via la notaia, e il gruppo la segue. Alla centrale Leonidas vorrebbe sporgere denuncia per asta illegale. Ma presto le vendite si sposteranno su internet e i notai non avranno più problemi.
La troika vuole raggiungere 27mila aste in due anni, e Syriza è costretta a liberarsi di Den plirono autorizzando le aste online. Non è detto che funzioni: con la crisi le vendite delle case sono diminuite del 90 per cento e i prezzi sono crollati. “Le famiglie cominceranno a ritrovarsi per strada”, dice Leonidas. “A quel punto la resistenza pacifica finirà e usciranno fuori le pistole. Forse interverremo durante gli sgomberi, ma io preferisco irrompere negli uffici dei notai. È proprietà privata, ma anche le case lo sono”.
La grande svendita
In Grecia la corruzione è ancora molto diffusa, ma ora è alimentata dalla troika. Il fenomeno coinvolge gli oligarchi, i mezzi d’informazione, le banche e i vecchi partiti di governo. Sono tutti legati tra loro: i grandi imprenditori del settore edile e navale possiedono i giornali e le emittenti che difendono il Pasok e Nea dimokratia. In passato i ministri offrivano in cambio agli oligarchi leggi favorevoli e grandi progetti. Sono stati bloccati perfino dei procedimenti legali. La politica e i grandi imprenditori ricevevano prestiti dalle banche, che avevano mano libera. Syriza invece era fuori dal sistema. Quando è arrivata al potere era pulita e voleva mettere fine al clientelismo.
Sulla carta la troika aveva lo stesso obiettivo, ma l’allora presidente dell’eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, disse che Syriza non era il partito giusto per combattere la corruzione. Nella primavera del 2010, all’epoca del primo accordo, la Grecia aveva più di cinquanta tra quotidiani e settimanali. La maggior parte era in perdita, ma questo non era un problema per i ricchi proprietari, perché garantivano influenza politica. sui mezzi d’informazione si trovavano solo lodi alla troika. In occasione del referendum sul piano di salvataggio del luglio 2015, lo schieramento favorevole all’accordo con la troika ottenne sei volte più spazio rispetto a quello per il no. Gli oligarchi sostennero la troika senza indugio, e la ricompensa non si fece attendere.
Il giornalista investigativo Nikolas Leontopoulos spiega che ogni anno la troika fa un’eccezione: “Gli accordi prevedono una tassa del 20 per cento sulle inserzioni pubblicitarie, ma finora non è mai stata introdotta, è stata l’unica eccezione”. Gli oligarchi non hanno pagato le loro licenze televisive, cosa che il consiglio di stato greco ha definito illegale. Ma la troika è rimasta a guardare.
Oligarchia è una parola greca, significa “governo dei pochi”. La Grecia era già in mano agli oligarchi, ma il sistema è stato consolidato nel maggio del 2016, quando il parlamento ha accettato, dopo il solito ricatto, la creazione del superfondo preteso da Schäuble, che mette all’asta quasi tutte le proprietà statali. Nel catalogo digitale ci sono porti turistici, aeroporti, spiagge, isole, aziende dell’acqua e del gas, castelli e ville, uffici postali, centri scommesse, viadotti, ferrovie, sorgenti termali, stadi, tutto in saldo. Sulla carta l’obiettivo del fondo di privatizzazione è garantire “un ricavo il più alto possibile per lo stato greco”. I memorandum affermano che “la vendita rapida a prezzi stracciati” non dovrebbe essere incoraggiata, ma è proprio quello che sta succedendo. Tsipras aveva ottenuto che un quarto del ricavato fosse destinato agli investimenti, ma in una versione successiva questa clausola è stata silenziosamente cancellata. Per la troika l’importante è ottenere un avanzo primario di bilancio (cioè prima del pagamento degli interessi), perché “i paesi creditori come la Germania vogliono rivedere i loro soldi”, scrive Joseph Stiglitz in L’Euro (Einaudi 2017). Solo con quel surplus Atene può man mano saldare i propri debiti, considerato che la troika pretende anche che le entrate superino le uscite del 3,5 per cento, una cifra insolitamente alta. Queste condizioni soffocano inevitabilmente l’economia, ma a Berlino, Parigi, L’Aja e Washington sono soddisfatti.
Nel frattempo il porto del Pireo è stato acquistato da un’azienda statale cinese e le ferrovie greche dalle Ferrovie dello stato italiane, in entrambi i casi per una cifra bassissima. Anche la Germania ha avuto la sua parte: l’azienda pubblica Fraport ha rilevato quattordici aeroporti regionali. Syriza si era opposta alla vendita, ma poi Berlino l’ha fatta inserire nel terzo memorandum. Fraport ci ha guadagnato miliardi di euro.
La maggior parte dei vantaggi va comunque agli oligarchi. Dimitris Melissanidis, per esempio, ha rilevato insieme a un consorzio greco-ceco l’Opap, l’azienda statale delle scommesse, per due terzi del valore di mercato. Non c’era alcun motivo di vendere, dato che l’Opap era in attivo. Poco dopo il responsabile della privatizzazione, Stelios Stavridis, è stato costretto a dimettersi perché era volato sull’isola di Cefalonia con l’aereo privato di Melissanidis. Per un anno e mezzo Syriza si è battuta contro la vendita del vecchio aeroporto Ellinikon di Atene a Spiros Latsis, il più grande imprenditore del paese, proprietario dell’Eurobank (la cui ricapitalizzazione era già costata allo stato greco 13,3 miliardi di euro). L’aeroporto sulla costa egea ospitava un campo profughi, sgomberato di recente. Latsis vuole trasformare l’area in una città privata di lusso, con un hotel a sette stelle. Anche in questo caso la troika ha minacciato di bloccare una tranche da 7,5 miliardi di euro se Ellinikon non fosse stato privatizzato in fretta e Tsipras ha firmato. Il prezzo pagato è stato 915 milioni di euro, circa un terzo del valore reale. La troika ha avuto un ruolo discutibile anche nella vendita di 28 edifici di stato (ministeri, commissariati di polizia, uffici delle imposte), alcuni dei quali alla Eurobank di Latsis. Il governo greco ha ricevuto 260 milioni di euro e ha preso in affitto gli stabili per vent’anni, arrivando a spendere più di quanto ricavato. Il danno stimato è di seicento milioni di euro. I dirigenti del fondo di privatizzazione godono dell’immunità: una decisione della troika con valore retroattivo, nascosta in un voluminoso dossier intitolato “Misure per la crescita dell’economia greca”. Gli inquirenti hanno quindi spostato l’attenzione su sei consulenti, fra cui tre membri del gruppo di lavoro dell’eurogruppo: uno spagnolo, uno slovacco e un italiano. Il processo è cominciato, ma secondo il quotidiano greco Kathimerini durante la riunione dell’eurogruppo del 24 maggio 2016 Dijsselbloem ha gridato al ministro greco: “Questo è inaccettabile!”. Una settimana dopo la Commissione europea ha minacciato di bloccare una tranche del prestito se lo spagnolo, l’italiano e lo slovacco non fossero stati prosciolti. Il giorno stesso è arrivata l’assoluzione. Leontopoulos ha scoperto che un mese dopo la troika ha aggiunto un paio di frasi a una legge sul crimine informatico, ancora una volta ben nascoste: da quel momento nessun esperto o consulente era più imputabile. “La troika non deve rendere conto a nessun parlamento”, dice Leontopoulos, “e a nessun tribunale”.
Tutto e subito
“Noi riduciamo la disuguaglianza”, scrive la troika. Nel 2017 l’istituto tedesco Imk ha reso noto che nei primi anni della crisi le imposte sui redditi greci più bassi erano aumentate del 337 per cento, contro il nove per cento di quelle sui più alti. Poi si è aggiunto l’11 per cento dell’iva, e ora anche le imprese individuali devono versare le tasse in anticipo. Le tasse arretrate ammontano a novanta miliardi di euro. Quasi un greco su due deve al fisco somme fino a cinquemila euro. “Quanto basta per distruggere le loro vite”, dice Nadia Valavani, che se n’è occupata in qualità di viceministra di Varoufakis. “Migliaia di persone sono finite in cella per questo motivo, ma noi avevamo introdotto una modifica”. Per rendere l’estinzione di questi debiti più sopportabile fu stabilito che si potevano pagare in cento rate: venti, trenta euro al mese erano cifre più ragionevoli. “La troika aveva un’avversione per le rate”, dice Valavani, “insisteva sulla ‘consapevolezza fiscale’. Se non paghi tutto subito perdi anche la casa e altre minacce del genere. Per loro il pragmatismo non esiste”. Valavani tirò avanti per la sua strada. Il suo programma ottenne un milione di adesioni, per un totale di 7,5 miliardi di euro. “Mi dicevano che avevano ricominciato a respirare. Ma con il terzo accordo la troika ha abolito la norma”. Le classi più ricche invece possono contare sull’indulgenza della troika per i loro “peccati fiscali”.
Il 1 gennaio 2017 è nata l’Autorità indipendente per le entrate pubbliche, nel cui comitato direttivo siede un rappresentante della Commissione europea. In caso di divergenze sulla legislazione fiscale è l’autorità a decidere, non il ministro. La vigilanza del governo è impedita. “Passo dopo passo viene cancellata ogni forma di potere decisionale greco”, dice Valavani, che definisce l’autorità per le entrate una “macchina di riciclaggio per una frode miliardaria”. Secondo l’ex viceministra la troika ha preso il posto di Nea dimokratia come protettrice dei ricchi. “Io e Varoufakis abbiamo nominato un nuovo capo dello sdoe, l’unità che indaga sui crimini finanziari, e ci siamo messi al lavoro con grande impegno, cosa che ha spaventato i grandi imprenditori. Quindi nel terzo memorandum lo sdoe è stato praticamente sciolto dalla troika”. I due terzi dei 730 ispettori sono passati all’autorità, che ora è l’unica che può punire le frodi. “Più di trentamila grandi casi di evasione decadono”, osserva Valavani, “l’autorità li ignora di proposito. L’evasione fiscale delle élite vale miliardi di euro! Avevamo tutti in pugno, ma secondo la troika le nostre indagini ‘non dovevano andare indietro di troppi anni, non aveva senso’. Una scusa bella e buona. E nessuno può chiedere niente all’autorità, perché è ‘indipendente’. C’erano seicento dossier già pronti allo sdoe, il fisco poteva riscuotere, ma la troika li ha dichiarati nulli”.
La resa dei conti
Quando si varca il portone dell’università Panteion sembra di ritrovarsi in un giardino tropicale. Le palme si allungano verso il cielo terso, ma la fontana è a secco da tempo. Il budget della Panteion è stato ridotto della metà, causando molte proteste. Ora gli studenti denunciano “rischi per la salute”. La direzione ha dovuto licenziare tutto il personale delle pulizie, e le conseguenze sono facili da immaginare: nel brutto edificio secondario, coperto di graffiti, il pavimento è nero e appiccicoso, le finestre offuscate, ci sono mozziconi di sigaretta dappertutto e piramidi di spazzatura. La rettrice ha chiesto agli studenti di pulire. Ma nessuno mette mano ai detersivi. “Noi dobbiamo tenere pulito, non pulire” dice Angelina Skaila, studente di sociologia. La rettrice assume personale delle pulizie freelance solo per pochi: “I corridoi di marmo dell’edificio principale, dove ci sono gli uffici dei professori, si puliscono una volta alla settimana”, dice Skaila. “Nelle nostre aule vengono al massimo una volta al mese, e dimenticano i bagni. Chi non vuole prendere qualche malattia, va a fare pipì nell’edificio principale”. Secondo le ricerche della Panteion gli addetti alle pulizie freelance sono più cari e inefficienti del personale fisso, ma la troika vuole liberarsi dei dipendenti a contratto. L’università di Atene ha già accettato il futuro: tonnellate di spazzatura sono eliminate regolarmente da studenti e docenti. Dopo le elezioni di gennaio del 2015 Tsipras e Varoufakis girarono l’Europa forti del mandato ricevuto dai greci per un nuovo inizio. Erano pieni di ottimismo: teoria e pratica davano ragione a Syriza. La politica dei tagli era stata un fiasco, e quell’argomento avrebbe persuaso l’eurogruppo. Ma Schäuble disse: “Le elezioni non cambiano niente. Le regole sono regole”.
A Bruxelles Varoufakis cominciò a elencare gli errori commessi, ma in risposta otteneva solo silenzio, racconta. Dopo ogni seduta i ministri dichiaravano che Atene non era “seria” e non “rendeva” abbastanza, che Varoufakis era un “perditempo, un giocatore d’azzardo e un dilettante”. “All’eurogruppo la Commissione europea parla sempre per prima, poi la Bce e l’Fmi, e a quel punto la strada è già tracciata”, racconta Varoufakis. “A parte quello tedesco, i ministri sono quasi decorativi”. In privato i ministri di Francia e Italia erano spesso “molto comprensivi”, ma “al tavolo stavano sempre con la troika”. Durante il loro primo colloquio telefonico, alla fine di gennaio, Dijsselbloem era stato molto conciliante con Varoufakis. “Cosa vuole fare con il memorandum?”, aveva chiesto il presidente dell’eurogruppo. “Vogliamo modificarlo”, aveva risposto il ministro. “troviamo un compromesso”. Dijsselbloem propose un incontro. Ma il giorno dopo, quando arrivò ad Atene, aveva già cambiato idea: se Varoufakis voleva trattare, la troika avrebbe chiuso le banche greche il 28 febbraio. “Dijsselbloem voleva ottenere una vittoria rapida”, ricorda Varoufakis, “ma io non cedetti”. Alla conferenza stampa dopo l’incontro, Varoufakis mise in guardia la troika. “Dijsselbloem se la legò al dito e si portò il rancore a ogni incontro successivo”. A cominciare da quello dell’11 febbraio, all’eurogruppo di Bruxelles. “Per tre volte”, ricorda Varoufakis, “Dijsselbloem mi disse che il tempo era scaduto, se non firmavo subito per una proroga: ‘Il treno parte stasera’. L’accordo scadeva due settimane e mezzo dopo, c’era tempo per trattare, ma Dijsselbloem disse che il parlamento finlandese andava in ferie e serviva la sua approvazione”. Varoufakis chiamò Tsipras, che gli disse: “Non firmare”. Il giorno dopo Varoufakis incontrò Dijsselbloem nel corridoio dell’hotel e non ricevette nessun ultimatum. “Il treno è tornato?”, chiese il greco beffardo. “Il 25 giugno a Bruxelles”, continua Varoufakis, “cinque giorni prima che le nostre banche chiudessero, la troika mi presentò un accordo. Tagli ancora più pesanti e una revisione del debito pubblico. Era un accordo talmente sbagliato che fu respinto anche dall’Fmi. Quando spiegai perché non potevo accettarlo, Dijsselbloem m’interruppe: ‘Deve dire adesso se accetta’. Se avessi detto di no, secondo lui sarebbe stata una dichiarazione di guerra”. Tsipras decise di indire un referendum sull’accordo. L’eurogruppo si riunì d’urgenza. Il 30 giugno scadeva il vecchio accordo, ma il referendum si sarebbe tenuto solo il 5 luglio, quindi Varoufakis chiese una breve proroga. “Così le banche sarebbero rimaste aperte e si sarebbe potuto votare senza timore. Ma l’eurogruppo sperava che la paura favorisse il sì, così rifiutò”.
I giochi erano aperti. Il 30 giugno la Grecia rimase in debito nei confronti dell’Fmi, entrando nell’elenco dei paesi morosi come il Sudan e la Somalia. La troika inviò un’email a Varoufakis per ricordargli che avrebbero potuto esigere immediatamente tutti i miliardi dovuti. Lui rispose citando un re spartano: “Venite a prenderli”. Nei giorni del referendum, il disastro imminente era quasi palpabile. Banche chiuse, famiglie e amici divisi su “sì” e “no”. La troika presentava il voto come una scelta tra restare nell’euro o uscirne. Ma quasi due terzi dei votanti si espressero contro l’austerità. Quando Varoufakis arrivò a casa di Tsipras il primo ministro non era felice ma impaurito: sapeva che la troika non avrebbe accettato il risultato. Varoufakis voleva insistere, ma Tsipras era stanco di combattere. La mattina dopo Varoufakis presentò le dimissioni. Tsipras cedette una settimana più tardi, dopo una riunione a Bruxelles durata diciassette ore. A ogni ora che passava, Schäuble alzava la posta. Tsipras fu “crocifisso”, disse una fonte interna, in un “teatro di crudeltà”, secondo qualcun altro. Varoufakis vide comparire davanti alle telecamere il premier spagnolo Mariano Rajoy che sventolava il “documento di resa” dicendo: “Questo è ciò che succederà se voterete il Syriza della Spagna”, cioè Podemos.
Quel giorno su internet molti gridarono al colpo di stato e l’economista Paul Krugman scrisse sul New York times: “La lista di richieste è folle. Si tratta di puro rancore e annientamento della sovranità. È un tradimento grottesco di tutto ciò che il progetto europeo rappresentava”.
A volte da lontano si vede più chiaro. Varoufakis non ha ancora sbollito la rabbia. “Non c’è niente di più ideologico che fingere che questo programma sia solo una questione tecnica”, dice. “Quando ho detto che dopo la crisi economica sarebbe arrivata una crisi umanitaria, Dijsselbloem mi accusò di usare un linguaggio ‘troppo politico’. Ma cosa c’è di più politico che rifiutarsi di definire la fame, la povertà e un’ondata di suicidi una crisi umanitaria?”.
Latte versato
A mezzanotte il caffè in viale Alexandras è ancora illuminato a giorno, per l’ultima volta. Thodoris spazza il pavimento e sposta i fili elettrici. Per il resto il locale è vuoto, è stato portato via tutto, la bancarotta è diventata esecutiva. Thodoris, cinquant’anni, sembra rassegnato. È indietro di otto mesi con l’affitto, ed era solo questione di tempo. Otto mesi significano ottomila euro, più seimila di bolletta dell’elettricità. “Ma io faccio cento euro di fatturato al giorno, con cui devo pagare una cameriera e fare la spesa. Per me rimangono cinque euro, dopo undici ore di lavoro. Da tempo molta gente non può più permettersi neanche un caffè al bar”. Thodoris è laureato in antropologia culturale e parla quattro lingue, ma chi lo vuole? Al massimo c’è richiesta di fattorini per le consegne di souvlaki, non di ricercatori. L’economia è in modalità di sopravvivenza, nessuno investe. “se fossi giovane mi unirei al grande esodo greco”. In tre dei locali vicini spicca l’ormai familiare cartello enikiazete, affittasi. “Miglioriamo il clima per gli affari”, scrisse la Commissione. Ma in ogni strada si vedono negozi abbandonati in rovina: da quando è arrivata la troika si sono abbassate più di duecentomila serrande. Nelle piccole botteghe ancora aperte ci sono sempre i saldi, ma non significa che ci siano clienti. solo i compro oro che acquistano a prezzi irrisori i gioielli di famiglia fanno buoni affari. La troika venne, vide e cambiò tutto. Voleva trasformare l’economia, stimolare la concorrenza, e in un certo senso c’è riuscita. I contratti collettivi sono stati ridotti da centoquaranta a otto. È il capo che decide: se pensa che il salario minimo sia ancora troppo alto offre quindici euro al giorno, senza assicurazione né straordinari. Paga mesi dopo, a volte in buoni. Per un posto disponibile telefonano centinaia di persone. “ti piace lavorare sodo? Dimostralo!”, si sentono chiedere.
Nell’autunno del 2010, quando fu nominata ministra del lavoro, Louka Katseli ereditò un sistema di contratti collettivi smantellato dal suo predecessore. “Ci vollero mesi per convincere la troika a recuperare parzialmente i contratti collettivi”, racconta. “Ma a quei tempi era ancora possibile discutere”. Nel 2011 la troika s’irrigidì. Adottò le richieste delle grandi catene alberghiere, dei mezzi d’informazione, delle banche e dell’industria, e impose una legge sul lavoro estremamente flessibile. “secondo la troika la mia revisione della legge ostacolava la concorrenza”, racconta Katseli. “Dovevo ritirare la mia proposta, ma mi rifiutai”. Un mese dopo ci fu un improvviso rimpasto di governo e Katseli fu esclusa, retrocessa a semplice parlamentare. Quando votò contro la legge della troika fu espulsa dal Pasok. “Da quel momento”, dice, “la posizione della troika è diventata più chiara: attenzione per le grandi aziende, disinteresse per sindacati e ministri”.
Nel 2014 ci fu una strana disputa sul latte che fece quasi cadere il governo. La troika ordinò di estendere la definizione di latte fresco da cinque a undici giorni, rendendo possibile l’importazione e facendo scendere il prezzo. Secondo Stiglitz fu un regalo all’industria casearia olandese, come ringraziamento per il fedele sostegno offerto dall’Aja alla Germania. Infatti dopo quella decisione l’esportazione di latte olandese in Grecia è aumentata e i contadini greci sono falliti. La legge sul latte fu un’altra condizione imposta per il versamento del prestito. Il viceministro dell’agricoltura greco votò contro e si dimise. “La mia etica m’impedisce di mettere a repentaglio l’indipendenza del mio paese”, dichiarò.
Oggi i rappresentanti della troika non possono più entrare così facilmente nei ministeri né spulciare i libri a loro piacimento. È all’hotel Hilton che incontrano i greci, come Nasos Iliopoulos, funzionario del ministero del lavoro. “Un diktat è un diktat, c’è poco da fare”, dice. Si riunisce spesso con la troika e di recente l’Fmi gli ha detto: “La vostra esperienza non è rilevante”. Lui cerca di salvare il salvabile. Sulla sua scrivania, con vista sui senzatetto di piazza Klafthmonos, è appeso un quadro che raffigura un lavoratore con un piccone a grandezza naturale. Iliopoulos, un uomo scuro sulla trentina, gli lancia uno sguardo. Ma qui la troika non viene, e lui non può spiegare la condizione dei braccianti: “Parlo in cifre, come vuole la troika, in maniera breve e concreta. Ogni esempio tratto dalle vite di cui si decide è considerato irrilevante”. In tutti questi anni il messaggio della troika è sempre stato lo stesso, dice Iliopoulos: segui le riforme e l’economia migliorerà. “È come parlare con dei cardinali: esiste un’unica, sacra visione delle cose. La liberalizzazione è positiva: se la realtà è diversa, la colpa è della realtà. Finché il datore di lavoro trionfa sul lavoratore, questo è il suo modello, per tutta l’Europa”. Poi Iliopoulos si fa pensieroso. rilette, prova a individuare almeno un punto positivo, ma non lo trova. “Questo disastro è stato compiuto perché la Grecia doveva diventare più competitiva, ma non è stato ottenuto neanche quello. solo il bilancio commerciale è ‘migliorato’, perché le importazioni diminuiscono a causa della crisi. Che bel risultato! si potrebbero anche uccidere i disoccupati per abbassare la disoccupazione, ma per fortuna non l’ha ancora proposto nessuno”.

L’AUTORE Edward Geelhoed è corrispondente da Atene di De Groene Amsterdammer e De Correspondent. Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Fonds Bijzondere Journalistieke Projecten e del Nederlands Instituut Athene.

internazionale 18.2.2018
Gli interessi di Pechino in Suriname
Nell’ex colonia olandese un decimo della popolazione è di origine cinese. Ormai sono gli imprenditori asiatici a gestire la sua economia. E il governo sta a guardare
di Thomas Fischermann, Die Zeit, Germania.


Per affrontare il caldo di mezzogiorno in Suriname, mister Ma apre un parasole coloratissimo. “Non mi abituerò mai a queste temperature”, dice quasi scusandosi. Pochi secondi dopo, però, l’aria soffocante dei tropici sembra non dargli più fastidio: ondeggiando sui gradini di cemento ancora fresco, l’uomo raggiunge la banchina del porto a passo sostenuto. Ci sono file di pescherecci arrugginiti e un equipaggio composto da indonesiani, malesiani e filippini che lava le navi e stende i panni appena lavati. Accanto si sente il rumore di una betoniera mentre gli operai trasportano del materiale edile. “Qui sto investendo 30 milioni di dollari”, dice mister Ma tirando fuori il suo biglietto da visita. Si chiama Ma Hsing Jui, ha 59 anni ed è l’amministratore delegato della società per azioni Surinam Sea Catch. È un grande esportatore, investitore e re delle pescherie del Suriname. Sul biglietto da visita tuttavia c’è scritto solo “Mister Ma”. Trent’anni fa si spostò dai dintorni di Hong Kong a questo piccolo paese tropicale. Fu uno dei primi. Negli ultimi anni altri cinesi come lui, imprenditori entusiasti con poca pazienza e molti progetti, hanno conquistato uno dopo l’altro i settori chiave dell’economia in America Centrale e in America Latina. Hanno sfruttato la crisi economica per rilevare aziende già esistenti e fondarne di nuove. Si sono assicurati l’accesso alle materie prime di cui la Cina ha bisogno: grano, legname, diamanti, petrolio oppure – come nel caso di Ma – pesce surgelato. Hanno potuto contare sul sostegno di Pechino e delle reti ben organizzate degli imprenditori e dei finanzieri cinesi. Ora gli affari gli vanno a gonfie vele: la stagnazione è finita e molte materie prime stanno riacquistando valore. Molte posizioni importanti sono occupate da cinesi. “Qui davanti, proprio sull’acqua, costruiremo la fabbrica del ghiaccio”, dice mister Ma. Ci conduce attraverso i capannoni dalle pesanti porte d’acciaio, dove si lavorano gamberi e pesci per l’esportazione. I piani in acciaio sono pulitissimi. “Abbiamo la certificazione di molte autorità sanitarie internazionali”, dice con orgoglio. Duecento tonnellate di gamberetti all’anno, 2.500 tonnellate di pesce, e questo è solo uno degli stabilimenti che possiede. Siccome è un imprenditore modello, mister Ma ha ricevuto addirittura la visita del ministro dell’economia, che gli ha chiesto come ha fatto a mettere in piedi in quattro e quattr’otto una fabbrica esemplare dopo l’altra e a partecipare anche ai lavori per l’espansione del porto. “Mi sono rivolto a ditte edili cinesi”, risponde ridendo. Poi si fa serio e dice: “Mi sono formato a Shenzhen, una delle scuole per imprenditori più dure del mondo. E lì ho imparato che il tempo è denaro! Bisogna mettere a frutto ogni minuto”.
Un gioco da ragazzi
In Suriname, un’ex colonia dei Paesi Bassi, i risultati degli investimenti di Pechino sono evidenti. Gli immigrati cinesi c’erano già un secolo fa: all’epoca la forza lavoro asiatica che s’imbarcava per i tropici era impiegata per realizzare grandi opere edili. La nuova ondata d’imprenditori, che da qualche anno arriva in Suriname, ha obiettivi imprenditoriali ambiziosi e la benedizione di Pechino. Dal piano quinquennale del 2015 si deduce l’interesse strategico del Partito comunista per l’America Latina: il governo cinese vorrebbe investire 250 miliardi di dollari nella regione, soprattutto in materie prime e nelle infrastrutture. In quasi tutti i paesi i cinesi hanno preso accordi per realizzare progetti in parte sorprendenti: un canale in Nicaragua, che sulla carta dovrebbe fare concorrenza a quello di Panamá, e una linea ferroviaria dal Perù al Brasile. Dappertutto si discute di nuove miniere, impianti per l’estrazione del petrolio, canali, porti e strade da costruire impiegando lavoratori e aziende edili cinesi. Finora molte delle grandi opere sono rimaste lettera morta, ma dalla Terra del fuoco al golfo del Messico gli immigrati cinesi sono in aumento. Secondo le statistiche ufficiali, in Suriname il 10 per cento della popolazione è di origine cinese. “Per i cinesi, il nostro paese è il più accogliente di tutta la regione”, afferma Jim Bousaid. Bousaid dirige la Hakrinbank, una delle tre maggiori banche del Suriname. Il suo ufficio si trova nella capitale Paramaribo. Chino su una scrivania enorme, il manager si liscia le maniche della camicia e intanto racconta la storia della famiglia: “Sono discendente di immigrati libanesi, ma ho anche un antenato cinese”. Il nonno, un cinese hakka, arrivò nei tropici durante una delle prime ondate migratorie, alla fine dell’ottocento. Dalla finestra di Bousaid si vede tutta la città: gli edifici di legno costruiti dai colonizzatori olandesi, considerati oggi patrimonio storico e artistico, un groviglio di palazzoni tirati su in fretta, zone commerciali, alberghi e casinò con insegne luminose e colorate. Ancora più in lontananza ci sono i quartieri riservati agli alti funzionari e ai diplomatici: ville di lusso e vaste tenute. La metà degli abitanti del Suriname (più di 500mila persone) vive a Paramaribo, sulla costa. Le regioni interne, invece, sono coperte dalla foresta amazzonica e quasi disabitate. Dal punto di vista di chi lavora nel settore delle materie prime, quelle zone sono piene di tesori da scoprire: legno, oro, diamanti, bauxite e potenziali terreni agricoli. “I cinesi hanno rapporti ottimi con il governo, e anche con noi”, dice Bousaid. Poi aggiunge: “Sono stato la prima persona che il nuovo ambasciatore cinese in Suriname ha voluto incontrare. Per gli imprenditori cinesi la banca è molto importante”. Il banchiere comincia a rovistare tra le sue carte e poi sventola due biglietti per il prossimo festival del cinema cinese in città. Secondo lui, senza cinesi non si muoverebbe niente nel paese: sono gli unici a cui si può fare credito senza timori. Il discorso vale anche per l’ambizioso mister Ma, con i suoi progetti costosi. È così preso dal suo lavoro che si presenta nell’ufficio del banchiere alle ore più inopportune. Invece alcuni surinamesi e gli immigrati indiani si lamentano delle banche del paese, che non concedono prestiti. Bousaid dice che deve attenersi ai fatti: “La maggior parte della gente non capisce quanto siano efficienti i cinesi”. Bousaid sa perché in Suriname ne arrivano tanti: per loro è un gioco da ragazzi fare soldi quaggiù, a differenza della Cina dove le materie prime sono più scarse e la concorrenza sui mercati è più agguerrita. “Gli imprenditori cinesi non si fanno problemi a pagare qualche mazzetta per mandare avanti gli affari”, dice Bousaid abbassando la voce. “E ai funzionari piace fare affari con i cinesi”. Questo lato oscuro degli affari è un segreto di Pulcinella, qui come in molti altri paesi dell’America Centrale e dei Caraibi.
“Si portano via il nostro oro e le nostre risorse”, afferma un’ex deputata che ha chiesto di restare anonima. Alcuni anni fa si è dimessa da tutte le cariche politiche in segno di protesta contro la corruzione. “Il governo lascia correre, perché i politici sono i primi a guadagnarci”, dice. Ha visto con i suoi occhi come funzionano le cose, che si tratti di costruire strade, abbattere alberi o estrarre minerali. I controlli sono pochi e tutto si svolge in zone isolate e poco abitate. Ovunque si pagano tangenti. Gli alti funzionari e gli esponenti del governo hanno le mani in pasta dappertutto. “Ma nessuno parla”, dice l’ex deputata, una dei pochi rappresentanti della politica surinamese ad accettare di parlare con Die zeit.
Aiuto in tempo di crisi
Tuttavia i nomi dei politici surinamesi dalla reputazione poco raccomandabile sono noti, a cominciare dal presidente Desiré Delano Bouterse. Ex militare, 72 anni, è stato anche dittatore del Suriname e oggi è ricercato dall’Interpol per traffico di droga. Inoltre, un tribunale del paese sta tentando di condannarlo per l’uccisione di 15 oppositori politici. Il figlio, Dino Bouterse, è detenuto in una prigione statunitense per traffico di droga ed è accusato di traffico d’armi e terrorismo. Per la polizia internazionale e le società di consulenza nel settore della sicurezza in Suriname sono diffusi il narcotraffico, il riciclaggio, la corruzione e altre attività illegali. La concessione di licenze per le attività legali, poi, è talmente poco trasparente che l’economista e consulente del governo Winston Ramautarsing sostiene: “Sono i ministri a decidere chi sarà milionario”. Il governo cinese è presente a Paramaribo con un’ambasciata arredata in maniera sfarzosa e uffici di rappresentanza di diversi enti. Si riconoscono dai muri di filo spinato e dai lampioncini rossi. I diplomatici cinesi fanno molti sforzi per tenere alto l’umore dei ministri del Suriname. Hanno concesso crediti a condizioni di favore al governo, anche quando il paese era in crisi: nel 2016 l’economia ha avuto un calo superiore al 10 per cento, nel 2017 la situazione sembra in ripresa. Da parte sua, il governo ha apprezzato che gli imprenditori cinesi abbiano continuato a investire costruendo centinaia di alloggi popolari e di strade, e finanziando un nuovo edificio per l’aeroporto. Hanno equipaggiato i militari con i veicoli migliori e hanno fornito al ministero degli esteri una sede nuova di zecca. Alcuni, come i proprietari dei supermercati, hanno chiuso temporaneamente i loro negozi per trasferirsi nella vicina Guyana Francese, ma l’arrivo di nuovi investitori cinesi e il loro impegno nel settore delle materie prime è in continua crescita. Negli ultimi anni è successo anche in altri paesi della regione. Il Venezuela, per esempio, che economicamente e politicamente è vicino al collasso, sopravvive sostanzialmente grazie ai crediti concessi dai cinesi. In cambio, questi si assicurano importanti diritti sul petrolio di Caracas. Gli esperti di economia dei paesi coinvolti, però, avvertono che i cinesi stanno facendo riemergere un problema che si credeva ormai archiviato: la maledizione delle materie prime. Negli anni ottanta più della metà delle esportazioni dall’America Centrale e Latina era costituita da materie prime quasi del tutto grezze. Negli anni novanta la quota si era ridotta a meno del 30 per cento, un dato positivo per lo sviluppo dell’industria locale e per l’aumento dell’occupazione. Oggi, però, la situazione è di nuovo quella di un tempo e questo in parte è dovuto alla dipendenza dai cinesi. In Suriname i timidi tentativi del governo di far nascere nuovi e più redditizi rami dell’economia vanno a vuoto. I titolari delle segherie e i produttori di mobili, per esempio, si lamentano perché non ottengono crediti per modernizzare le fabbriche né materie prime per le loro attività. Il paese si riempie di aziende cinesi, che comprano legno per esportare all’estero i tronchi non lavorati. Il 60 per cento del legno grezzo finisce in Cina, dove una classe media in crescita è disposta a pagare molto, almeno secondo gli standard del Suriname, per avere il parquet. Ogni tanto il governo di Paramaribo annuncia che limiterà l’esportazione di tronchi grezzi, isserà delle quote e alzerà le tasse sulle esportazioni, per proteggere l’ambiente e gli imprenditori locali. Però ci vuole poco perché questi provvedimenti siano rimandati, ammorbiditi o addirittura cancellati dal programma di governo. D’altra parte gli alberi della foresta vengono abbattuti senza controllo. Al momento l’autorità statale incaricata di proteggere l’Amazzonia surinamese non ha un direttore generale. Per i cinesi è una situazione ideale: comprano le materie prime di cui hanno bisogno a costi contenuti e riforniscono il Suriname e gli altri paesi latinoamericani di prodotti industriali a basso costo, gli stessi da cui proteggono i propri mercati con dazi e altre barriere. Il generoso contributo alla costruzione di strade e porti in Sudamerica rende il trasporto delle materie prime sempre più economico.
In Cina il boom edilizio degli ultimi decenni si sta esaurendo, quindi le aziende edili hanno risorse in eccesso. Negli ultimi anni Pechino ha sfruttato la crescente dipendenza dei paesi partner per chiedere favori politici. Per esempio isolando sempre di più Taiwan dal punto di vista diplomatico. In generale, lavora alla costruzione di un ordine mondiale meno incentrato sugli Stati uniti. Nessuno ha ritenuto casuale che nel 2016, poco dopo l’elezione di Donald Trump negli Stati uniti, il presidente cinese Xi Jinping sia partito per un viaggio in America Latina.
L’ammissione
Per ora in Suriname nessun politico o funzionario di governo protesta in modo ufficiale contro l’avanzata dei cinesi. Fa eccezione Paul de Baas, direttore di una clinica e consigliere d’amministrazione della camera di commercio: “Mandano gente in avanscoperta per conquistarci”, dice. Poi si lascia andare a un’invettiva sul traffico di esseri umani, di operai a basso costo e di prostitute. Racconta del gioco d’azzardo illegale che si svolge nella penombra dei piani superiori dei ristoranti cinesi. In parte è vero, queste cose succedono, ma non si conoscono i dettagli. I cinesi sono un decimo della popolazione del Suriname, eppure vivono soprattutto tra loro. Hanno 17 associazioni, un club sportivo, una rete tv che trasmette in mandarino e un quotidiano. Hanno anche una scuola, un bar karaoke e locali notturni esclusivi dove gli stranieri di solito non entrano. I conflitti più intensi tra le diverse culture nascono ogni volta che c’è una sparatoria. Di tanto in tanto i commercianti cinesi subiscono delle rapine, perciò girano armati e sotto la giacca portano fondine con piccole armi da fuoco. Lo fanno tutti, dal grande imprenditore dell’industria della pesca fino al direttore di filiale di un supermercato cinese. Ogni due o tre settimane qualcuno si prende una pallottola e muore, e ogni volta sale la tensione tra le varie etnie. Anche de Baas, l’oppositore dei cinesi in camera di commercio, al termine del nostro incontro ammette che, senza gli ospiti venuti dal lontano oriente, l’economia del Suriname sarebbe stagnante. “Riescono a scovare le occasioni per fare affari ovunque”, dice. Hanno costruito strade negli angoli più remoti del paese e lì hanno aperto negozi, ristoranti e perino stazioni di rifornimento galleggianti sui fiumi. Oggi un terzo dei 30mila imprenditori del Suriname è iscritto alla camera di commercio cinese. Alla fine De Baas confessa che anche lui possiede un pezzetto di terra nella foresta amazzonica. una concessione, ossia una superficie su cui è consentito disboscare. “L’ho affittata a un cinese che commercia in legname e ci guadagno molto”, dice.