domenica 18 febbraio 2018

Corriere La Lettura 18.2.18
il destino umano in bilico sul vuoto
di Andrea Emo


«Un filosofo deve pensare con giusto orgoglio alle reazioni (più che alle azioni) che il suo pensiero susciterà. Le reazioni a lui ignote che il suo pensiero susciterà sono la miglior parte della sua opera»: così si esprimeva Andrea Emo nel 1973, in uno delle centinaia di quaderni scritti al riparo di quella che lui stesso considerava una radicale «inettitudine alla vita». Il suo era un pensiero abissale, che non voleva rendersi pubblico. Non a caso sarebbe diventato un filosofo «postumo», scrivendo appunti fitti, riflessioni quasi quotidiane, talvolta malinconiche, in cui irradianti folgorazioni riuscivano spesso a illuminare un pensiero che sarebbe apparso come un diamante del Novecento. Il suo è stato definito un nichilismo radicale; sicuramente originale ne è stato lo svolgimento.
Per lui, infatti, intuire che tutto è espressione del Nulla, non significava indebolire la portata tragica degli eventi della storia, ma farsi al contrario capaci di riconoscerne la preziosa sacralità. Sì, perché dire «Nulla» significa per Emo evocare l’Assoluto in tutta la sua possanza; in tutta la sua ineludibilità. Significa consegnare scelte e azioni degli umani a un destino curioso e paradossale; mostrandone la vanità e il ridicolo, ma nello stesso tempo affidandole a un gioco tragico disposto ad assicurare una salvezza solo a chi non l’avesse cercata. Anche la tradizione cristiana, di cui Emo si sente fedelissimo erede, va per lui riletta alla luce dell’irrisolvibile paradosso costituito da una morte (quella di Gesù) che non salva in virtù di una futura resurrezione, ma proprio «annichilendo», liberando la vita dalla presuntuosa volontà di resistere ai colpi inferti da una vicenda cosmica che tutto sembra destinata a corrompere e consumare.
L’unica possibilità per un esistere consapevole del giogo infernale del destino rimane quella di assecondare le onde dell’immane potenza «negativa» da cui siamo tutti originariamente mossi, anche quando ci proponiamo di costruire qualcosa di memorabile, magari eterno. Negare tutto, sì; ma non per chiudere gli occhi e considerare l’esperienza come la trama di un semplice «sogno senza costrutto», quanto per potersi riconoscere «grandi» finanche nella misera contingenza di gesti che continueranno a dimostrare che siamo nati storti — perché diciamo di volere la libertà, ma temiamo la solitudine che essa implica. Così come temiamo il vuoto che ogni cosa vorrebbe furbescamente ricoprire, ma cerchiamo disperatamente di riempirci l’anima con quello stesso vuoto — affidandoci alle opere d’arte… le sole che riescano a farlo trasparire e a renderlo accettabile, facendolo apparire «bello». Riconsegnando le cose al loro insondabile mistero. E d’altro canto, per lui (così diceva Emo), «il pensiero, la ragione, non sarebbero tanto luminosi (non sarebbero la luce stessa) se non fossero alla fine il riconoscimento, la visione della loro meravigliosa oscurità, del loro meraviglioso mistero».