domenica 18 febbraio 2018

Corriere La Lettura 18.2.18
Kiefer ritrae il filosofo venuto dal Nulla
Paralleli Il pittore e scultore tedesco espone a Parigiuna mostra ispirata all’opera di Andrea Emo, morto nel 1983, pensatore abissale, auto-recluso, «postumo» quasi per scelta. Sorprendentemente, ma non troppo... Ecco che cosa hanno in comune
di Vincenzo Trione


Celan, Novalis, Nietzsche, Benjamin, Rilke, Hölderlin, Bachmann. Nelle pieghe delle sue complesse cosmogonie, Anselm Kiefer ama nascondere suggestioni più o meno evidenti tratte da filosofi, da scrittori e da poeti. Nella sua plurale cartografia culturale da qualche tempo è entrata anche una voce inattesa. Non un classico, ma un pensatore irregolare, poco conosciuto, schivo, solitario, anti-accademico, nato nel 1901 (e morto nel 1983), veneziano di origini nobili, amico di personaggi come Alberto Savinio, Ugo Spirito e Cristina Campo, formatosi alla scuola di Giovanni Gentile alla Sapienza di Roma (senza mai laurearsi), autore di un vasto corpus di appunti, scoperto nel 1986 da Massimo Cacciari, che ne promosse la (parziale) pubblicazione in un volume, Il dio negativo (Marsilio, 1989).
L’incontro iniziale con questo filosofo clandestino risale al 2015. Lo scrittore, editore e teologo Klaus Dermutz suggerisce a Kiefer di leggere la traduzione tedesca di Il dio negativo . Una rivelazione. Asistematici, ricchi di illuminazioni, quei frammenti compongono una costellazione all’interno della quale si riarticolano ininterrottamente le medesime idee, che delineano i contorni di un’originale teologia della negatività. In quegli aforismi l’artista riconosce qualcosa che già gli appartiene: è come se Andrea Emo avesse pre-visto domande che da tempo lo tormentano.
Questa affinità è testimoniata ora da una mostra — Für Andrea Emo — appena inaugurata alla Galerie Thaddaeus Ropac di Parigi (fino al 31 maggio). Vi sono esposti 20 dipinti di grandi e medie dimensioni insieme con tre sculture-gabbie. Opere su cui sembra allungarsi l’ombra di Emo. Il quale — soprattutto negli scritti radunati in Le voci delle Muse (Marsilio, 1992) e nel volume In principio era l’immagine (a cura di Massimo Donà, Romano Gasparotti e Raffaella Toffolo, in uscita nel prossimo autunno da Bompiani) — intende l’arte come esperienza metafisica. Non rispecchiamento del reale, né scrigno di simboli, ma estremo tentativo per manifestare l’Assoluto, che tuttavia può svelarsi solo ritraendosi.
«Resurrezione dell’infinito nelle forme dell’individuo», la grande arte ha l’ambizione di rappresentare l’irrappresentabile, per tendere verso quel luogo dove le immagini si annullano: il vuoto, l’oblio. Territorio «dell’inconciliabilità», si consegna come lotta non per creare ma per «de-creare». Sepolcro che contiene il nulla. Perché «dentro (le opere) non c’è nulla». Per pronunciare il silenzio che ogni icona custodisce, l’artista, secondo Emo, deve andare al di là di ogni strategia, fino a far coincidere l’«assoluta necessità» con il «perfetto arbitrio», pensando il proprio gesto come «negazione universale (che) è insieme pace e sicurezza, abisso e ascensione», violazione di ogni scopo e di ogni responsabilità, «rinuncia alla volontà, al desiderio, al possesso, a tutto».
Cogliendo il significato autentico di questa prospettiva teoretica, Anselm Kiefer dice: «Quando ho letto Il dio negativo , all’improvviso mi è apparso chiaro che la filosofia di quell’autore fosse quasi la sovrastruttura intellettuale e spirituale del mio modo di fare. Per me, il vero artista è sempre stato un iconoclasta impegnato a mettere in scena un ordine prossimo a naufragare nel nulla. Ma non ero mai stato in grado di formulare questo concetto con la lucidità con cui lo ha fatto Emo. Che ci invita a riflettere su alcune questioni decisive: tutto ciò che facciamo tiene già in sé la sua negazione; l’immagine senza iconoclastia è un mistero profanato; la salvezza non sta nell’esito del lavoro, ma nel lavoro stesso. Anche per me i dipinti non dovrebbero mai essere una ricompensa».
Questo giudizio sottolinea la centralità di tre nozioni-chiave — nulla, autonomia dell’opera, iconoclastia — intorno a cui ruotano sia l’estetica di Emo che la poetica di Kiefer.
Nulla
Emo scrive: «Le nostre opere sono i nostri monumenti funebri. (...) L’arte è l’arte di vedere l’invisibile, cioè la presenza. La presenza è l’inaccessibile, l’irraggiungibile. (...) Il solo ignoto». Si pensi alle opere «emiane» di Kiefer. Tante le differenze con i suoi più celebri cicli. Nessun riferimento politico e civile. Nessun rinvio mistico-religioso. Nessuna traccia di motivi archeologici o di abbandoni erotici. È come se Kiefer, sulle orme dell’estetica di Emo, volesse lambire il nulla. Capitoli di un discorso intimamente nichilistico, le sculture e i quadri più recenti sono esercizi di riscrittura della «cosa ultima». Ipotesi ardite per abitare l’oscurità. Quella «notte impossibile» cara a Novalis. Il niente è la meta ultima.
Autonomia dell’opera
Emo scrive: «Lo scrittore, l’artista, può essere radicalmente consapevole di ciò che dice? Non è forse questa una via mortale che impedisce ogni espressione, e cioè creazione? La creazione è inconsapevole». Anche Kiefer è convinto che l’opera d’arte, pur offrendosi come palinsesto meditato e segnato da tanti echi dottrinari, possieda una propria vita. Rispetto a essa, l’artista è quasi un errore biologico. È l’origine. Può dare l’avvio al processo visivo, ma quel processo si svilupperà indipendentemente dalla sua volontà. Incapace di essere fino in fondo padrone a casa propria, egli ha «solo» il compito di violentare ogni rigida progettualità. Per porsi in ascolto di intenzioni già racchiuse nelle materie da lui adoperate.
È questa la ragione che spesso spinge Kiefer a servirsi dell’elettrolisi per modificare alcune sue iconografie: «Una parte dell’immagine scompare. Quello che resta si modificherà nel tempo». Altre volte Kiefer seppellisce i suoi dipinti sotto terra; li ricopre di pittura nera; li innaffia con acqua sporca; li espone alle intemperie, quasi per restituirli alla natura.
Per eseguire le opere esposte adesso a Parigi, Kiefer è ricorso a una tecnica diversa: più violenta. Le ha sistemate a terra. Poi ha riempito alcuni recipienti di ferro — sorretti da una lunga asta — di piombo bollente, che ha versato su superfici già occupate da immagini, senza poter (e volere) orientare l’approdo finale. Il progetto viene messo in crisi dal proprio destino: da un fallimento sempre incombente. Kiefer si chiede: «Il risultato sarebbe stato diverso se il liquido fosse fluito in un altro modo?».
Iconoclastia
Altri passaggi dei taccuini inediti di Emo: «L’artista è un alchimista inteso a trasformare il piombo delle cose o dei fatti nell’oro incorruttibile dell’espressione. (...) L’arte ha valore come esorcismo, esorcismo della maledizione ad essa immanente. È un’autentica ala sull’abisso». Si osservino di nuovo le opere ispirate da Emo. Sembrano alludere a un viaggio al termine della notte, che conduce dalla «determinatezza» all’«indeterminatezza». È il trionfo dell’impuro. Le sculture: gabbie dentro cui vengono composti reperti e fossili scampati a un’invisibile apocalisse. E i quadri: che, dotati di una potenza linguistica nuova, si fondano su una ritualità barbarica. Dapprima, Kiefer dipinge visioni. Che, poi, copre in parte o cancella del tutto. Le distrugge, ammantandole sotto colate di piombo fuso. Si consegna a un atto di distruzione: «Senza rabbia, senza disperazione». Che è anche un atto di rigenerazione. Lasciando affiorare barlumi, epifanie: come resti di affreschi sommersi sotto strati di lava. È come se, dipingendo, volesse interrogarsi sulle possibilità estreme del dipingere.
Per cogliere il valore profondo dei diversi episodi pittorici e plastici di Für Andrea Emo , potremmo ritornare alle lectures tenute al Collège de France di Parigi nel 2010 da Kiefer, secondo il quale l’artista deve innanzitutto decostruire, mettere in discussione e poi abbattere i monumenti da egli stesso edificati in precedenza. Concependo la propria pratica come avventura sovversiva. Modo per «volersi male». Navigazione insicura tra «il niente e il qualcosa». L’opera d’arte, scrive Kiefer, non va contemplata ma maltrattata, aggredita. Solo in questo modo potrà sorgere una bellezza inquieta e perturbante, che viva come rovescio di se stessa. «L’autodistruzione è lo scopo più intimo, più sublime dell’arte».