domenica 18 febbraio 2018

Il Fatto 18.2.18
Il risveglio degli abusati dai preti argentini
Giustizia parziale - Alcune delle vittime criticano apertamente governo e Chiesa
di Guido Gazzoli


Lo spettro dello scandalo degli abusi sessuali non dà tregua a papa Bergoglio, anche dalla sua terra. Pure nella sua Argentina, dal 2002, sono ben 62 le denunce presentate per abusi sessuali da parte di 59 sacerdoti e 3 monache: secondo le giornaliste Lucia Toniniello e Marian Garcia, autrici di un’inchiesta, solo 3 casi sono stati sanzionati con la massima pena prevista dal diritto canonico, l’allontanamento dal sacerdozio. E solo 8 hanno ricevuto condanne dalla giustizia ordinaria: in molti casi le denunce presentate dalle vittime, non dalla Chiesa stessa, hanno provocato da parte di quest’ultima solo il trasferimento in altre sedi degli accusati.
Il caso più eclatante è quello di padre Grassi, condannato nel 2009 a 15 anni di prigione per abuso di una minore che viveva nella sua fondazione “Felices los Niños” (accusato anche di malversazione di fondi). Il religioso a breve uscirà dal carcere in base a un discutibile decreto che prevede il dimezzamento della pena, senza nessun provvedimento da parte delle autorità ecclesiastiche. Nella lunga lista degli abusi ci sono anche quelli perpetrati nel tristemente famoso istituto per disabili Provolo di Mendoza.
Singolare anche il caso di padre Fernando Enrique Piciocchi, denunciato per abuso di 5 minori nel Collegio marianista di Buenos Aires dove operava. Ne abbiamo parlato con Sebastian Cuattromo, una delle vittime che ebbe il coraggio di denunciare e ha creato, insieme a Silvia Piceda, abusata da vicini di casa quando aveva 11 anni, un’associazione denominata Adultxs por los derechos de la infancia.
“Tra il 1989 e ’90, quando avevo 13 anni, venni abusato più volte, insieme ad altri compagni di classe, da fratello Piciocchi. Per dieci anni ho tenuto la cosa dentro di me, soffrendo al punto da mettere in difficoltà le relazioni affettive, fin quando nel 2000, aiutato da un amico, ho avuto il coraggio di denunciare tutto con altri compagni. Il reato non era caduto in prescrizione e il 25 settembre 2012 il mio aggressore venne condannato a 12 anni di prigione per il delitto di violazione di minore ripetuta. Dieci anni prima si era rifugiato negli Stati Uniti sotto falso nome: venne trovato ed estradato dopo un lungo iter; la sua condanna, in base a uno sconto di pena, si è estinta nel 2016”.
Come ha reagito la Chiesa?
In un primo momento il Collegio marianista aveva sottoscritto un accordo di risarcimento in cambio del silenzio, avallato dalla gerarchia cattolica di Buenos Aires. Quando il fatto divenne di dominio pubblico il Collegio si assunse la responsabilità civile dell’accaduto.
Cosa si può fare per combattere il fenomeno?
Bisogna sconfiggere il silenzio e far emergere la questione del sistema educativo, applicando le leggi che già esistono. L’abuso di minore non è collegato al sesso bensì al potere. Vorrei tanto incontrarmi con le autorità e anche con il Papa per spingerli ad affrontare insieme questo problema e sconfiggerlo.

Corriere 18.2.18

Vaticano dopo marzo la probabile firma
Patto con la Cina sui vescovi «Il Papa ha deciso»
di Massimo Franco e Paolo Salom


«Per quanto ci riguarda, la decisione è presa: da fine marzo in poi ogni giorno è buono per siglare l’accordo con le autorità cinesi sulla procedura di nomina dei vescovi cattolici». Così un esponente vaticano conferma l’importante passo in avanti nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e Pechino. Una svolta seguita con attenzione anche a Washington. Forzando i tempi dell’intesa, la Santa Sede vuole scongiurare la possibilità di uno scisma tra la cosiddetta Chiesa patriottica sostenuta dal governo, e la «comunità sotterranea» dei cattolici ubbidienti solo a Roma, perseguitata a lungo dal Partito comunista.
B enedire Pechino. E essere accettati come religione straniera non più ostile alla Cina comunista. «Per quanto ci riguarda, la decisione è presa: da fine marzo in poi ogni giorno è buono per siglare l’accordo con le autorità cinesi sulla procedura di nomina dei vescovi cattolici». L’esponente vaticano che conferma il passo avanti nelle relazioni religiose tra Santa Sede e Cina ammette l’esistenza di una cautela residua: chi, sul versante di Pechino, sarà incaricato di siglare l’intesa; dove avverrà; e se potranno esserci sorprese dell’ultim’ora, visti i tempi cinesi. Ma il nervosismo palpabile all’ambasciata presso il Vaticano di Taiwan, isola asiatica e residuo anticomunista di un «Impero di Mezzo» diviso, testimonia come l’approdo delle trattative sia ormai a un passo. E forse ancora di più colpisce l’attenzione, mista a diffidenza, con la quale gli Stati Uniti, dopo avere seguito per un anno i contatti tra la Roma papale e i palazzi del potere pechinese, si preparano a decifrare l’atto finale.
Da quanto risulta al Corriere , da un paio di settimane gli analisti statunitensi hanno comunicato al dipartimento di Stato a Washington che l’accordo sarebbe in dirittura d’arrivo. E di fronte alle richieste insistenti sui motivi che spingono il Vaticano a un passo storico quanto audace, sono state date due risposte. La prima è che la priorità vaticana è la difesa della minoranza cattolica in quell’immenso Paese. La seconda è che forzando i tempi dell’intesa, la Santa Sede vuole scongiurare la possibilità di uno scisma tra la cosiddetta Chiesa patriottica sostenuta dal governo, e la «comunità sotterranea» dei cattolici ubbidienti solo a Roma, perseguitata a lungo dal Partito comunista. Ma a Washington interessa capire soprattutto le ricadute di questo avvicinamento; e gli effetti che avrà sul problema della difesa dei diritti umani e della libertà religiosa.
E soprattutto, si tenta di capire se dalle relazioni religiose discenderanno a cascata quelle diplomatiche, oggi inesistenti, tra Vaticano e Pechino. Una Cina dotata della legittimazione della Santa Sede potrebbe accrescere il suo peso anche geopolitico in un panorama asiatico in chiaroscuro. Al momento, la questione non sarebbe stata affrontata. «Ma è logico che la tappa successiva sarà, prima o poi, la distensione diplomatica», ammette uno degli alti prelati che segue da vicino le trattative. «Non si può prevedere con quali tempi, però». Per questo a Taiwan, ma anche a Tokyo, si avverte una forte preoccupazione. Si parla di un trasferimento dell’ambasciata di Taiwan presso la Santa Sede all’Ordine dei cattolicissimi Cavalieri di Malta, come possibile passo verso Pechino; della creazione di un «Istituto di cultura» a Roma come surrogato della sede diplomatica; e del declassamento a «Delegazione apostolica» della nunziatura vaticana a Taipei, designando però un vescovo come gesto riparatore.
«Taiwan è informata passo dopo passo da noi», assicurano in Vaticano. Ma non è tranquilla. Avrebbe spedito una delegazione di cinque parlamentari per incontrare Francesco: è stata ricevuta solo dal «ministro degli Esteri», monsignor Paul Gallagher. Da fonti cinesi si sostiene che quella missione a Roma sarebbe stata un tentativo di far deragliare all’ultimo miglio la trattativa; con dietro il sostegno indiretto degli americani. E nella stessa guerra di resistenza andrebbe inquadrata la rivelazione, da parte dell’arcivescovo emerito di Hong Kong, Joseph Zen, di un colloquio riservato col Papa: colloquio nel quale Zen avrebbe accusato il Pontefice di «svendere i cattolici cinesi». Sono conferme di un’evoluzione che segnerebbe comunque una cesura; e che viene vissuta come un trauma da entrambe le parti.
Gli Usa sanno che in Vaticano esistono «due partiti» in contrasto sulla questione cinese. E Washington insiste di non essere ostile all’accordo sulla nomina dei vescovi. Si cerca solo di interpretarne le ripercussioni. Anche perché sarà difficile fermare una dinamica che il segretario di Stato, cardinale Piero Parolin, ha perseguito con pazienza e prudenza, appoggiato da Bergoglio. Il fatto che Francesco sia considerato un Papa «post-occidentale» ha giocato a favore della costruzione di un rapporto di fiducia: non è stato percepito da Pechino come «un agente delle potenze straniere», in sintesi degli Stati Uniti. In più, il Vaticano assicura di non volere cambiare la Cina e il suo regime, ma solo di permettere ai fedeli di vivere in libertà. Nessuna ingerenza, dunque, che Pechino teme più di ogni altro virus.
«Si tratta di voltare pagina», si spiega nella Roma papale. «Non vogliamo più una Chiesa che deve stare per definizione all’opposizione del governo cinese. Bisogna dialogare in modo pragmatico, superando l’ideologia della Guerra fredda e dello scontro». Nessuno è pronto a scommettere che tutti nella cosiddetta Chiesa clandestina accetteranno, sebbene i segnali siano positivi. I due vescovi «non ufficiali» che ancora si opponevano all’accordo sono stati convinti a accettare per ubbidienza al Papa di ritirarsi per fare posto a quelli designati dalla Chiesa patriottica cinese, cioè dal governo. «Sappiamo che si tratta di un cattivo accordo, perché i cinesi hanno il coltello dalla parte del manico, e ogni volta che noi cattolici lo afferriamo, sanguiniamo. Ma Pechino accetta che la Chiesa di Roma entri nelle questioni religiose: cosa mai ammessa prima. E poi, oggi la porta è socchiusa. Domani potrebbe chiudersi e qualunque dialogo diventerebbe più difficile. Meglio un cattivo accordo che nessun accordo», è il mantra della diplomazia vaticana.
La Segreteria di Stato vaticana teme che dopo l’ultimo congresso del Pcc la situazione peggiori, non migliori. A marzo, probabilmente dopo la conclusione della sessione annuale dell’Assemblea nazionale a Pechino, verrà a Roma una delegazione per perfezionale l’accordo sulla nomina dei vescovi. Si conta sulla presenza del viceministro degli Esteri, responsabile della sezione Europa, come contraltare di monsignor Antoine Camilleri, incaricato di mediare con Gallagher e con un veterano delle relazioni sino-vaticane come monsignor Claudio Maria Celli. Superato questo ostacolo, il resto potrebbe essere in discesa. Xi Jinping sarebbe pronto a avallare l’intesa.
«Ma sapete che la segretezza e la scarsa trasparenza con le quali sono state condotte le trattative vi farà perdere la battaglia dell’informazione nei media occidentali?», ha chiesto un rappresentante del Dipartimento di Stato Usa ai mediatori della Santa Sede. «Siamo consapevoli di correre questo rischio», sarebbe stata la risposta. Pur di ricucire con il più grande Paese asiatico dopo la rottura del 1951 seguita al riconoscimento di Taiwan, il Papa argentino sembra pronto a aprire questo fronte: ben sapendo che non sarà solo esterno ma anche interno alla stessa Chiesa cattolica. E diventerà un’altra occasione di critica da parte dei suoi numerosi avversari. «Se si perde tempo, nel Partito comunista potrebbero rispuntare le resistenze, e l’accordo tornare in alto mare».

La Stampa 18.2.18
Jung contro Einstein
Meglio il Dio che gioca a dadi
Affascinato dalle coincidenze, lo psicanalista contestava il principio di causalità e alla Teoria della relatività preferiva la Meccanica quantistica di Pauli. Una lettera del 1954
di Fabio Sindici


«Non so se è vero che il signor Einstein abbia detto che non può credere che Dio giocasse ai dadi quando ha creato il mondo, ma se è così, non ha realizzato che l’alternativa è che Dio ha creato una macchina». Regala una battuta carica di provocazioni elettriche Carl Gustav Jung in una lettera inedita del marzo 1954 (in vendita ora presso la libreria antiquaria L’Autographe di Ginevra), indirizzata al giornalista scientifico Henri Corbière. Il patriarca della psicologia del profondo si schermisce nella riga successiva, assicurando che questa sua considerazione non è poi particolarmente importante. Ma certo non lo pensava.
La ricerca di un passaggio segreto tra le rivoluzionarie prospettive nel campo della fisica teorica e l’indagine nei labirinti della psiche era una sua speciale ossessione da più di quarant’anni. Jung scrive in risposta ad alcune domande di Corbière riguardo alla sua opinione sulla Teoria della relatività di Einstein. Il suo corrispondente era autore di un omaggio al grande fisico e aveva lavorato a un saggio sull’avvenire della scienza con un approccio trans-disciplinare, cercando punti di contatto tra le diverse regioni del sapere e con questionari inviati a celebrità «sapienti» e premi Nobel.
L’idea dello spazio curvo
Jung era sempre stato attratto dalle porte che si schiudono tra filosofia e psicologia, arte e scienza. Aveva amato Nietzsche e Schopenhauer. Aveva conosciuto Albert Einstein in una serie di cene a Zurigo, tra il 1909 e il 1912, in cui lo scienziato aveva illustrato i fondamenti della relatività corredati da formule matematiche e una nuova idea sul rapporto tra spazio e tempo. È proprio questo a ispirare Jung: «Ho avuto la grande opportunità di discutere con lui [Einstein, ndr] le origini della sua Teoria della relatività. Dal momento che non sono né un fisico né un matematico, non ho potuto seguire l’evoluzione della parte matematica che mi sembra troppo difficile da capire» scrive nella missiva a Corbière.
Lo intriga però l’idea dello spazio curvo, del tempo come dimensione, di un nesso di non causalità tra due avvenimenti apparentemente slegati. «Il sincronismo è il pregiudizio dell’Oriente. La causalità è il moderno pregiudizio dell’Occidente» dichiarò a un seminario sull’interpretazione dei sogni nel 1928. Due anni dopo torna sul punto in un discorso di commemorazione in onore di Richard Wilhelm, lo studioso di filosofia cinese e traduttore dello I Ching, il Libro dei Mutamenti, usato fin dall’antichità come sistema di divinazione: «La scienza dello I Ching è basata non sul principio di causalità ma su uno che - ancora senza nome in quanto non ci è familiare - ho provato a chiamare principio sincronistico».
Jung ammetterà in seguito i suoi debiti con Einstein che lo avevano spinto verso un altro fisico brillante: Wolfgang Pauli, uno dei principali teorici della Teoria dei quanti, premio Nobel per la scoperta del principio di esclusione, che spiega la stabilità degli atomi e della materia. Con Pauli il rapporto è però molto più profondo, terapeutico all’inizio e poi di collaborazione, un ping pong tra inconscio umano e microcosmo subatomico. Sono proprio i sogni raccontati da Pauli ad affinare il concetto di sincronicità. Ora i seminari tenuti da Jung negli Anni 30 del secolo scorso sull’individuazione di quei sogni saranno riuniti in un libro dalla Philemon Foundation, che cura la pubblicazione della sterminata riserva di inediti junghiani.
Apparentemente lontane, le due grandi rivoluzioni del ’900, l’analisi psicologica e la fisica teorica, incrociano più volte i loro sentieri. Einstein e Sigmund Freud nel 1933 scambiano pensieri sulle ragioni profonde della guerra (Perché la guerra?, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri), corrispondenza aperta sotto l’egida della Società delle Nazioni. Più fertile e scivoloso il rapporto tra Jung e Pauli, che lo stesso Einstein aveva nominato per il Nobel. La Meccanica quantistica, basata sulla probabilità, si adatta meglio delle teorie di Einstein al principio di sincronicità acausale che Jung stava elaborando. E la battuta nella lettera a Corbière lo dimostra: la metafora di Dio che non gioca ai dadi con l’universo era stata usata da Einstein per sfiduciare la fisica dei quanti.
Jung invece preferisce i dadi alla macchina. Per illustrare il concetto di sincronicità racconta l’episodio di una paziente che, durante una seduta, gli descrive un monile a forma di scarabeo egizio che le era stato donato in sogno; nello stesso momento Jung sente picchiettare gentilmente alla finestra, quando la apre entra ronzando nella stanza un insetto dalle ali verde smeraldo. Un’immagine che ricorda il corvo dell’omonimo poemetto di Edgar Poe. Lo psicologo degli archetipi avverte il pericolo di sconfinamenti in zone esoteriche e poco scientifiche, ma la ricerca di un graal che leghi il mondo fisico a quello psichico lo attrae irresistibilmente.
«La lezione di piano»
Mentre invia a Jung sogni pieni di mandala e diagrammi - e si correggono a vicenda le bozze dei loro scritti - Pauli esprime i suoi dubbi ai colleghi: «Il pericolo di questa situazione è che Jung pubblichi dei nonsense nel campo della fisica citandomi a suo sostegno» scrive all’assistente Marcus Fierz. Però continua a studiare fenomeni paranormali e discute le sue visioni oniriche con la discepola di Jung Marie Louise von Franz, con la quale è romanticamente coinvolto e che più tardi proverà a unire psiche e materia nella teoria dell’Unus Mundus.
In uno di questi sogni, noto come La lezione di piano, Pauli si trova insieme a uno scienziato, a un uomo identificato come il maestro e a una donna cinese che lo invita ad abbandonarsi alla musica e danzare. Pauli non ci riesce. Il sogno fa pensare a una prosa poetica delle Illuminazioni di Rimbaud che forse Jung conosceva: il titolo è Favola e culmina nell’incontro di un principe crudele e di un genio che insieme si fondono e muoiono. Di sicuro avrebbe amato la frase finale: «Al nostro desiderio manca la musica sapiente».

La Stampa 18.2.18
Shoah, sale la tensione tra Polonia e Israele


La tensione tra Polonia e Israele sulle responsabilità dell’Olocausto non accenna a calare. Dopo l’approvazione della controversa legge polacca che vieta di parlare di «campi di concentramento polacchi» o di collaborazionismo tra polacchi e nazisti, il premier Morawiecki ha detto che durante la Shoah «ci furono colpevoli polacchi, così come ci furono colpevoli ebrei». L’intervento di Morawiecki ha scatenato l’ira di Netanyahu: «Parole oltraggiose. Dimostrano la sua incapacità di comprendere la storia e la mancanza di sensibilità per la tragedia della nostra gente»

il manifesto 18.2.18
«Un altro 4 dicembre è possibile», con ironia
Lidia Menapace. Partigiana sempre, oggi candidata con Potere al popolo, «gli unici a sperimentare pratiche di democrazia diretta», mette in guardia: «L’estrema destra oggi è più pericolosa perché la crisi strutturale globale del capitalismo offre un enorme spazio di azione»
di Tommaso Di Francesco


Lidia Brisca Menapace, 94 anni – «Ma per favore non compatitemi» ripete divertita con capriccio – partigiana sempre, dalla lotta di Liberazione fino alla manifestazione di Macerata di sabato 10. Sull’esperienza partigiana ha scritto due libri molto belli, Io partigiana. La mia Resistenza e Canta il merlo sul frumento (ed Manni). È stata impegnata nei movimenti cattolici progressisti e ha vissuto il fermento del Sessantotto; è stata docente all’Università Cattolica di Milano, dove per un documento «per una scelta marxista» non le fu rinnovato l’incarico universitario. Ha collaborato alla rivista Il Manifesto, partecipando alla nascita del gruppo politico e poi del quotidiano il manifesto, sul quale ha scritto a lungo; nel 2006 è stata eletta senatrice con Rifondazione Comunista (fu indicata come presidente della Commissione Difesa, ma non fu eletta per le sue posizioni pacifiste: definì le Frecce tricolori «uno spreco, fanno baccano, inquinano e vanno abolite. Meglio il vino Tocai»). Sui contenuti di scuola, femminismo, non violenza, pacifismo, autonomia dei movimenti è considerata politicamente una «anticipatrice». A Lei che ha deciso di candidarsi nelle liste di Potere al popolo abbiamo voluto rivolgere alcune domande.
Perché, tu che pure hai già avuto una lunga esperienza politica e anche un po’ parlamentare, hai deciso di candidarti di nuovo e, immagino, con il tuo tradizionale appassionato impegno personale?
In Parlamento veramente ho fatto solo meno di mezza legislatura, poi è stata interrotta, ma non importa molto la mia vicenda elettorale, in genere, cui ho sempre dato solo una utilità strumentale, cioè come a un luogo dal quale si può fare politica più efficacemente, mi è stata chiesta una opinione su Potere al popolo: mi sono espressa con entusiasmo favorevolmente, e mi è stata offerta la candidatura che ho volentieri accettato, mi riprometto di fare il possibile: può ripresentarsi un altro 4 dicembre (la vittoria del No al referendum costituzionale del 2016), dato che ironia e autoironia che considero essenziali sono coltivate pure dalla «capa» di Potere al popolo, Viola Carofalo.
Perché con Potere al popolo (Pap)? Che cosa rappresenta questa esperienza, mentre la sinistra che abbiamo conosciuto è scomparsa e quella nuova è già divisa? Che cosa la distingue da LeU?
Pap mi si è presentata come una forma politica (unica in questa tornata) che cerca di sperimentare pratiche di democrazia diretta, fuori dalle strettoie e confusioni che ormai pervadono le varie forze politiche, anche se chiamarle forze e per di più politiche sembra uno scherzo di cattivo gusto: chi vi potrebbe riconoscere la straordinaria invenzione che il partito politico di massa fu? LeU, pur con tutto il rispetto che i suoi rappresentanti meritano, non è attrattivo, personalmente poi ero favorevole a un altro candidato, quando fu messo a capo dell’antimafia, ero per Caselli. Può darsi che un risultato inatteso, come fu quello del 4 dicembre 2016 sia possibile e sarebbe segno che chi legge la realtà dei grandi e piccoli strumenti di informazione non sappia più leggere o – peggio – sappia il potere che ha per non far leggere la realtà complessa in cui viviamo.
Che Italia ci lascia l’esperienza di governo del Pd, e in particolare il premierato di Matteo Renzi?
Mi sembra che la risposta migliore sia stata data dallo slogan gridato a Macerata: «E se ci sono così tanti disoccupati, la colpa è del governo, e non degli immigrati».
Torna la destra estrema fascista sull’onda della xenofobia e di un razzismo che si alimenta della campagna contro l’«invasione» dei migranti. Perché non si parla mai delle responsabilità delle guerre e della nostra economia di rapina, all’origine della fuga epocale di milioni di esseri umani?
Le migrazioni di popoli (così si dovrebbero chiamare) non sono un fenomeno emergenziale, ma una costante della storia umana fin dai Longobardi, da Attila e non aver saputo dare una risposta è segno di una assoluta incapacità di individuare la responsabilità degli imperialismi (dei vari imperialismi da Roma in qua) per ideologizzare e conquistare i popoli sottomessi. Non esistono razze umane, ma solo razze animali e persino in quelle le razze pure non sono le migliori: una quota di bastardaggine giova, Hitler aveva torto persino a proposito di razze pure.
L’estrema destra fascista in Italia era già forte negli anni Settanta e Ottanta, dalla violenza squadrista ai moti di Reggio Calabria, alle stragi, fino ad influenzare i governi Dc. Che cosa la fa ora più pericolosa? Forse la svolta di Salvini: dal leghismo secessionista alla guida del risentimento xenofobo etnico-nazionale?
Oggi è più pericolosa perché la crisi strutturale globale e – spero – finale del capitalismo offre politicamente un enorme e pericoloso spazio di azione. Torna ad essere vera l’alternativa detta da Rosa Luxemburg: la crisi capitalistica lasciata alla sua spontaneità, non produce il superamento del capitalismo, bensì barbarie. Per questo è stupido litigare sul riformismo, esso non è più possibile, arriva la barbarie, se non si incomincia a pensare ad agire l’alternativa, detta socialismo o come altro si deciderà. La crisi consiste soprattutto nell’incapacità del capitalismo di costruire una sua classe dirigente decente, basta passare in rassegna da Trump, Hollande, Sarkozy, il re di Spagna (aggiungerei quanto a impresentabilità perfino il nemico necessario, il nordcoreano Kim). Lascio i nostri per carità di patria. Agli estremi questo capitalismo incapace potrebbe ricorrere alla sua arma assoluta che è la guerra, ma oggi la guerra atomica è certo la fine del capitalismo, ma insieme la fine del mondo civile.
Che cosa pensi del Movimento 5 Stelle?
Che sono una riedizione aggiornata del qualunquismo. Sono qualunquisti.
Quanto fa paura il ritorno di Berlusconi, che pure non riesce a mettere insieme la compagine di governo della Destra, se non nelle liste elettorali e forse nemmeno in quelle?
Berlusconi non è meno o più ridicolo di altri, come non vederne la levatura e l’incapacità di dire qualcosa di razionale, a parte che è un personaggio colpito dalla giustizia per cause affatto eroiche.
Molti, a sinistra, sono tentati dall’astensione…
Astenersi significa semplicemente far sì che Renzi abbia una facilità in più, essere il 45% del 30% è ben diverso che essere il 40% dell’80%.
E in tanti non vedono l’ora che le elezioni finiscano. Non credi che il giorno dopo le elezioni, oltre coalizioni e schieramenti in campo e dopo la rottura dell’esperienza positiva del Brancaccio, a sinistra bisognerà pure tornare a lavorare, tutti, alla nascita di una nuova forza di sinistra alternativa? C’è spazio ancora per l’unità a sinistra?
Sì, bisognerà continuare a parlare ed agire in tante e tanti, ad agire nello spazio e nel tempo perché il popolo trovi coscienza e usi il suo potere: la democrazia significa Potere al popolo, che ne ha esercizio diretto.

il manifesto 18.2.18
Renzi nella morsa della “coalizione”
Paolo Gentiloni e Matteo Renzi
di Andrea Fabozzi


Come nel 2016 per il Sì al referendum costituzionale, anche questa volta Romano Prodi sceglie di schierarsi sul finire della campagna elettorale e anche questa volta richiamandosi al «dovere» della scelta. Curiosamente, ricorre ancora alla memoria della madre. All’ormai celebre «Romano, meglio succhiare un osso che un bastone», che servì a giustificare l’appoggio a una riforma che pure piaceva assai poco al professore, fa adesso seguito il ricordo di un’altra frase della signora Enrica Prodi, maestra elementare: «Quelli che sono partiti tristi per la guerra non sono tornati, quelli che sono partiti con il sorriso invece sì». Un invito a battersi senza perdere l’allegria che di questi tempi e con questi sondaggi al Pd può apparire lunare. Né d’altra parte l’uscita di Prodi serve a far ritrovare il sorriso a Renzi.
Nel suo «ritorno» sulla scena politica – «dopo nove anni», dice, retrodatando l’addio ai mesi successivi alla fine del suo secondo governo, quelli della grande freddezza con il Pd di Veltroni – il professore evita accuratamente di nominare Renzi. E mette tutto il suo peso in appoggio alla campagna per la conferma di Gentiloni a palazzo Chigi. Lo dichiara: «Sono qui anche per un riconoscimento al lavoro che sta facendo Paolo». E aggiunge una definizione dell’attuale capo del governo che è un po’ l’antitesi del segretario del Pd: «La serietà al governo».
Anche Gentiloni si fa meno prudente. Si colloca pienamente nella storia di un centrosinistra assai diverso da quello della rottamazione: «Siamo nati con l’Ulivo sotto la leadership di Romano e non è che dopo venti anni ce lo dimentichiamo e facciamo una scelta diversa». E infila un paio di omaggi che sono due stoccate in codice al renzismo arrembante: «Questa legislatura è nata nel contesto drammatico della mancata elezione di Prodi al Quirinale»; «Con Romano siamo riusciti a vincere due volte e non sempre ci riusciamo».
Non è questione di accenti, ma di sostanza. Lo schema prodiano è incentrato sulla coalizione di forze diverse, che ai tempi dell’Unione arrivò, non gloriosamente, a raccogliere ben nove partiti. Il professore non parla mai di un partito e sempre di alleanza: «Sono qui per sostenere la coalizione di centrosinistra». Anche Gentiloni ripete la formula: «Coalizione a guida Pd», «il Pd e i suoi alleati». Lo schema renziano era invece quello della vocazione maggioritaria e solitaria, rimasto tramortito dalla crisi del partito. Se poteva avere un senso ai tempi della corsa al 40%, non ne ha alcuno con il Pd inchiodato a una percentuale prossima alla metà. Eppure Renzi insiste a guardare solo al Pd, al limite ridimensionando gli obiettivi: «Possiamo essere», anzi «siamo già il primo gruppo parlamentare».
Ma anche questo non è affatto sicuro. Perché la legge elettorale che ha obbligato il segretario Pd ad alleanze vissute con palese fastidio non garantisce in maniera automatica quel travaso di voti dalle liste minori al Pd sul quale Renzi ha basato i suoi calcoli. Il buon andamento della lista di Emma Bonino, che può superare il 3%, e la cattiva performance degli altri alleati, centristi e gli stessi verdi-prodiani che rischiano di non raggiungere l’1%, può sottrarre ai democratici un buon numero di parlamentari. Alla camera sono in ballo una ventina di seggi in più o in meno per Renzi. Solo in questo senso si può dire che la spinta di Prodi a «Insieme» sia anche un favore a Renzi, ma è un aspetto tecnico che non deve fare ombra alla sostanza del discorso del professore: un endorsement per un centrosinistra post renziano. Nemmeno c’è da giurare troppo sull’impegno di Prodi per la lista di Bonelli, Santagata e Nencini, visto che un po’ di prodiani doc sono candidati con la lista +Europa di cui Prodi condivide naturalmente l’impostazione.
Ecco perché Renzi non si fida né si rallegra del «dono» che gli ha fatto Prodi, e lo accoglie freddamente. «La sua scelta è comprensibile», dice al Tg1, e nulla più. Neanche nei meme che produce quotidianamente per facebook il segretario Pd può fare a meno di Gentiloni. In quello di ieri il presidente del Consiglio è più evidente di lui e lo slogan «l’aria sta cambiando» sembra così una rassegnata presa d’atto.

il manifesto 18.2.18
L’ultimo colpo di Prodi a Renzi. Sì a Insieme e Gentiloni premier
Il professore: «Con lui Paese più forte». E su LeU: «Sono amici, ma hanno sbagliato»
di Giovanni Stinco


BOLOGNA Era da nove anni che non saliva più sui palchi della politica. Ieri Romano Prodi ha scelto di rompere il digiuno e di dare il suo appoggio a Insieme, la lista ulivista alleata del Pd che ha messo sotto lo stesso simbolo verdi, socialisti e gli orfani di quell’area civica che fu di Pisapia. Prodi lo ha fatto a Bologna, la sua città e la città che vide nascere l’Ulivo. Un appoggio limpido e netto ad una lista che ne ha tremendamente bisogno, visto che i numeri impietosi dei sondaggi la danno inchiodata all’1%, forse anche meno. I numeri sono quelli che sono, ma da Prodi su questo nessun accenno, anzi il professore sul palco della formazione ulivista si è speso per sostenere un’idea da sempre a lui cara: quella per cui non può arrivare nessuna vittoria senza una coalizione di centro sinistra. Il programma minimo di governo? «Minore disuguaglianza e una forte presenza in Europa». Dietro di lui la scritta a caratteri cubitali: «Contrastare le diseguaglianze». Poco più sotto: «L’Ulivo, la nostra ispirazione».
A DARE LA PAROLA al professore dal palco è stato Giuliano Santagata, che di Prodi fu ministro e che ora guida Insieme in compagnia del socialista Enrico Boselli e dell’ecologista Angelo Bonelli. «Sono qui – ha detto Prodi, fondatore del Pd ma da tempo non più iscritto al Partito democratico – per sostenere questa coalizione, per sostenere questa parte della coalizione che è Insieme, perché porta avanti il mio compito, quello di mettere assieme i diversi riformismi». E sono scattati gli applausi a scena aperta del pubblico bolognese ad un Prodi che si è detto emozionato ma che è apparso in forma e deciso. «Il suo è stato davvero un gesto di grande generosità», ha commentato Serse Soverini, collaboratore del Professore ai tempi di Palazzo Chigi e ora candidato di Insieme a Imola.
UN ENDORSEMENT per la lista che nel simbolo ha un piccolo ramoscello d’Ulivo, di certo non un assist al Pd di Matteo Renzi. Semmai la benedizione al Pd e all’idea di coalizione impersonata dal premier uscente Gentiloni. A chiudere l’evento è stato proprio il primo ministro: «Siamo nati come Ulivo sotto la leadership di Prodi con la scommessa di un centrosinistra capace di andare al Governo. Non è che dopo 20 anni ce ne dimentichiamo e facciamo una scelta diversa. Quella rimane la nostra ispirazione e il nostro impegno». Gentiloni nel suo discorso ha ricalcato molti ragionamenti di Prodi, tra i due la sintonia è sembrata profonda, così come la distanza dall’idea renzianissima di un Pd pigliattutto capace di governare da solo. «Abbiamo fatto la scelta per un centrosinistra di governo, questo siamo – ha aggiunto Gentiloni – Non ci accontentiamo delle nostre biografie. Sappiamo che il mondo è complicato e che oggi esercitare un’azione di governo per il centrosinistra è una sfida». L’idea di complessità ha riecheggiato più volte dal palco.
«La democrazia è complessa, e la coalizione è l’unico modo per tenere assieme tutto», ha sottolineato Prodi che anche questa volta, come già successo 15 giorni fa, non ha risparmiato critiche verso gli ex compagni di strada e ora avversari di Liberi e Uguali: «Non sono nella coalizione, li ho chiamati amici, perché abbiamo lavorato lungamente assieme. Sono ancora amici certo, ma hanno profondamente sbagliato perché questo è il momento in cui nello stare insieme si decide il futuro del paese. Soltanto vincendo si determina il futuro del paese. Con la scissione invece LeU ha indebolito enormemente il disegno di unire i riformismi». Anche perché, ha argomentato il professore, non è che sul piano dell’unità gli avversari siano messi meglio: la destra di Forza Italia e della Lega, che pure sono alleate, sull’Europa hanno visioni antitetiche e andranno in tilt appena toccherà loro presentarsi a Bruxelles, quindi «15 giorni dopo il voto». Per il Movimento 5 Stelle Prodi invece ha usato una sola parola: «vaghezza».
INFINE LE NECESSITÀ immediate del paese. A inizio della prossima legislatura bisognerà cominciare a pensare ad una nuova legge elettorale da approvare in fretta, altrimenti l’Italia resterà difficilmente governabile. Così come lo sarebbe stata la Francia «che tutti adoriamo» senza il meccanismo elettorale che ha garantito a Macron una solida maggioranza. Poi ancora l’ennesima sottolineatura del concetto che Prodi dal palco ha ripetuto più e più volte: «Non è che la coalizione sia una cattiveria, è la democrazia di oggi che la richiede».

Il Fatto 18.2.18
Il governo costretto alle scuse per far pace con vescovi e Curia
Dopo le polemiche su mafia e Chiesa - Amen. Alla cerimonia per i Patti Lateranensi prima Boschi e poi Orlando fanno atto di contrizione
Il governo costretto alle scuse per far pace con vescovi e Curia
di Wanda Marra


“La campagna elettorale? Mi faccio tutti i vescovi del mio territorio, uno per uno”. L’ultimo a spiegare come si fa è stato il candidato Claudio Lotito. Il governo del Pd, dal canto suo, non è da meno e, dopo aver irritato assai la Conferenza episcopale italiana (Cei) e la Curia, ha dovuto cospargersi il capo di cenere nel corso della cerimonia per l’anniversario dei Patti lateranensi martedì scorso: hanno dovuto chiarire e scusarsi prima, irritualmente, la sottosegretaria Maria Elena Boschi in pubblico e poi, in privato, il Guardasigilli Andrea Orlando, il vero responsabile dell’incidente col Vaticano.
Tutto comincia a fine novembre durante gli Stati generali della lotta alle mafie organizzati a Milano dal ministero della Giustizia. Il problema deriva dal Tavolo 13 dedicato a “Mafia e religione”, coordinato dallo storico Alberto Melloni, da sempre vicino al Pd e in particolare ad Orlando: nelle conclusioni viene ad esempio menzionata, tra le “proposte non accolte”, quella di “costituire un osservatorio sulla predicazione in Italia, composto di studiosi e giornalisti, per consentire ai responsabili delle comunità di fede nelle quali si suppone vi sia un reclutamento criminale, di vigilare e poter intervenire”. E si parla di “un lavoro d’inchiesta” per “registrare lo stato attuale della predicazione pronunciata contro o a favore delle organizzazioni mafiose”. Una sorta di controllo delle omelie presenti e passate che non è piaciuto affatto alla Cei (che peraltro ai lavori del tavolo non aveva partecipato). Anche se le proposte non vengono accolte e dunque non se ne farà niente, il documento viene considerato un’invasione di campo inaccettabile. E, per di più, arretrato rispetto alla reale situazione della Chiesa.
Lo scontro a bassa intensità era iniziato già prima, quando Melloni – nella fase di preparazione degli Stati generali – chiede al segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, secondo quanto racconta al Fatto Quotidiano, di avviare una consultazione con i vescovi sui rapporti tra la Chiesa e la mafia. In particolare, gli chiede di raccogliere le omelie dei sacerdoti vittime di mafia dal 1945 in poi. Galantino non risponde. E così nella sintesi finale si legge: “La difficoltà manifestata dalla presidenza e dalla segreteria generale della Cei a contribuire in forma di audizione scritta ai lavori del tavolo e il diniego alla richiesta di indirizzare all’episcopato una lettera che chiedeva a ciascuna chiesa diocesana di confessione cattolico-romana di prendere posizione sul tema è indice della fattuale estraneità delle Chiese – o, almeno, sicuramente della Chiesa cattolica – a una lotta alle mafie che, essenzialmente, è condotta soltanto dalle istituzioni dello Stato”. E ancora: “Non siamo in grado di porre nelle condizioni il magistero dei vescovi diocesani e delle stesso vescovo di Roma di agire con efficacia contro le mafie”.
La cosa provoca l’irritazione di vescovi e Vaticano. Galantino, come detto, agli Stati generali non si presenta (il suo precedessore Angelo Bagnasco a quelli precedenti, dedicati all’esecuzione penale, c’era invece andato), ma all’assemblea dell’associazione antimafia “Libera” all’inizio di febbraio attacca duramente il documento di Melloni: “Tra le affermazioni, banalità non documentate, scritte con una buona dose di arroganza e sicuramente sostenute da preconcetti e mancanza di conoscenze dirette, leggo di una fattuale estraneità della Chiesa cattolica a una lotta alle mafie”. E invece nella guerra alle associazioni criminali “ci siamo anche noi. La Chiesa italiana ci sta. Ci stanno i singoli credenti, tanti preti e vescovi, tante realtà ecclesiali”.
Per un governo che con la Chiesa si è sempre preoccupato di tenere ottimi rapporti, l’incidente, a un mese dalle elezioni, non è proprio il massimo. E così la questione riemerge martedì per il compleanno dei Patti Lateranensi. Le delegazioni sono al gran completo. Lato Chiesa: il segretario di Stato Pietro Parolin, il sostituto monsignor Angelo Becciu e il segretario per i Rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher; per la Cei, Galantino, il presidente Gualtiero Bassetti e il portavoce, don Ivan Maffeis. Lato governo: Paolo Gentiloni, ovviamente, e i ministri Valeria Fedeli, Marianna Madia, Pier Carlo Padoan, Roberta Pinotti, Marco Minniti e la stessa sottosegretaria Boschi (oltre, ovviamente, al capo dello Stato Sergio Mattarella e al presidente del Senato Pietro Grasso). “La collaborazione tra noi e il governo italiano è molto buona”, chiarisce in apertura il presidente dei vescovi Bassetti. Poi, racconta chi c’era, butta lì un accenno a certe “incomprensioni” recenti. A portare pace ci pensa, zelante, Boschi: “Mi rifaccio a quello che ha detto Bassetti per ribadire la nostra ottima collaborazione. Se ci sono stati dei fraintendimenti, sono stati superati”. Non proprio delle scuse, ma quasi, e per di più concesse in modo inedito da una sottosegretaria alla presenza del premier e di molti ministri (nel governo Renzi era Luca Lotti che teneva i rapporti coi vescovi e Gentiloni non le ha mai affidato questo compito). Palazzo Chigi, comunque, appoggia Boschi: “Parla a nome del premier”.
Orlando era assente. Piuttosto singolare che si discuta di una cosa seguita dal suo ministero senza di lui. Il ministro però arriva dopo la cerimonia e si intrattiene con Galantino. Un “chiarimento” ulteriore è necessario. Melloni e il ministero (e il ministro) della Giustizia hanno fatto evidentemente il passo più lungo della gamba. Tanto è vero che lo stesso storico col Fatto minimizza: “Io e Galantino ci siamo chiariti. Quando nel documento parlavamo di estraneità, volevamo semplicemente riportare un fatto, ovvero che la Cei non ha collaborato con i nostri lavori. C’è stato un equivoco”. Se equivoco è stato, di certo è stato parecchio importante, visto che alla prima occasione il governo si è fatto bacchettare in pubblico.

Il Fatto 18.2.18
Emma Bonino è un’extraterrestre
di Furio Colombo


Avete notato che le Tribune politiche (par condicio, ognuno, da solo, dice la sua a qualcuno che ascolta in silenzio, come in una terapia) sono uguali ai talk show?
Il giornalista è diventato un prudente ufficiale di stato civile che prende nota, da estraneo ben educato. In questo modo certifica le più clamorose affermazioni, estranee del tutto alla realtà e ad ogni evidenza, e scoraggia il compito di verificare. I media sono sottomessi, spaventati e benevoli con i politici, come gli insegnanti nelle classi di certe scuole. Temono di essere picchiati.
Il meno violento dei leader anti-giornalismo ha detto che i giornalisti se li voleva mangiare, per poterli espellere nel modo che meritano. Dilaga un furore politico contro l’informazione. Il furore non è contro la verità, che ciascuno di noi già conosce dalla rete, prima che alcuni venduti ce la comunichino secondo le istruzioni ricevute, di solito, da Soros, vedi la storia delle Ong che facevano affaroni salvando gli annegati.
Il furore riguarda la pretesa di dimostrare con i fatti come le cose sono accadute. I fatti ingombrano il percorso dei politici e dei loro fans, sono ostacoli che vanno sciolti nell’acido delle “fake news”, che non sono bugie ma la grande trovata dei “fatti alternativi”.
È un lavoro grande e accurato, pieno di dettagli sbagliati da collocare nel punto sbagliato in modo da impedire ogni scoperta ragionevole. Proprio mentre il film americano The Post, di Steven Spielberg, racconta (ricorda dal vero) che sono state coraggiose e rischiose rivelazioni giornalistiche a far finire la guerra nel Vietnam e a scoperchiare la scatola di un potere senza controllo, noi viviamo in un Paese dove molte indagini essenziali per sapere e capire (da Piazza Fontana all’assassinio di Aldo Moro), si sono svolte (o sono state deviate) come l’inchiesta Regeni al Cairo o quella di Ilaria Alpi in Somalia. Esagero se dico che il tipo di reporting giornalistico che ho descritto rappresenta bene il modello giornalistico di queste elezioni, un gioco con due partecipanti, in cui ciascun intervistatore, ciascun commentatore, ciascun moderatore Tv seguono e assecondano i politici che vengono loro affidati, cercando in tutti i modi di non dispiacere mai, a costo di non rivelare niente, con moderate obiezioni e nessuna correzione, anche dopo affermazioni incredibili, se compare, in persona, il capo partito populista?
E così noi sappiamo da Giorgia Meloni, presidente, che la soluzione politica per tutti i problemi italiani, a cominciare dall’immigrazione, è nelle culle italiane, che lei farà tornare a crescere. Dovremo ammirare il coraggio di Luigi Di Maio, presidente, che, mentre si trova di fronte a rilevanti problemi di credibilità e di immagine, tra candidati massoni, candidati ribelli, candidati a 7 euro al mese di affitto, deputati già eletti altrove, e con altri partiti, deputati che non hanno pagato il dovuto secondo gli impegni del gruppo, proclama la settimana dell’orgoglio dei Cinque Stelle.
Sa che nessuno gli dirà che ha sbagliato settimana. Intanto, su un’altra rete e vari altri quotidiani, Salvini presidente si è già impegnato, senza obiezioni, a rimandare a casa subito 600 mila immigrati, secondo lui illegali, presumibilmente utilizzando la flotta italiana per anni.
Circondato da selve di microfoni, Berlusconi presidente spiega l’immediata efficacia della “flat tax” (tutti, da Benetton al conduttore di autobus, pagheranno la stessa tassa, anche se con conseguenze un po’ diverse e qualche buco nelle entrate dello Stato). Renzi, da parte sua, lavora duro ad allontanare più gente che può, fantasioso nella cattiveria e preciso nel colpire dove si perdono voti.
La sinistra invece ritorna al popolo, e nessuno fa notare che, purtroppo, non conosce la strada. Voi direte: ma Emma Bonino? Non fa parte di questo racconto. Per la sua diversità e quella di altri radicali (come Marco Cappato che non vede la necessità di lasciar morire qualcuno nel dolore) trovo un’unica spiegazione: sono extraterrestri arrivati in pochi, su una astronave troppo piccola. Ma non contate sui media.
Il giornalismo italiano, compresi gli esperti, (con pochissime eccezioni) si è organizzato per non correre rischi con politici permalosi.
Come si sa, l’Italia ripudia la guerra. E pazienza per i soldati italiani in Niger, e quel che succede in Libia. L’importante è stare in pace con potere e proprietà.

Corriere 18.2.18
Rileggere la storia
L’Austria e l’Alto Adige: idee inutili, forse dannose, non è questione di passaporti
di Sergio Romano


Durante la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento di Vienna un candidato ha promesso che il suo partito, se avesse vinto le elezioni, avrebbe offerto il passaporto austriaco a tutti i cittadini di lingua tedesca della provincia di Bolzano. L’uomo politico era Heinz-Christian Strache, leader di una forza politica (il Partito austriaco della libertà) che fu diretta da Jörg Haider e non nascose in alcuni momenti una nostalgica simpatia per il regime nazista. Haider è morto nel 2008 dopo avere addolcito le sue posizioni e abbandonato la sua vecchia famiglia politica.
m a il partito esiste ancora, ha ottenuto il 26% dei voti nelle elezioni dello scorso ottobre ed è il compagno indispensabile del Partito popolare austriaco nel governo presieduto dal cancelliere Sebastian Kurz. Strache, quindi, è vicecancelliere. Esisterà in Italia, nei prossimi anni, una provincia binazionale in cui Bolzano (città prevalentemente abitata da uomini e donne di lingua italiana) dovrà convivere con città e borghi (fra cui Bressanone, Brunico, Merano, Vipiteno) in cui la maggioranza degli abitanti è quasi sempre tedesca? Quali saranno i diritti e i doveri degli uni e degli altri? I neotedeschi conserveranno il loro passaporto italiano? Dovranno fare il servizio militare (in Austria esiste ancora) nella patria «riconquistata»? Avranno diritto di voto in entrambi i Paesi? Il governo di Vienna ha dichiarato che non intende prendere decisioni unilaterali e che tutto verrà fatto «con spirito europeo». Ma ha creato una Commissione che avrà il compito di studiare il problema e fare proposte. Se mi fosse permesso, farei qualche raccomandazione.
Raccomanderei alla Commissione, in primo luogo, di riflettere sull’uso che è stato fatto di proposte analoghe, soprattutto in tempi recenti. Qualche anno fa, prima della guerra russo-georgiana del 2008, mentre il clima fra i due Paesi stava rapidamente peggiorando, Mosca prese l’abitudine di concedere il passaporto russo agli abcasi e agli osseti: due gruppi etnici del Caucaso che la storia, la politica e la geografia, in epoca sovietica, avevano collocato all’interno dei confini georgiani. Le intenzioni russe non erano amichevoli. Irritata, non senza qualche motivo, dalla politica filo-americana del presidente georgiano Mikheil Saak’ashvili, la Russia di Dmitrij Medvedev e Vladimir Putin stava creando le condizioni per l’uscita dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud dallo Stato georgiano. Un confronto con i rapporti italo-austriaci dei nostri giorni sarebbe fuori luogo, ma non credo che il governo italiano abbia dimenticato gli anni in cui l’«irredentismo» austriaco nella provincia di Bolzano divenne bellicoso e soprattutto i molteplici attentati della «notte dei fuochi» fra l’11 e il 12 giugno 1961.
Raccomanderei alla Commissione austriaca, in secondo luogo, di rileggere la storia del modo in cui Roma e Berlino, dopo l’annessione tedesca dell’Austria nel 1939, decisero di risolvere il problema della provincia di Bolzano. Hitler era troppo interessato al valore politico della alleanza italiana per rimettere in discussione la frontiera del Brennero. Ma era troppo razzista per abbandonare una tribù germanica nelle mani di un popolo latino. Durante un incontro a Berlino con una delegazione italiana, il maresciallo Göring propose che ai cittadini italiani di lingua tedesca della provincia di Bolzano venisse offerta la possibilità di scegliere la cittadinanza tedesca. Avrebbero avuto il passaporto del Terzo Reich ma si sarebbero trasferiti in Germania dove il regime nazista avrebbe offerto abitazioni e condizioni di vita simili a quelle di cui avevano goduto sino al momento della partenza.
Gli optanti furono circa 185.000 e quelli che decisero di restare in Italia circa 80.000. Ma di lì a pochi mesi scoppiò la Seconda guerra mondiale e l’operazione «trasferimento» andò per le lunghe. Dopo l’8 settembre, quando le forze militari tedesche si installarono a sud del Brennero, le partenze furono interrotte e i giovani bolzanini furono reclutati dalla Wehrmacht. Nei primi mesi del 1949, alla stazione orientale di Vienna, ne ho incontrati qualche dozzina. Erano stati inviati a combattere sul fronte russo, avevano passato quattro anni nei campi di concentramento sovietici ed erano stati liberati come italiani quando due uomini di Stato (Alcide De Gasperi per l’Italia e Karl Gruber per l’Austria) avevano raggiunto una intesa: il confine dell’Italia sarebbe rimasto al Brennero e la provincia di Bolzano avrebbe avuto uno statuto di larga autonomia.
Negli anni precedenti era cominciato il ritorno in Italia di una parte di quelli che avevano scelto la Germania. Erano circa 20.000 e i loro faldoni pieni di documenti per il recupero della cittadinanza italiana occuparono per alcuni anni gli archivi della Prefettura di Bolzano e del Consolato generale d’Italia a Innsbruck: le due stazioni di transito per il lungo viaggio burocratico di coloro che avevano scelto di essere tedeschi nel momento sbagliato.
L’accordo De Gasperi-Gruber fu possibile perché entrambi i firmatari (il primo nato in provincia di Trento nel 1881, il secondo a Innsbruck nel 1909) erano stati cittadini austro-ungarici. Ma il diavolo, come sempre, era nei dettagli. Dopo la stretta di mano a Parigi il 5 settembre 1946 dovettero passare 23 anni prima che Aldo Moro e Kurt Waldheim, ministri degli Esteri dell’Italia e dell’Austria, firmassero un accordo a Copenaghen; e altri 3 per l’approvazione di uno Statuto che garantiva l’autonomia della Regione. Nel frattempo anche la provincia di Trento era salita bordo del treno per godere degli stessi vantaggi riservati a quella di Bolzano: un’operazione che ebbe l’effetto di riunire, come nel 1915, le sorti delle due città.
Alla Commissione direi infine che le riparazioni sono necessarie quando una macchina si rompe. Se continua a funzionare è meglio evitare riparazioni inutili e forse dannose.

il manifesto 18.2.18
Quel male oscuro nascosto nella normalità
Berlinale 2018. Parla Jan Gebert regista del doc «When the War Comes» dove ha seguito i membri di una formazione di estrema destra nella Repubblica Ceca
una scena di «When the War Comes», sotto il regista Jan Gebert
di Giovanna Branca


BERLINO «Come fa una società a sopravvivere senza anticorpi?». Peter, classe 1995, ha trovato una risposta: a soli 15 anni ha seguito un corso d’addestramento alle tecniche di combattimento in Russia e ora è il leader di una milizia paramilitare – lo Slovenski Branci – nella sua città natale in Repubblica Ceca. When the War Comes di Jan Gebert, presentato a Berlino nella sezione Panorama Dokumente, segue i membri di questa formazione di estrema destra nelle loro attività quotidiane: gli addestramenti nei boschi, ma anche le occupazioni più normali per dei ragazzi appena ventenni – le interazioni su facebook, le birre insieme, le chiacchiere con i genitori. Documentarista e giornalista, Jan Gebert racconta proprio la normalità di queste persone: «Non sono un centinaio di Anders Breivik (il terrorista autore degli attentati del 2011 in Norvegia, dove sono morte 77 persone, ndr). dice – e proprio per questo il loro progetto, assume dei contorni ancor più spaventosi. Le istituzioni, quando non li incoraggiano apertamente, li tollerano».
Il doc di Gebert, attraverso lo Slovenski branci, racconta così un male oscuro che non è confinato all’Europa centrale ma percorre tutto l’occidente: l’ascesa e la diffusione esponenziale di un pensiero intollerante e totalitario. Da un punto di vista opposto, When the War Comes si pone la stessa domanda di Peter: come sopravvivere a questo male senza anticorpi?
Come è nata l’idea di raccontare lo Slovenski branci ?
Ho scoperto la loro esistenza nel 2015, e sono rimasto molto colpito: non mi sarei mai aspettato che potesse esistere qualcosa del genere all’interno della Ue. Quando poi li ho incontrati mi ha sorpreso la loro «ordinarietà»: sono ragazzi normali, gentili. Per questo credo siano un buon esempio di come la classe media è stata progressivamente inghiottita da un’ideologia estremista – il segno di qualcosa che è andato storto nella nostra società.
Che relazione ha istituito con Peter, e con tutti i ragazzi della milizia?
Volevo che il dialogo fra me e Peter fosse basato su ciò che avevamo in comune: ho sempre cercato di comunicare con quella parte di lui che riconosco simile a me. È ciò che mostro nel film: un ragazzo normale, che conduce una vita come tante altre – e fa delle cose spaventose. Non gli ho mai mentito su ciò che penso della milizia, ma non ho mai neanche discusso di politica con lui. Peter è stato molto collaborativo e ci ha lasciato filmare quello che volevamo: perché è convinto di non avere nulla da nascondere, di essere dalla parte giusta della Storia.
In una sequenza Peter guarda in televisione il discorso d’insediamento di Donald Trump.
Hanno vissuto la sua elezione come se fosse una loro vittoria: è una delle prove più lampanti di come le loro convinzioni sono sempre più accettate. E non solo nella Repubblica Ceca – dove sono stati accolti solo sessanta rifugiati siriani, ma la classe politica ha creato la pretestuosa leggenda di un’Europa che sta cadendo a pezzi sotto le spinte migratorie. È un tacito riconoscimento che attraversa trasversalmente tutto il mondo occidentale, abbiamo molti esempi come la Brexit, l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump, la paura dilagante del terrorismo – una sorta di internazionale xenofoba. Anche per questo i membri dello Slovenski branci ambiscono a essere qualcosa di più che volontari di una milizia paramilitare, vogliono diventare un partito politico: sanno che le loro opinioni rappresentano il sentire comune. Il nome del partito c’è già: La nostra patria – Il nostro futuro, e ora Peter progetta di candidarsi al consiglio comunale il prossimo ottobre.

il manifesto 18.2.18
All’«Internazionale nera» risponde la Sofia antifascista
Bulgaria. La Bulgaria è nel semestre di presidenza Ue. Il premier ha dato l’ok alla sfilata neonazi
Nazisti bulgari picchettano di fronte alla casa di Hristo Lukov antisemita bulgaro ucciso dai partigiani comunisti nel 1943
di Yurii Colombo


Ieri «l’internazionale nera» si era data appuntamento a Sofia. L’occasione era il 75esimo anniversario della morte del leader nazista bulgaro Hristo Lukov ucciso dai partigiani comunisti il 13 febbraio del 1943. Lukov era un generale bulgaro che resse il ministero della guerra tra il 1935 e il 1938. Durante la sua partecipazione al governo invocò la «Legge per la protezione della nazione» – ben presto approvata – che proibiva il matrimonio tra ebrei e bulgari, l’imposizione di tasse proibitive nei confronti delle aziende semite, il divieto ai cittadini di «razza ebrea» di frequentare l’università.
IN SEGUITÒ FONDÒ l’organizzazione nazista «Unione delle legioni nazionali bulgare», formazione affine alla rumena «Guardia di ferro» che si distingueva per i pogrom antisemiti, xenofobia, tradizionalismo, culto della gerarchia. La sua organizzazione giovanile aveva come logo la svastica e collaborò attivamente con la Wehrmacht durante la Seconda guerra mondiale. La sua «Legione» partecipò alla caccia degli ebrei nei territori occupati dai bulgari nel nord della Grecia, in Serbia e Macedonia, che portò alla deportazione di 11.300 persone nell’inferno del campo di concentramento di Treblinka.
IL RADUNO, aveva avuto un prologo venerdì sera quando dopo una riunione a porte chiuse, i nazisti si erano ritrovati in un club della capitale per il concerto di un gruppo rock russo di estrema destra.
Alla manifestazione di ieri organizzata da due formazione neofasciste bulgare, l’«Unione nazionale bulgara» e la «Resistenza nazionale bulgara» hanno aderito la tedesca «Europa svegliati!», formazioni dell’estrema destra svedese, rumena e ungherese e la famigerata Alba Dorata greca che ha raggiunto Sofia con due torpedoni, scortati dalla polizia sin dal confine. Purtroppo il governo bulgaro da sempre autorizza quello che è diventato ormai un appuntamento fisso della destra europea.
QUEST’ANNO però nel pieno semestre di presidenza bulgara dell’Unione europea ci si attendeva che il governo di centro-destra con un gesto di responsabilità democratica vietasse il raduno. Già da settimane il Partito socialista, il sindaco di Sofia Yordanka Fandukova e «Antifa Sofia» avevano chiesto la proibizione della parata nazista nel centro della capitale. La comunità ebraica si era mobilitata raccogliendo 178mila firme online contro la manifestazione, mentre il vice presidente mondiale della Comunità Ebraica Robert Singer si era appellato alla Commissione europea perché facesse pressione sul governo per impedire quella che nel comunicato della comunità ebraica era stata definita una «ignobile messa in scena». Mercoledì anche il governo russo si era dichiarato «preoccupato per le reiterate manifestazioni neonaziste nel centro Europa».
E IERI MATTINA è arrivato anche un appello di alcuni deputati del Congresso americano che chiedevano, in extremis, che la manifestazione fosse vietata. Malgrado ciò Boyko Borisov, il primo ministro bulgaro, ha confermato l’autorizzazione al raduno. Alla fiaccolata neonazista a cui hanno partecipato inquadrati in file ordinate circa 1.500 persone, sono stati lanciati slogan contro l’Ue, contro il cosmopolitismo e l’«invasione della razza negra». Massiccia la presenza di forze dell’ordine: il ministero degli interni ha mobilitato oltre 6mila poliziotti.
Alla contromanifestazione indetta dal partito socialista e aperta da un grande striscione «No ai nazisti nelle nostre strade» hanno aderito vari raggruppamenti della sinistra bulgara, associazioni dei diritti umani e dei sindacati; hanno partecipato anche delegazioni della sinistra rumena e ucraina. Il corteo composto da circa 15mila persone si è snodato dal giardino vicino alla Museo di Storia passando per la sede dell’Ue per poi concludersi davanti alla sede del municipio.
Durante il corteo un gruppo di 500 attivisti di «Sofia Antifa» si è staccato dalla manifestazione ufficiale cercando di raggiungere la fiaccolata neofascista. Pur non riuscendo nel loro scopo hanno impegnato le forze dell’ordine in scontri che sono terminati solo a tarda sera.

il manifesto 18.2.18
Il ricatto di Israele ai rifugiati è realtà
Israele. Diventa operativo l'emendamento alla "legge degli infiltrati", approvato in dicembre. Duecento richiedenti asilo africani dovranno comunicare la loro decisione: l'uscita "volontaria" dal Paese o la prigione.
di Michele Giorgio


Duecento eritrei saranno oggi i primi richiedenti asilo africani a dover comunicare alle autorità israeliane la loro decisione: l’uscita “volontaria” dal Paese o la prigione. Diventa operativo l’emendamento alla “legge degli infiltrati”, approvato in dicembre, che ha sollevato polemiche e proteste, anche da parte di intelletuali, artisti ed esponenti religiosi – alcune famiglie si sono impegnate a nascondere in casa loro i richiedenti asilo – ma che gode, secondo un sondaggio, il sostegno del 66% degli israeliani. Forte del favore di 2/3 della popolazione, il governo Netanyahu non è arretrato di un metro rispetto a quanto ha deciso alla fine dello scorso anno. Vuole deportare mensilmente almeno 600 dei circa 38mila africani – Il 72% sono eritrei e il 20% sudanesi – entrati fra il 2006 e il 2012 nel Paese passando per il Sinai, prima che Israele costruisse un muro al confine con l’Egitto. Ad ostacolare i piani del governo ci sono solo le sentenze dei tribunali. Qualche giorno fa una corte ha riconosciuto come gli eritrei fuggiti dal loro Paese per evitare il servizio militare abbiano titolo per ottenere l’asilo politico. Quanto questa sentenza potrà avere un impatto non è facile stabilirlo con un esecutivo che ha dimostrato di saper trovare le scorciatoie legali per aggirare i giudici e continuare la sua politica contro gli “infiltrati”.
Presi di mira per primi sono gli uomini single. Una volta ricevuta la notifica del governo devono scegliere se partire, con in tasca 3500 dollari, o finire in una cella. Per molti, specie gli eritrei, il ritorno in patria vorrebbe dire essere arrestati o uccisi. Chi non vuole tornare al Paese d’origine viene portato in Ruanda o Uganda, esponendosi ad un pericoloso salto verso l’ignoto. Lo scorso 7 febbraio migliaia di richiedenti asilo – acccompagnati da Reuven Abergil, un leader del movimento israeliano delle “Pantere Nere” attivo negli anni Settanta – avevano manifestato davanti all’ambasciata del Ruanda a Herzliya, a nord di Tel Aviv, esponendo cartelli con la scritta «La nostra espulsione in Ruanda equivale a una condanna a morte». Alcuni si erano dipinti il volto di bianco: «Adesso che siamo bianchi anche noi – hanno scandito – ci espellerete ancora nel Ruanda?».
Resta avvolta nel mistero la collaborazione tra il Ruanda di Paul Kagame – ora alla presidenza di turno dell’Unione Africana – e il programma di deportazioni degli eritrei e dei sudanesi messo in atto dal governo Netanyahu. Kagame ripete che non esiste alcun accordo con Israele e che il Ruanda non ha dato la sua disponibilità a ricevere i richiedenti asilo espulsi. I media israeliani invece insistono sull’intesa tra i due Paesi e aggiungono che il Ruanda riceverà 5000 dollari per ogni deportato e altri non meglio precisati “benefici”. Nei giorni scorsi il giornale progressista on line +972 ha pubblicato il reportage da Kigali scritto da due deputati israeliani, Mossi Raz e Michal Rozin, del partito Meretz. Entrambi hanno avuto modo di incontrare alcuni eritrei espulsi negli anni passati. E il loro resoconto descrive una realtà ben diversa da quella positiva e colorata del Ruanda che raccontano in Israele a sostegno della politica di deportazioni. Alcuni degli intervistati – spinti ad accettare l’espulsione di fronte alla prospettiva di essere rinchiusi nel cosiddetto “centro di accoglimento” di Holot, nel deserto del Neghev – hanno riferito che le autorità locali fanno enormi pressioni sugli espulsi da Israele affinché lascino subito il Paese, già 2-3 giorni dopo il loro arrivo. gettandoli di fatto nelle braccia dei trafficanti di essere umani. Un atteggiamento che non sorprende se si tiene conto della politica del Ruanda verso i 170mila profughi del Burundi e della Repubblica democratica del Congo che ospita malvolentieri nel suo territorio. Gli espulsi da Israele perciò in buona parte entrano in Uganda, altri si spingono verso il Nord Africa dove, al termine di un viaggio che può costare la vita e persino la riduzione in schiavitù, provano dalle coste libiche a raggiungere le coste dell’Europa.
Messi in guardia da coloro che già sono stati deportati, molti dei richiedenti asilo ora in Israele sembrano decisi ad andare in prigione piuttosto che in Africa. E l’amministrazione carceraria israeliana ha già segnalato che non potrebbe esserci posto per tutti gli africani che rifiutano la deportazione.

Corriere 18.2.18
Paolo Portoghesi

«Che danni dalle archistar Ho ricevuto minacce di morte per la Moschea di Roma»
di Paolo Conti


L’architetto: credo ancora nel socialismo, ma Craxi sbagliò
P aolo Portoghesi, 86 anni il 2 novembre scorso. Per molti «Portoghesi» è sinonimo di Grande Moschea di Roma. Cosa significa per lei quell’edificio?
«Una straordinaria occasione. Sono romano. Era un punto d’onore, per me architetto, lasciare a Roma un segno. Sono stato fortunato: è un’opera di grande valore simbolico, rappresenta per la Capitale il suggello della libertà religiosa, il ritorno alla ricchezza che viene dalle differenze e dalle molteplicità. Come successe quando arrivò il Cristianesimo nella Roma dell’Impero».
Una storia durata vent’anni, dall’ideazione nel 1973 all’inaugurazione nel 1995. Allora l’Islam faceva meno paura...
«Veramente faceva già paura ai tempi. Il sindaco di Roma, Giulio Carlo Argan, io e Vittorio Gigliotti, che lavorò con me al progetto, fummo minacciati di morte. Circolarono volantini: “Vi gambizzeremo”. Li conservo ancora... Molta paura, ma non successe nulla. Erano cattolici di destra, e frange del Msi. Poi la destra si scusò, ammise di aver sbagliato».
Dicono che Papa Paolo VI avesse dato via libera. È così?
«Certo. Non ci fu nulla di ufficiale. Ma il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, annunciò in un viaggio ufficiale in Arabia Saudita il progetto della Moschea. Nell’Italia di allora, non avrebbe potuto farlo senza il sì del Vaticano».
Torniamo ai simboli della Moschea: arte, religione, dialogo...
«...e petrolio, direi. Leone si impegnò sulla Moschea ed ebbe in cambio la promessa del petrolio, allora essenziale».
Soddisfatto, oggi, del risultato estetico?
«Non sono mai soddisfatto di ciò che ho realizzato, penso sempre che avrei potuto fare di meglio. Ci furono discussioni, una dolorosa lite con Bruno Zevi... Ma Argan, grande storico dell’arte, mi disse: “Sapevo che eri un ottimo storico dell’architettura, vedo che sei anche un eccellente architetto”. L’opera è citata in tutte le maggiori storie dell’architettura del mondo. La Moschea di Roma ha anche una figlia, la Moschea di Strasburgo, oggi luogo di dialogo tra le tre grandi religioni monoteiste. Le due Moschee sono straordinarie macchine di avvicinamento».
Tra i due Grandi Duellanti, Bernini e Borromini, lei ha subito scelto il secondo. Perché?
«Sono nato con sant’Ivo alla Sapienza negli occhi, abitavo in via di Monterone, scrissi il mio primo testo su Borromini a sedici anni. Di lui amo la libertà di operare all’interno della classicità, ma facendola muovere, quasi risvegliare, aprendo una nuova stagione creativa, spalancando spazi di sperimentazione all’architettura e, quindi, la via alla stessa avanguardia».
Nel 1980 lei firmò la sua Biennale Architettura di Venezia con la Via Novissima invitando nomi dal grande futuro: Frank Gehry, Rem Koolhaas, Charles Moore, Hans Hollein. Ora molti riconoscono quell’intuizione.
«Erano tutti, guarda caso, fanatici di Borromini. Conoscevo bene quei talenti creativi e speravo che sviluppassero una sorta di unità nel solco della tradizione, anche nella ricchezza delle posizioni diverse. Invece hanno proceduto per vie individuali, all’insegna dell’avanguardia. Sono diventati Archistar...».
Ma l’avanguardia non è contemporaneità?
«La modernità è stata esaltata e nello stesso tempo interrotta dall’avanguardia. Sono convinto che l’arte possa riconquistare il suo prestigio superando l’avanguardia e non continuando a innovarla con risultati modesti ed enorme fatica».
Detesta il sistema delle Archistar?
«I cambiamenti climatici impongono una radicale svolta negli stili di vita. L’Occidente dovrà smettere di credere nella crescita infinita e nel dominio dell’economia sulla cultura. Oggi occorre un’architettura semplice, quotidiana, figlia dei luoghi, capace di risolvere i problemi della gente comune. Non di crearne».
Ha qualche danno da Archistar in mente?
«Potrei fare facili esempi, ma non mi sembra il caso. Qualcuno è stato mio allievo».
Lei sostenne il Psi di Craxi, di cui fu grande amico. Rinnega quell’esperienza?
«Non rinnego la fiducia nell’ipotesi legata al socialismo, un filone di pensiero al quale mi sento ancora legato. Mi iscrissi al Psi nel 1961. E ricordo i primi anni di Craxi segretario, molto timido, incapace di trovare i fondi per rinnovare il partito: la Dc poteva contare sui soldi Usa, il Pci su quelli russi... Craxi oggettivamente sbagliò, pensando di risolvere il problema rivolgendosi alle attività imprenditoriali. Un metodo assolutamente non condivisibile. Però ho sempre pensato che Craxi sia stato distrutto dal progetto del Pci di arrivare al governo passando sul suo cadavere. Ma sono mie considerazioni personali...».
Lei fece parte del Comitato Centrale del Psi.
«Sì, ma non ho mai fatto parte di ciò che era chiamato sottogoverno. Sono uscito indenne. Non sono mai stato nemmeno ascoltato da Di Pietro».
Ricorda la Milano da bere e la Roma socialista?
«La prima no, ero preside ad Architettura nella Milano degli anni precedenti. Mai avuto simpatie per la Roma socialista. Con mia moglie Giovanna vedevamo molta gente in casa, in via Gregoriana: scrittori, intellettuali, Fellini, De Chirico. Per il piacere di mettere insieme persone diverse».
Lei è sposato con Giovanna Massobrio dal 1971. Cosa ha significato per lei un’unione così solida?
«Sono di natura timido, ho la vocazione alla solitudine: da bambino i miei miti erano Borromini, Leopardi e Rimbaud. Giovanna mi ha regalato mille stimoli e curiosità, tra cui quella per la vita sociale. Abbiamo scritto insieme libri sulla storia del gusto. Senza di lei non sarei quello che sono».
Possibile che l’essere legato al Psi non sia mai stato un vantaggio?
«Indubbiamente mi ha facilitato nella designazione alla Biennale architettura nel 1980 e poi alla presidenza della Biennale. Ma ho subito combattuto contro chi chiedeva favori e assunzioni. Non ho proprio nulla da rimproverarmi».
Dieci anni fa lei ha inventato, per la facoltà di Architettura de La Sapienza a Roma, un nuovo insegnamento, Geoarchitettura. Perché?
«Perché penso che l’architettura debba cambiare strada, diventare un’arte collettiva vicina alle persone che vivono e lavorano nelle città, nei luoghi. Un motivo di conforto mi arriva dalla diffusione della Street Art che, per esempio a Roma, opera dopo aver consultato gli abitanti dei quartieri e riscuotendo il consenso non dei piccoli e ricchi clan che sostengono un’arte contemporanea sempre più astrusa e incomprensibile, ma di intere collettività, spesso entusiaste. Si rivede così la fiducia nella figurazione, nello splendore dei colori, magari con ingenuità».
L’arte contemporanea è davvero astrusa?
«La tragedia della sua incomunicabilità penso sia palese alla stragrande maggioranza delle persone. L’arte deve tornare alla bellezza che è, come dice Stendhal, promessa di felicità. L’arte contemporanea si crogiola invece nell’esteticità. Ben altra cosa».
Nella sua casa di campagna a Calcata, con sua moglie ospitate un vero zoo: gru, cicogne, pavoni, muli. Perché?
«Li abbiamo scelti per la loro bellezza. La nostra generazione ha scoperto che siamo tutti figli della natura. L’Homo Sapiens è l’unico essere responsabile, ma condivide con gli altri un intero mondo, compresi alcuni diritti. Il primo fu un asino: vedendo il film Au hasard Balthazar di Robert Bresson scoprii quanto l’asino somigli all’uomo».
Col libro «Il sorriso di tenerezza/ Letture sulla custodia del creato» lei richiama esplicitamente le parole di Papa Francesco. Cosa pensa di lui?
«Penso sia l’unica persona capace di convincere il mondo contemporaneo a cambiare stili di vita, a difendere l’ambiente, ma evitando che terra e natura vengano divinizzate. Tentazione ricorrente dell’ambientalismo».
Concludendo: pensa di essere un architetto compreso o incompreso?
«Devo compiere un peccato di superbia. Credo che ciò che ho fatto non sia stato ancora compreso veramente e magari lo sarà tra trenta o cinquant’anni. Ho avuto e ho molti nemici ma se davvero si cambiasse stile di vita, si capirebbe che la mia architettura è “calda”, non “fredda”. Jean Clair parla della “giustizia delle forme”. Prendiamo Marcello Piacentini. Hanno tentato di distruggerlo dandogli del fascista... ma alla fine ha prevalso la “giustizia delle forme”. Un caso che apre il cuore alla speranza».

Corriere La Lettura 18.2.18
Una mostra al Muse di Trento
Ecco sei eccezioni
di Telmo Pievani


Al centro della mostra organizzata dal Museo delle Scienze (Muse) di Trento si apre uno spazio allestito come una piazza. I visitatori incontrano sei personaggi, immaginari ma del tutto verosimili, le cui vicende personali hanno un elemento in comune: in un modo o nell’altro hanno tutte a che fare con predisposizioni genetiche verso malattie o particolari tratti caratteriali.
Ascoltando le loro storie capiamo quanto sia sbagliato pensare al Dna come a un destino già scritto. Il manifestarsi di una predisposizione genetica è quasi sempre questione di probabilità e di fattori molteplici che interagiscono: i geni certo, ma anche l’ambiente, gli stili di vita, una discreta dose di casualità. Lo sanno bene i gemelli omozigoti come Alice ed Elena: condizioni interne (gli stati infiammatori) ed esterne (la dieta, l’esercizio fisico, i traumi, l’esposizione a virus e batteri) modulano l’espressione dei geni. Il genoma non è un invisibile oracolo interno che dirige l’orchestra delle nostre esistenze, è piuttosto il pezzo forte di una ricetta che contempla altri ingredienti.
Raramente una malattia ereditaria è conseguenza di una singola mutazione, come nei casi di Niccolò e di Angela qui. Assai più spesso una pluralità di geni congiurano fra loro nel causarla. Figuriamoci quali complesse reti genetiche sono coinvolte nei nostri comportamenti sociali, nella nostra intelligenza, nell’iperattività di Jomo o nel talento sportivo di Ammy. E poi ancora molto ci sfugge. Il Dna è come un linguaggio di cui conosciamo bene l’alfabeto (le quattro basi e la loro sequenza), un po’ di parole (i geni), qualche regola sintattica (le strutture di connessione tra i geni) e poco della semantica, cioè di come interagisce con ciò che gli sta attorno. Il genoma è una giungla in gran parte inesplorata. Non sappiamo per esempio quali mutazioni genetiche causino la sinestesia di Daniele.
Tutto ciò dovrebbe indurre cautela quando si parla di cause genetiche di comportamenti e talenti. E invece siamo ormai entrati nell’era dei test genetici per tutti: basta andare in rete, contattare una ditta specializzata e mandare un campione di saliva. Quando nel supermercato genetico sarà possibile ottenere il proprio genoma sequenziato per qualche centinaio di euro, come potremo interpretare i dati che riceveremo? Le compagnie di assicurazione potranno violare la nostra privacy genetica? Ma soprattutto, come si fa a comunicare a un paziente una predisposizione genetica, cioè una probabilità?
La genetica umana del futuro promette medicine personalizzate e correzioni del genoma. Vivremo più a lungo e potremo prevenire e curare molte malattie terribili. Ma servirà una consapevolezza genetica di massa. Il 99,8% del Dna è identico in qualsiasi essere umano, dovunque viva. Il restante due per mille rende ogni individuo unico, portatore cioè di piccole differenze, difficili da trovare come aghi in un pagliaio. Piccole differenze che fanno la differenza, come nelle sei storie che seguono.

Corriere La Lettura 18.2.18
Kiefer ritrae il filosofo venuto dal Nulla
Paralleli Il pittore e scultore tedesco espone a Parigiuna mostra ispirata all’opera di Andrea Emo, morto nel 1983, pensatore abissale, auto-recluso, «postumo» quasi per scelta. Sorprendentemente, ma non troppo... Ecco che cosa hanno in comune
di Vincenzo Trione


Celan, Novalis, Nietzsche, Benjamin, Rilke, Hölderlin, Bachmann. Nelle pieghe delle sue complesse cosmogonie, Anselm Kiefer ama nascondere suggestioni più o meno evidenti tratte da filosofi, da scrittori e da poeti. Nella sua plurale cartografia culturale da qualche tempo è entrata anche una voce inattesa. Non un classico, ma un pensatore irregolare, poco conosciuto, schivo, solitario, anti-accademico, nato nel 1901 (e morto nel 1983), veneziano di origini nobili, amico di personaggi come Alberto Savinio, Ugo Spirito e Cristina Campo, formatosi alla scuola di Giovanni Gentile alla Sapienza di Roma (senza mai laurearsi), autore di un vasto corpus di appunti, scoperto nel 1986 da Massimo Cacciari, che ne promosse la (parziale) pubblicazione in un volume, Il dio negativo (Marsilio, 1989).
L’incontro iniziale con questo filosofo clandestino risale al 2015. Lo scrittore, editore e teologo Klaus Dermutz suggerisce a Kiefer di leggere la traduzione tedesca di Il dio negativo . Una rivelazione. Asistematici, ricchi di illuminazioni, quei frammenti compongono una costellazione all’interno della quale si riarticolano ininterrottamente le medesime idee, che delineano i contorni di un’originale teologia della negatività. In quegli aforismi l’artista riconosce qualcosa che già gli appartiene: è come se Andrea Emo avesse pre-visto domande che da tempo lo tormentano.
Questa affinità è testimoniata ora da una mostra — Für Andrea Emo — appena inaugurata alla Galerie Thaddaeus Ropac di Parigi (fino al 31 maggio). Vi sono esposti 20 dipinti di grandi e medie dimensioni insieme con tre sculture-gabbie. Opere su cui sembra allungarsi l’ombra di Emo. Il quale — soprattutto negli scritti radunati in Le voci delle Muse (Marsilio, 1992) e nel volume In principio era l’immagine (a cura di Massimo Donà, Romano Gasparotti e Raffaella Toffolo, in uscita nel prossimo autunno da Bompiani) — intende l’arte come esperienza metafisica. Non rispecchiamento del reale, né scrigno di simboli, ma estremo tentativo per manifestare l’Assoluto, che tuttavia può svelarsi solo ritraendosi.
«Resurrezione dell’infinito nelle forme dell’individuo», la grande arte ha l’ambizione di rappresentare l’irrappresentabile, per tendere verso quel luogo dove le immagini si annullano: il vuoto, l’oblio. Territorio «dell’inconciliabilità», si consegna come lotta non per creare ma per «de-creare». Sepolcro che contiene il nulla. Perché «dentro (le opere) non c’è nulla». Per pronunciare il silenzio che ogni icona custodisce, l’artista, secondo Emo, deve andare al di là di ogni strategia, fino a far coincidere l’«assoluta necessità» con il «perfetto arbitrio», pensando il proprio gesto come «negazione universale (che) è insieme pace e sicurezza, abisso e ascensione», violazione di ogni scopo e di ogni responsabilità, «rinuncia alla volontà, al desiderio, al possesso, a tutto».
Cogliendo il significato autentico di questa prospettiva teoretica, Anselm Kiefer dice: «Quando ho letto Il dio negativo , all’improvviso mi è apparso chiaro che la filosofia di quell’autore fosse quasi la sovrastruttura intellettuale e spirituale del mio modo di fare. Per me, il vero artista è sempre stato un iconoclasta impegnato a mettere in scena un ordine prossimo a naufragare nel nulla. Ma non ero mai stato in grado di formulare questo concetto con la lucidità con cui lo ha fatto Emo. Che ci invita a riflettere su alcune questioni decisive: tutto ciò che facciamo tiene già in sé la sua negazione; l’immagine senza iconoclastia è un mistero profanato; la salvezza non sta nell’esito del lavoro, ma nel lavoro stesso. Anche per me i dipinti non dovrebbero mai essere una ricompensa».
Questo giudizio sottolinea la centralità di tre nozioni-chiave — nulla, autonomia dell’opera, iconoclastia — intorno a cui ruotano sia l’estetica di Emo che la poetica di Kiefer.
Nulla
Emo scrive: «Le nostre opere sono i nostri monumenti funebri. (...) L’arte è l’arte di vedere l’invisibile, cioè la presenza. La presenza è l’inaccessibile, l’irraggiungibile. (...) Il solo ignoto». Si pensi alle opere «emiane» di Kiefer. Tante le differenze con i suoi più celebri cicli. Nessun riferimento politico e civile. Nessun rinvio mistico-religioso. Nessuna traccia di motivi archeologici o di abbandoni erotici. È come se Kiefer, sulle orme dell’estetica di Emo, volesse lambire il nulla. Capitoli di un discorso intimamente nichilistico, le sculture e i quadri più recenti sono esercizi di riscrittura della «cosa ultima». Ipotesi ardite per abitare l’oscurità. Quella «notte impossibile» cara a Novalis. Il niente è la meta ultima.
Autonomia dell’opera
Emo scrive: «Lo scrittore, l’artista, può essere radicalmente consapevole di ciò che dice? Non è forse questa una via mortale che impedisce ogni espressione, e cioè creazione? La creazione è inconsapevole». Anche Kiefer è convinto che l’opera d’arte, pur offrendosi come palinsesto meditato e segnato da tanti echi dottrinari, possieda una propria vita. Rispetto a essa, l’artista è quasi un errore biologico. È l’origine. Può dare l’avvio al processo visivo, ma quel processo si svilupperà indipendentemente dalla sua volontà. Incapace di essere fino in fondo padrone a casa propria, egli ha «solo» il compito di violentare ogni rigida progettualità. Per porsi in ascolto di intenzioni già racchiuse nelle materie da lui adoperate.
È questa la ragione che spesso spinge Kiefer a servirsi dell’elettrolisi per modificare alcune sue iconografie: «Una parte dell’immagine scompare. Quello che resta si modificherà nel tempo». Altre volte Kiefer seppellisce i suoi dipinti sotto terra; li ricopre di pittura nera; li innaffia con acqua sporca; li espone alle intemperie, quasi per restituirli alla natura.
Per eseguire le opere esposte adesso a Parigi, Kiefer è ricorso a una tecnica diversa: più violenta. Le ha sistemate a terra. Poi ha riempito alcuni recipienti di ferro — sorretti da una lunga asta — di piombo bollente, che ha versato su superfici già occupate da immagini, senza poter (e volere) orientare l’approdo finale. Il progetto viene messo in crisi dal proprio destino: da un fallimento sempre incombente. Kiefer si chiede: «Il risultato sarebbe stato diverso se il liquido fosse fluito in un altro modo?».
Iconoclastia
Altri passaggi dei taccuini inediti di Emo: «L’artista è un alchimista inteso a trasformare il piombo delle cose o dei fatti nell’oro incorruttibile dell’espressione. (...) L’arte ha valore come esorcismo, esorcismo della maledizione ad essa immanente. È un’autentica ala sull’abisso». Si osservino di nuovo le opere ispirate da Emo. Sembrano alludere a un viaggio al termine della notte, che conduce dalla «determinatezza» all’«indeterminatezza». È il trionfo dell’impuro. Le sculture: gabbie dentro cui vengono composti reperti e fossili scampati a un’invisibile apocalisse. E i quadri: che, dotati di una potenza linguistica nuova, si fondano su una ritualità barbarica. Dapprima, Kiefer dipinge visioni. Che, poi, copre in parte o cancella del tutto. Le distrugge, ammantandole sotto colate di piombo fuso. Si consegna a un atto di distruzione: «Senza rabbia, senza disperazione». Che è anche un atto di rigenerazione. Lasciando affiorare barlumi, epifanie: come resti di affreschi sommersi sotto strati di lava. È come se, dipingendo, volesse interrogarsi sulle possibilità estreme del dipingere.
Per cogliere il valore profondo dei diversi episodi pittorici e plastici di Für Andrea Emo , potremmo ritornare alle lectures tenute al Collège de France di Parigi nel 2010 da Kiefer, secondo il quale l’artista deve innanzitutto decostruire, mettere in discussione e poi abbattere i monumenti da egli stesso edificati in precedenza. Concependo la propria pratica come avventura sovversiva. Modo per «volersi male». Navigazione insicura tra «il niente e il qualcosa». L’opera d’arte, scrive Kiefer, non va contemplata ma maltrattata, aggredita. Solo in questo modo potrà sorgere una bellezza inquieta e perturbante, che viva come rovescio di se stessa. «L’autodistruzione è lo scopo più intimo, più sublime dell’arte».

Corriere La Lettura 18.2.18
il destino umano in bilico sul vuoto
di Andrea Emo


«Un filosofo deve pensare con giusto orgoglio alle reazioni (più che alle azioni) che il suo pensiero susciterà. Le reazioni a lui ignote che il suo pensiero susciterà sono la miglior parte della sua opera»: così si esprimeva Andrea Emo nel 1973, in uno delle centinaia di quaderni scritti al riparo di quella che lui stesso considerava una radicale «inettitudine alla vita». Il suo era un pensiero abissale, che non voleva rendersi pubblico. Non a caso sarebbe diventato un filosofo «postumo», scrivendo appunti fitti, riflessioni quasi quotidiane, talvolta malinconiche, in cui irradianti folgorazioni riuscivano spesso a illuminare un pensiero che sarebbe apparso come un diamante del Novecento. Il suo è stato definito un nichilismo radicale; sicuramente originale ne è stato lo svolgimento.
Per lui, infatti, intuire che tutto è espressione del Nulla, non significava indebolire la portata tragica degli eventi della storia, ma farsi al contrario capaci di riconoscerne la preziosa sacralità. Sì, perché dire «Nulla» significa per Emo evocare l’Assoluto in tutta la sua possanza; in tutta la sua ineludibilità. Significa consegnare scelte e azioni degli umani a un destino curioso e paradossale; mostrandone la vanità e il ridicolo, ma nello stesso tempo affidandole a un gioco tragico disposto ad assicurare una salvezza solo a chi non l’avesse cercata. Anche la tradizione cristiana, di cui Emo si sente fedelissimo erede, va per lui riletta alla luce dell’irrisolvibile paradosso costituito da una morte (quella di Gesù) che non salva in virtù di una futura resurrezione, ma proprio «annichilendo», liberando la vita dalla presuntuosa volontà di resistere ai colpi inferti da una vicenda cosmica che tutto sembra destinata a corrompere e consumare.
L’unica possibilità per un esistere consapevole del giogo infernale del destino rimane quella di assecondare le onde dell’immane potenza «negativa» da cui siamo tutti originariamente mossi, anche quando ci proponiamo di costruire qualcosa di memorabile, magari eterno. Negare tutto, sì; ma non per chiudere gli occhi e considerare l’esperienza come la trama di un semplice «sogno senza costrutto», quanto per potersi riconoscere «grandi» finanche nella misera contingenza di gesti che continueranno a dimostrare che siamo nati storti — perché diciamo di volere la libertà, ma temiamo la solitudine che essa implica. Così come temiamo il vuoto che ogni cosa vorrebbe furbescamente ricoprire, ma cerchiamo disperatamente di riempirci l’anima con quello stesso vuoto — affidandoci alle opere d’arte… le sole che riescano a farlo trasparire e a renderlo accettabile, facendolo apparire «bello». Riconsegnando le cose al loro insondabile mistero. E d’altro canto, per lui (così diceva Emo), «il pensiero, la ragione, non sarebbero tanto luminosi (non sarebbero la luce stessa) se non fossero alla fine il riconoscimento, la visione della loro meravigliosa oscurità, del loro meraviglioso mistero».