Il Fatto 14.2.18
Molestate 4 donne su 10. L’80% non lo dice a nessuno
Rapporto Istat - 8,9 milioni (e 3,8 milioni di uomini) riferiscono almeno un episodio, ma c’è un lieve calo. Casi costanti sul lavoro
Molestate 4 donne su 10. L’80% non lo dice a nessuno
di Lorenzo Giarelli
Quasi una donna su due è stata vittima di molestie sessuali in Italia nel corso della propria vita. È il dato più allarmante emerso dal rapporto Le molestie e i ricatti sessuali sul lavoro pubblicato ieri dall’Istat e riferito a una ricerca del 2015/2016, secondo cui sarebbero 8 milioni e 816mila (il 43,6% del totale) le donne tra i 14 e i 65 anni che nel corso della loro vita hanno subito qualche forma di molestia sessuale. Le vittime negli ultimi tre anni (2 milioni 578mila) sono in calo rispetto alle 3 milioni e 778mila rilevate nel triennio 2007-2009. E per la prima volta il rapporto rileva anche dati sulle molestie subite dagli uomini: sarebbero 3 milioni 754mila gli uomini che hanno subito molestie nel corso della propria vita (il 18,8% del totale), di cui 1 milione 274mila negli ultimi tre anni (6,4%).
La ricerca Istat, basata su un campione di oltre 50.000 intervistati, fornisce indicazioni anche sulle molestie in ambiente lavorativo. Secondo le stime sarebbero 1,4 milioni le donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro, di cui 425mila negli ultimi tre anni di riferimento. Non solo: sono rispettivamente l’11,9% e il 10,1% le vittime che per essere assunte hanno ricevuto ripetute richieste di prestazioni sessuali e offerte di disponibilità sessuale dal datore di lavoro, ed è altissima (32,4%) la percentuale delle donne che ancora dice di ricevere quotidianamente o più volte a settimana ricatti sessuali sul posto di lavoro.
Un quadro ancor più preoccupante se si considera che nell’80,9% dei casi le vittime preferiscono non parlare delle violenze con i colleghi o con i superiori. Percentuali residuali denunciano i fatti alle Forze dell’Ordine, complice un quadro normativo non sempre chiaro. Il concetto di molestie rimane infatti indefinito, come confermano Laura Calafà e Donata Gottardi, docenti di Diritto del lavoro all’Università di Verona ed esperte di pari opportunità: “Un atto si considera molesto se è percepito come tale da chi lo riceve. Questo lo rende un concetto volutamente ampio, anche dal punto di vista del diritto”. Che cosa è considerato molesto? Secondo i criteri dell’Istat, si possono ritenere moleste certe dichiarazioni (proposte indecenti, commenti pesanti sull’aspetto fisico), atti di esibizionismo degli organi sessuali, pedinamenti, telefonate e messaggi ripetuti o sessualmente espliciti, furti di identità sui social netowrk, fino agli atti fisici, riconosciuti anche dal diritto come violenze sessuali (carezze, baci e contatti contro la volontà della vittima).
“Ma anche un invito a cena, se ripetuto più volte nonostante i rifiuti – sostiene Gottardi – può diventare una molestia”. “C’è un altro tipo di violenza sottovalutata – aggiunge Calafà – e potremmo chiamarla ‘molestia ambientale’. Negli Stati Uniti, se in un luogo di lavoro viene appeso un calendario sexy, è considerato un ambiente molesto, anche se nessuna donna potrebbe accusare qualcuno in particolare di violenza”.
Nel report sono le violenze verbali ad essere le più diffuse: l’Istat rileva che il 24% delle donne ne sia stata vittima negli ultimi tre anni di riferimento, percentuale più alta rispetto ai casi (15,9%) di molestie con contatto fisico. Il dato relativo alle vittime di molestie fisiche risulta più che dimezzato sul luogo di lavoro (dal 5,7% del 1997-1998 al 2,7% del 2015-2016), un miglioramento che l’Istat fa risalire al “frutto a lungo termine dei mutamenti del quadro legislativo, ma anche del diverso ruolo dei media negli ultimi anni, nonché dell’emergere di una nuova coscienza femminile”.
Una ricostruzione che tiene conto dell’introduzione del reato di stalking, che risale al 2009, ma che è condivisa solo il parte da Calafà: “In ambito lavorativo è cambiato poco o niente e le molestie continuano a emergere con fatica, perché quasi sempre provengono dai superiori o dagli stessi datori di lavoro”. Ma qualcosa è cambiato con il jobs act: “C’è un effetto collaterale della riforma per cui se prima, grazie all’articolo 18, il reintegro scattava anche dopo i licenziamenti per motivi economici o disciplinari, adesso è consentito solo nei casi discriminatori, in cui possono rientrare le molestie. Questo ha fatto emergere molti più casi rispetto al passato”.
Repubblica 14.2.18
Cosa ci dicono gli 8 milioni di vittime in italia
di Michela Marzano
Ormai, anche i più scettici saranno costretti a ricredersi: non solo le molestie sessuali esistono veramente, ma coinvolgono anche un numero impressionante di donne. Secondo le ultime stime dell’Istat, riferite agli anni 2015 e 2016, sarebbero infatti ben 8 milioni 816mila le donne tra i 14 e i 65 anni ad aver subito una qualche forma di molestia sessuale, soprattutto in ambito professionale — per essere assunte, per mantenere il posto di lavoro o per ottenere una promozione. Nell’80,9% dei casi, pur convinte di essere state vittime di ricatti gravi, le donne hanno preferito non parlarne con i colleghi o le colleghe; quasi nessuna ha denunciato l’accaduto alle forze dell’ordine. Ma anche l’omertà e il silenzio fanno parte di questa violenza diffusa che tante donne sperimentano sulla propria pelle: ci si vergogna, si ha paura, ci si sente abbandonate alla propria sorte, e allora si preferisce tacere.
Lo si è visto bene negli ultimi mesi, con il caso Weinstein, quando sono stati in tanti a mettere in discussione la parola delle vittime: «esagerano», si è sentito dire da alcuni; «se la sono cercata», hanno commentato altri; «avrebbero potuto dire di no», hanno sentenziato i benpensanti. Come se esistesse realmente la possibilità di dire liberamente “sì” o “no”, e di manifestare quindi la propria autonomia o il proprio desiderio, quando si vivono situazioni di subalternità, si cerca un posto di lavoro o si rischia di compromettere la propria carriera. Come se la responsabilità e la colpa dovessero sempre e solo ricadere sulle donne, nonostante siano alcuni uomini a mettere molte di loro in queste condizioni difficili, insostenibili, inaccettabili, dolorose.
Certo, il rapporto dell’Istat ci dice anche che negli ultimi anni sono leggermente diminuite le vittime di esibizionismo, di telefonate oscene, di pedinamento e di molestie verbali o fisiche.
Esattamente come ci dice che esistono anche quasi 4 milioni di uomini ad aver subito molestie nel corso della vita. Ma gli autori delle molestie a sfondo sessuale, anche in questo caso, sono in prevalenza uomini. E il fatto che queste violenze le si subisca spesso sul luogo di lavoro, o comunque in ambito professionale, permette di capire come il problema sia innanzitutto quello dell’abuso di potere. Nonostante siano decenni che si discuta delle violenze di genere e delle molestie sessuali, e si sottolinei la necessità di un’educazione capace di ridare spazio e dignità alle nozioni di rispetto, consenso, autonomia e vulnerabilità, resta forte il pregiudizio secondo cui una posizione di potere (o comunque di responsabilità) legittimi di per sé gli abusi — come se il potere non sopportasse alcun limite e Montesquieu, che su questi limiti aveva fondato il liberalismo moderno, non avesse in fondo capito nulla. Ma allora è inutile riempirsi la bocca di buoni sentimenti, è inutile persino continuare a parlare di consenso e di libertà: l’abuso di potere, il consenso e la libertà li cancella; e senza consenso, viene meno anche la possibilità del corteggiamento e della seduzione.
La Stampa 14.3.18
Un milione di donne vittime sul lavoro di ricatti sessuali
L’Istat: oltre 12 milioni di italiani, di cui un terzo uomini, molestati almeno una volta nella vita. Maschi gli aggressori Gli abusi più frequenti sono verbali e le denunce poche
di Maria Corbi
Adesso sappiamo quanto vale in Italia quel #Metoo che ha scandito la protesta contro le molestie nel mondo: 8 milioni e 816 mila sono state le donne interessate nella loro vita da qualche forma di molestia sessuale, come pedinamenti, esibizionismo, telefonate oscene, abusi verbali e fisici. Il report dell’Istat sulle molestie e i ricatti sessuali sul lavoro nel periodo 2015-2016 stima che siano oltre 3 milioni le vittime negli ultimi 3 anni.
Assunzioni e carriera
Pesantissima la situazione sul posto di lavoro: 1 milione 173 mila donne (7,5%) sono state oggetto di ricatti sessuali per essere assunte, per non perdere il lavoro o per ottenere progressioni nella carriera. Un quadro che allarma ma che non stupisce. I dati contengono anche la risposta a chi, da quando l’allarme molestie ha iniziato a suonare sonoro in una parte del mondo, lamenta il fatto che si parli solo di molestatori «uomini». Questo accade perché gli autori delle molestie sono in gran parte uomini: 97% per le vittime donne e 85,4% per vittime uomini.
Su quest’ultimo aspetto l’Istat informa che per la prima volta sono state rilevate le molestie sessuali anche ai danni di persone di sesso maschile: circa 3,7 milioni sono stati oggetto di molestie sessuali nel corso della loro vita (19%), 274 mila (6,4%) negli ultimi 3 anni.
Dai ristoranti ai social
Le forme di molestia più frequenti sono quelle verbali: il 24% delle donne ha riferito di essere stata importunata con brutte parole, infastidita o spaventata da proposte indecenti o commenti pesanti sul proprio corpo (per gli uomini la percentuale scende all’8,2 %); i contatti fisici non graditi hanno invece riguardato il 16% delle donne e il 3,6 % degli uomini. La quasi totalità delle donne ha subito atti di esibizionismo e pedinamenti da parte di uomini (rispettivamente 99,7% e 96,2%). Nella maggior parte dei casi questo tipo di molestie sono state perpetrate da estranei o da persone che si conoscono solo di vista (15,8%). Queste avverrebbero, considerando l’intero ciclo di vita, soprattutto sui mezzi di trasporto pubblici per le donne (28%) e per gli uomini in pub, discoteche e bar (29,2%).
Dal web arrivano proposte inappropriate e commenti osceni per i il 6,8% delle donne. Altro pericolo «social» (1,5%) riguarda il furto di identità, ossia quando qualcuno dal tuo profilo o dal tuo numero invia messaggi imbarazzanti, minacciosi o offensivi verso altre persone. In questo ambito il dato relativo agli uomini è diverso, pari rispettivamente al 2,2 e all’1,9%.
Le cifre Istat indicano una diminuzione di alcuni tipi di molestie rispetto alle rilevazioni precedenti (2008-2009) ma nonostante questo il quadro che ne esce è orrendo. E la strada da percorrere è lunga.
Il silenzio
Il 5% della popolazione tra 14 e 65 anni, pari a 2 milioni di persone, si stima abbia subito atti sessuali contro la propria volontà quando era minorenne. Si tratta del 7,8% tra le donne (1,6 milioni di persone) e del 2,2% tra gli uomini (435mila persone). E il 62,1% degli uomini e il 42,7% delle donne vittime di abusi sessuali non ne ha parlato con nessuno quando si sono verificati.
In oltre il 60% dei casi questi fatti si sono verificati una sola volta, ma per circa un quarto delle vittime si sono ripetuti da 2 a 5 volte. L’autore è stato in prevalenza uno sconosciuto o un conoscente (nel 36,4% e nel 22,4% dei casi); per il 14,8% delle vittime donne e il 7,4% degli uomini l’autore è un parente.
Corriere 14.2.18
Firenze, l’interrogatorio
«Noi violentate» Poi il supplizio nell’aula bunker
«Trova sexy le divise?» Le domande choc in aula alle due ragazze violentate
Le giovani e i legali dei carabinieri. Il giudice: indietro di 50 anni
di Antonella Mollica
Domande offensive, insistenti, inutili: 250 nelle intenzioni dei legali dei carabinieri. Un supplizio di 12 ore e 22 minuti per le due americane che a Firenze denunciarono di essere state violentate. Pubblichiamo la sintesi dell’incidente probatorio.
Il giudice Mario Profeta spiega le «regole» dell’udienza alle due ragazze: «Verrete ascoltate oggi e poi non sarete più disturbate, se si farà il processo quello che verrà detto oggi varrà come prova. La legge non consente che le testimoni vengano offese, non sono consentite domande che attengono alla sfera personale, che offendono e che ledono il rispetto della persona».
Avvocato Cristina Menichetti (difensore del carabiniere Marco Camuffo): «Prima di arrivare al rapporto sessuale non si era scambiata nessuna effusione con Camuffo, effusioni consensuali e reciproche?».
Avvocato : «Durante questo rapporto il carabiniere l’ha mai minacciata, ad esempio urlando o con le mani?».
Risposta: «Nessuna minaccia esplicita però mi sentivo minacciata dal fatto che lui porta un’arma».
Avvocato: «Quindi ha usato la forza per sottometterla?».
Giudice: «Cosa intende per forza avvocato?».
Avvocato: «Se ha dovuto forzarla, esercitare una certa pressione, se è un gesto violento con una certa vis impressa nel gesto». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Non ha lottato fisicamente? Volevo sapere se Camuffo ha esercitato violenza...». (A questo punto il legale scende nei particolari della presunta violenza sessuale, ndr) .
Giudice: «Che brutta domanda avvocato. Sono domande che si possono e si devono evitare nei limiti del possibile, perché c’è un accanimento che non è terapeutico in questo caso... Non bisogna mai andare oltre certi limiti. È l’inutilità a mettere in difficoltà le persone, non si può ledere il diritto delle persone».
Avvocato: «Lei trova affascinanti, sexy gli uomini che indossano una divisa?».
Giudice: «Inammissibile, le abitudini personali, gli orientamenti sessuali non possono essere oggetto di deposizione».
Avvocato: «Lei indossava solo i pantaloni quella sera? Aveva la biancheria intima?». Domanda non ammessa.
Avvocato Giorgio Carta (difensore del carabiniere Pietro Costa): «In casa avevate bevande alcoliche? Lei ha bevuto dopo che i carabinieri sono andati via?». (L’avvocato cita nuovamente in modo esplicito la presunta violenza sessuale, ndr) .
Giudice: «Non l’ammetto, non torno indietro di 50 anni».
Avvocato: «Alla sua amica hanno sequestrato tutti i vestiti compresi slip e salvaslip, voglio capire se lei ha nascosto qualche indumento alla polizia». Domanda non ammessa.
Giudice: «Si fanno insinuazioni antipatiche, perché si dovrebbe nascondere alla polizia degli indumenti?».
Avvocato: «Penso che qualcuno abbia finto un reato, io non voglio sapere come lei circola, con o meno gli indumenti, voglio sapere se ha dato tutto alla polizia».
Giudice: «Ricorda il momento in cui le hanno sequestrato gli indumenti?».
Ragazza: «No».
Avvocato: «Io non ci credo che non lo ricorda».
Giudice: «Non possiamo fare la macchina della verità».
Avvocato della ragazza: «Giudice, vorrei sapere a che punto siamo delle 250 domande annunciate dall’avvocato».
Giudice: «Se sono come le ultime sono irrilevanti, andiamo avanti. Se stiamo cercando la spettacolarizzazione avete sbagliato canale».
Avvocato: «La ragazza si è sottoposta a una visita ginecologica sulle malattie virali. Possiamo sapere l’esito di questa visita?».
Giudice: «Sta scherzando avvocato? Questo attiene alla sfera intima non è ammesso questo genere di domande. Ripeto: non torno indietro di 50 anni, non lo consento a nessuno».
Avvocato: «Si può sapere se ha una cura in corso?».
Giudice: «No».
Avvocato: «È la prima volta che è stata violentata in vita sua?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Quando era in discoteca ha dato una o due carezze ad un carabiniere?». Domanda non ammessa.
Più avanti, rispondendo a un altra domanda, la ragazza racconta: «Non mi ricordo tutto, ero ubriaca, però mi ricordo che ci siamo baciati e che lui mi ha tirato giù la maglietta. Mi ricordo che ha cercato di toccarmi nelle parti intime, che ha tirato fuori il pene e io ero assolutamente in choc. Ero così sconcertata, però, ero talmente ubriaca, mi sentivo indifesa non avevo la forza di dire o fare qualcosa. Mi ricordo che gli dissi di no, non volevo avere un rapporto con lui. Dopo non ricordo più niente. So che abbiamo avuto un rapporto».
Giudice: «Allora come fa a dire che ha avuto un rapporto? Glielo chiedo con rispetto ma questo aspetto deve essere chiarito».
Ragazza: «Perché sentivo fastidio alle parti intime».
Avvocato: «Quando è entrata in Europa ha dichiarato che aveva soldi in contanti? Alla dogana ha dichiarato i soldi?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Ha un fidanzato?».
Giudice: «Cosa ci interessa avvocato?».
Avvocato: «Voglio sapere se ha un fidanzato, se è un poliziotto ecc...».
Avvocato : «È stata arrestata dalla polizia negli Stati Uniti? Ha precedenti penali?».
Giudice: «Domanda non ammessa. Non si può screditare un teste sul piano della reputazione, lo si può fare sul contenuto delle dichiarazioni. Se un teste non è una persona sincera lo dobbiamo rilevare dal contenuto delle dichiarazioni».
Avvocato: «A che titolo risiede negli Stati Uniti? ( la ragazza è di origine peruviana, ndr ). Era preoccupata per il suo titolo di permanenza negli Usa?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Ha mai visitato un negozio di divise a Firenze?».
Giudice: «Ma che ci interessa! Non è rilevante!».
Avvocato: «Ha mai fotografato il volantino di questo negozio?».
Giudice: «Non è rilevante».
Avvocato: «Ha scambiato il numero di telefono con il carabiniere quella sera? Ha promesso a un militare di rivedervi nei giorni successivi? Prima che le venisse sequestrato il telefono ha cancellato una telefonata?».
Avvocato: «Lei ha bevuto durante il tragitto dentro la macchina dei carabinieri?».
Avvocato: «Non le è sembrato strano che i carabinieri accompagnassero a casa le persone?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Il carabiniere si è accorto che lei era ubriaca?».
Giudice: «Non va bene avvocato, stiamo chiedendo a una persona ubriaca, affermazione senza offesa visto che l’ha detto lei, se avesse la capacità di rendersi conto del suo interlocutore».
Avvocato: «Ha mai detto al carabiniere che non avrebbe voluto fare sesso con lui?». Domanda non ammessa e riformulata.
Ragazza: «Dopo che lui ha tirato giù il top volevo che smettesse».
Avvocato: «Il carabiniere ha insistito per avere contatti con lei? Ha insistito silenziosamente, con gesti e parole, perché uno insiste a un no...».
Giudice: «Ha manifestato questo non gradimento con comportamenti espliciti?».
Ragazza: «No, non avevo forza nel mio corpo».
Giudice: «E con questa risposta non accetto più domande così invadenti».
Avvocato: «Perché dobbiamo privarci di scoprire la verità, la ragazza muore dalla voglia di dire la verità, sentiamola se è salita a piedi...».
Giudice: «Che ironia fuori luogo, ora sta andando oltre il consentito. C’è una persona che secondo l’accusa ha subito una violazione così sgradevole e lei fa dell’ironia? Io credo che non sia la sede».
Avvocato: «Avevate alcolici a casa? Ha bevuto alcolici dopo che i carabinieri erano andati via?».
Avvocato: «Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina?»:
Avvocato: «Cosa diceva esattamente la sua amica quando urlava? Erano urla di parole o semplicemente urla di dolore?».
Giudice: «No, fermiamoci qui, il sadismo non è consentito».
La Stampa 14.2.18
Cultura maschilista millenaria, ma qualcosa sta cambiando
C’è un’asimmetria di genere fra vittime e carnefici. La violenza è una piaga sociale da combattere
di Linda Laura Sabbadini
Quasi 9 milioni di donne hanno subito molestie sessuali. E anche 3 milioni 750 mila uomini. Voi penserete, ma allora sono tante le donne che molestano sessualmente! E invece no, molti uomini molestano sessualmente le donne e sono sempre uomini che molestano sessualmente altri uomini: l’85% delle molestie subite dai maschi è opera di maschi così come il 97% di quelle subite dalle donne. Ci stiamo riferendo a molestie sessuali di tutti i tipi, verbali, fisiche, sul web.
I numeri ci dicono che le donne molestano sessualmente il 4,2% degli uomini e l’1,2% delle donne e gli uomini il 42,4% delle donne e il 12% degli uomini. C’è una asimmetria di genere tra le vittime e un’asimmetria di genere tra gli autori. In gran parte donne le vittime, in gran parte uomini gli autori. Le molestie sessuali sono un fenomeno di massa. E non si tratta di essere moralisti né bacchettoni. Molestie sono azioni che vengono messe in atto senza il consenso dell’altra persona, sulla base di una cultura maschilista che legittima l’uso a proprio piacimento del corpo dell’altro/a.
Una cultura millenaria difficile da estirpare, che agisce contro dignità e libertà delle persone. Niente a che vedere con il gioco della seduzione, basato sul desiderio reciproco. Non tutti gli uomini sono molestatori, molti non si riconoscono in questa cultura, il loro ruolo è fondamentale a fianco delle donne che in tutto il mondo con il movimento #metoo conducono questa battaglia di civiltà per una cultura del rispetto e della diversità.
Alcuni segnali positivi ci sono. Le molestie sessuali, pur essendo tante, sono in diminuzione. Potrebbe essere l’effetto dei mutamenti intervenuti in questi anni. Da un lato la crescita della coscienza femminile e la maggiore capacità delle donne e delle ragazze di prevenire e contrastare le molestie sessuali; dall’altro l’intensa attività legislativa che a fianco della particolare attenzione mostrata dai media a queste tematiche ha facilitato lo sviluppo di un clima di condanna sociale che può aver agito da deterrente allo sviluppo del fenomeno. Sebbene non ci siano abbastanza dati per poter valutare se la diminuzione del fenomeno possa essere imputata anche a cambiamenti nel mondo maschile, c’è da augurarselo.
Questi numeri dicono tuttavia che tanta strada si deve fare sul fronte maschile. Il fatto che i ricatti sessuali sul lavoro non diminuiscano e così stupri e femminicidi deve suonare come un campanello d’allarme per tutti. L’uso del potere maschile a fini sessuali è molto diffuso, donne di tutti gli strati sociali ne sono colpite, colte soprattutto nel momento di massima vulnerabilità, quello della ricerca del lavoro. Insieme al movimento #metoo, a Asia Argento, alle attrici che hanno denunciato il sistema, alle giornaliste, a tutte le donne e gli uomini che credono nella cultura del rispetto, dobbiamo unirci saldamente, per combattere una piaga sociale che fa ancora così tante vittime e che ha il fine di relegare la metà della popolazione in una condizione di pericolo, paura, subordinazione.
Corriere 14.2.18
Roma, integrazione fallita
Le illusioni multiculturali dell’Esquilino
L’illusione caduta di Piazza Vittorio. La tolleranza non è integrazione
di Antonio Polito
Piazza Vittorio all’Esquilino è stata sempre simbolo di integrazione. Qui abita la borghesia intellettuale di Roma. L’esperimento ora è fallito. Non per il conflitto tra italiani e stranieri. Ma per il degrado.
Piazza Vittorio è il passato di un’illusione. Nel rione più multietnico del centro di Roma, l’Esquilino, questa grande piazza umbertina era stata scelta come simbolo e speranza di integrazione multiculturale da una borghesia intellettuale, fatta di gente del mondo del cinema e dello spettacolo, che è venuta ad abitare qui proprio per vivere come in certi quartieri di Londra o New York: immersi negli effluvi delle spezie orientali, confusi nella comunità cinese più vasta di Roma, a contatto con gli esuli e i profughi di cento nazionalità che, arrivati alla vicina stazione Termini, vi passano le prime notti del loro spesso disperato viaggio in Italia.
Dopo tanti anni di generosi e anche riusciti tentativi (come l’Orchestra multietnica di Piazza Vittorio) l’esperimento può dirsi fallito. E non per il conflitto tra italiani e stranieri che tanto fa discutere l’Italia in questi giorni, ma per il degrado. La piazza contornata da un lungo porticato, e i vasti giardini che ne occupano il centro, sono infatti ridotti in condizioni peggiori della peggiore periferia. Al punto che sono stati proprio i residenti famosi e tutt’altro che xenofobi della zona, da Paolo Sorrentino con la moglie Daniela D’Antonio all’attrice Carlotta Natoli (assenti invece altri celebri inquilini del quartiere come il regista Matteo Garrone e lo sceneggiatore Enzo Monteleone), a dar vita a una mobilitazione per la bonifica dell’area, mettendo in piedi un paio di chat anche per segnalare ai carabinieri i reati in tempo reale (un po’ come fanno, al contrario, i pusher per segnalarsi i carabinieri) e occupandone simbolicamente alla domenica il roseto.
Chiedono l’ovvio: pulizia, decoro, controlli, ordine. Piazza Vittorio è infatti diventata brutta, sporca e cattiva, con «le siringhe al posto dei fiori, i “pali” che fanno la guardia agli spacciatori, i calzini appesi al roseto, le fontanelle tutte prenotate, chi si lava i denti chi i piedi, le panchine bucate, una stecca sì e tre no, e sotto distese di buste di Tavernello», come raccontava qualche giorno fa la cronaca romana del Corriere . L’altra sera, mentre infuriava la polemica sull’abbandono dell’area, una clochard tedesca di 75 anni, che dorme sotto i portici della piazza, è stata violentata da un giovane immigrato, per fortuna subito arrestato.
L’illusione caduta a piazza Vittorio è l’idea che per accogliere e integrare gli immigrati basti un atteggiamento aperto e tollerante degli italiani. Che cioè il problema fondamentale del nostro rapporto con gli stranieri sia il razzismo. In quella piazza di Roma di certo il razzismo non c’è, anzi. E gli stessi manifestanti ci tengono a far sapere che «la nostra protesta è in antitesi rispetto a un vento brutto che soffia in Italia in questo momento». Vogliono insomma proteggere, oltre ai figli che non hanno più il coraggio di attraversare da soli i giardini, anche «i tanti senza dimora stanziali che sono le persone più danneggiate dal degrado». È insomma un caso di scuola, la prova che per integrare gli immigrati ci vuole molto di più che un’accoglienza fraterna e generosa: ci vogliono controlli, agenti, vigili urbani; ci vogliono trasporti pubblici efficienti e decenti; ci vogliono aziende di servizi in grado di ripulire le lattine di birra abbandonate e i torsi di mela, e cessi pubblici per togliere quel tanfo di orina che nella piazza si mescola con gli odori esotici degli alimentari indiani e cinesi; ci vuole un’assistenza pubblica e privata che dia un pasto e un tetto a chi mangia e dorme per terra; ci vuole un programma che offra istruzione e opportunità di lavoro a chi è in attesa della risposta sulla richiesta d’asilo, in bilico tra il diventare un residente o un clandestino, tra una vita civile e il rifugio nel crimine. Ci vuole dunque lo Stato, e soldi, investimenti, progetti, cultura. Tutte cose di cui il nostro Paese palesemente scarseggia ovunque (perfino nella opulenta e organizzata Germania integrare un milione di profughi si è rivelata una sfida non ancora vinta); ma drammaticamente assenti a Roma, città dove ormai anche spazzare una strada è diventata un’impresa.
Integrare tra di loro culture diverse (a Piazza Vittorio il Corriere ne ha contate undici in un solo pomeriggio, e il più delle volte le risse si scatenano tra immigrati appartenenti a diversi gruppi etnici) non è un pranzo di gala: è un processo faticoso e costoso, e il risultato non può darsi mai per scontato. È questo che le «anime belle» che predicano il multiculturalismo facile e che irridono il disagio della gente non capiscono. Lanciando magari i loro proclami anti-razzismo da Capalbio, mentre si battono per evitare l’arrivo di cinquanta emigrati nel condominio residenziale vicino casa.
il manifesto 14.2.18
Bonino: «Netti sul razzismo. Alleata al Pd ma non rinuncio alle battaglie»
L'intervista. Emma Bonino: sugli immigrati circolano discorsi che ricordano l’antisemitismo, dalle destre bufale disumane e pure inapplicabili, «Per il leader dem le mie idee meno serie di quelle di Minniti? La matassa libica ancora non è sbrogliata»
di Daniela Preziosi
Emma Bonino, il Pd ora teme che i delusi votino voi. Punta a rubare i voti a Renzi?
Ho letto anch’io che la crescita di +Europa nei sondaggi creerebbe agitazione nel Pd. Non so se è così. Mi sembra strano che qualcuno si possa lamentare se la coalizione riprende fiato. Se andiamo bene noi sarà un bene per tutti. È ovvio che mi sono messa in gioco per cercare di vincere.
È anche vero che le differenze fra +Europa e il Pd sono note. Sull’economia insistiamo sulle politiche di responsabilità fiscale, sull’immigrazione le priorità per noi sono le politiche di integrazione nella legalità, in modo da raggiungere l’obiettivo della rassicurazione dei cittadini, fondata però su dati di realtà e non sulla paura indotta o percepita.
Ma la scelta di campo l’abbiamo fatta netta: una battaglia comune nel nome dell’Europa e dei diritti, che va vinta battendo gli etno-nazionalisti reazionari guidati dalla Lega e i sovranisti pericolosamente senza idee e senza capacità di governo come i 5 stelle.
La sinistra ha fatto con voi la battaglia per la legge ’Ero straniero’. Oggi l’accusa di incoerenza perché si è alleata con Renzi, che quella legge non l’ha voluta fare.
Vincere significa avere uno strumento in più per continuare a portare avanti questa battaglia, con altri che lo vorranno, anche se hanno votato altro. L’accorpamento voluto da questa assurda legge elettorale non implica che rinunciamo alle nostre battaglie.
Renzi non è con lei sull’immigrazione. Dice che il piano di Minniti è più serio del suo.
E io non sono d’accordo con lui. Ognuno dà le sue valutazioni, nella speranza che lui abbia letto la proposta di Ero straniero.
Renzi avrebbe paura della nostra crescita nei sondaggi? Dovrebbe gioire se la coalizione riprende fiato. Gioco per vincere, avremo più strumenti per le nostre proposte
Emma Bonino
Al corteo antirazzista di Macerata voi c’eravate, il Pd no. Circola un po’ troppa comprensione nei confronti del razzismo?
A Macerata avrebbero dovuto esserci tutte le forze istituzionali. Come sarebbe senz’altro successo se un nero avesse sparato sui bianchi. Bisogna essere netti e non confondere i carnefici con le vittime. Io non dico che in Italia sono tutti razzisti, ma Forza nuova cos’è se non un gruppo fascista e razzistoide? Trovare scusanti è un errore di sottovalutazione, dello stesso tipo di chi diceva che c’era l’antisemitismo perché c’erano gli ebrei, o gli stupri perché le ragazze vanno in giro in minigonna.
Lei ha scritto: «Lasciare la pubblica opinione in preda al delirio finisce per travolgere la realtà».
Guardi oggi: la fake news più cliccata è su un ragazzo nero accusato di viaggiare gratis sul treno. È tutto falso ma la notizia è diventata virale. Dobbiamo reagire in modo nonviolento ma netto.
Frontex sostiene, con qualche ondeggiamento, che gli sbarchi in Italia non siano diminuiti.
Io seguo Open Migration che usa i dati dell’Unhcr. Gli sbarchi del gennaio 2018 più o meno coincidono con quelli dello stesso mese del 2017. Mi pare che la matassa sia ancora lì.
La linea Minniti, a parte le valutazioni umanitarie, è meno efficace di quanto si «percepisca»?
In Libia il controllo del territorio non ce l’ha Serraj. E io non penso bene dell’accordo con la Turchia, ma almeno lì è stato firmato un trattato con uno stato. Qui invece le formazioni armate gestiscono i traffici senza controllo. Ora i migranti non escono più da Sabratha ma da Garabulli.
Liberi e uguali ora mi considera peggio della Thatcher? Sono una liberale con attenzione al sociale. I 5 stelle? Sovranisti pericolosamente senza idee né capacità di governo
Emma Bonino
Vuol dire che il prossimo governo si ritroverà la «matassa» ancora da sbrogliare?
Sì, perché la situazione in Libia non è cambiata. Intanto in Italia le nostre presunte emergenze cambiano nome. Prima c’era «l’invasione», ora c’è la «bomba sociale» degli irregolari. Il punto è governare il fenomeno. In assenza di una politica comune della Commissione europea che ha fatto proposte respinte dagli stati membri, Berlusconi vorrebbe rimpatriare i 600mila irregolari. Ma dove? Salvini dice che li rispedirà indietro in 15 minuti. È una rincorsa a chi la spara più grossa: noi abbiamo accordi di rimpatrio con quattro paesi: Tunisia, Marocco, Egitto e Nigeria. Queste sparate sono umanamente insopportabili ma anche praticamente non fattibili.
Renzi chiede una mano a Berlusconi per cambiare il Trattato di Dublino. Le larghe intese italiane cambierebbero Dublino?
Magari. Quel trattato l’ha firmato Berlusconi nel 2003. Ma i trattati si cambiano con l’unanimità dei 27 stati dell’Unione. E fin qui l’Italia si è scontrata con il no di alcuni paesi membri. Questa strada va perseguita con forza ma anche con la credibilità di un paese che fa i compiti a casa. Chiedere una mano a Berlusconi a me non fa scandalo: ha fatto le due più grandi sanatorie di immigrati regolarizzando 900mila persone. Noi non chiediamo sanatorie, ci sono altri strumenti.
Liberi e uguali l’accusa di «populismo thatcherista» per la proposta di congelare la spesa pubblica.
È esattamente il contrario. Dove pensano di trovarli i soldi per sostenere le loro proposte, a debito? Sono una liberale con un’attenzione sociale abbastanza evidente. Non propongo tagli sanguinolenti ma continuare sulla strada dell’indebitamento significa che prima o poi lasceremo ai vostri figli il paese in bancarotta.
Ci sono già 12 milioni di italiani che non si curano perché non hanno i soldi.
Rimodulare la spesa è possibile. La nostra spesa sanitaria è nella media degli altri paesi dell’Unione. Ma c’è un problema di efficacia e di efficienza di questa spesa.
Lei ha fatto capire di essere pronta alle larghe intese. È così?
Questo gioco di pensare al dopo mi irrita. Se decidiamo adesso che fare non si capisce perché abbiamo chiamato i cittadini al voto. Io spendo le mie energie per cercare di far vincere più Europa e un blocco che non sia sovranista, chiuso, respingente e triste con venature razziste. Questa è la posta in gioco.
E il Movimento 5 stelle che blocco è?
I loro esempi di superficialità, per essere gentile, si accumulano. E poi: diceva Nenni che c’è sempre uno più puro che ti epura.
I radicali del Partito radicale non apprezzano le sue scelte.
Non mi pare un dato di grande interesse per l’opinione pubblica. Ma è un grande dolore per molti di noi.
La Stampa 14.2.18
Bonino batte Berlusconi
nel ring dei commercianti
L’ex Cavaliere lancia Cottarelli: “Sarà ministro”. Ma lui smentisce
di Amedeo La Mattina
Ieri, nella sede di Confcommercio a Piazza Belli, è accaduto quello che non ti saresti aspettato: applausi a scena aperta per Emma Bonino, con persone in piedi a dire «brava». L’occasione è stato l’incontro del Consiglio permanente con i leader politici. Doveva essere Berlusconi il mattatore della giornata davanti a una platea tradizionalmente amica. Il Cavaliere invece non ha scaldato i settanta presidenti di Confcommercio di tutta Italia. È arrivato con oltre un’ora di ritardo, ha sforato di 30 minuti il suo intervento, costringendo Piero Grasso a girare in macchina per Trastevere in attesa che finisse lo «show» (parole del leader di Liberi e Uguali). Berlusconi ha spiegato perchè è stato costretto a ritornare in campo dopo l’illusione di avere trovato in Renzi il degno successore, ma oggi «il Pd è al 20%». Sono i 5 Stelle l’incubo del leader di Fi che ha promesso tasse in discesa vertiginosa, pensioni minime a «mille lire» (voleva dire mille euro) e un ministero per la riduzione delle spese già pronto per Cottarelli che sarebbe disponibile a insediarsi. Peccato che lo stesso Carlo Cottarelli abbia smentito. Comunque, a parte questa gaffe, Berlusconi ha dovuto spiegare che tutte le promesse non potrà essere lui a realizzarle perchè incandidabile, ma Antonio Tajani indicato come premier.
All’ora di pranzo ha parlato Grasso e alle 16 Salvini che, mostrando l’energia del quarantenne candidato premier, ha contestato la favola dei tagli. «Dobbiamo uscire dalla gabbia per cui dobbiamo tagliare, sacrificarci, per il bene dei nostri figli. I numeri dicono che è successo tutto il contrario». Ma prima di Salvini ha parlato Emma Bonino con il suo cappello colorato e la franchezza che ha colpito la platea e il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli, che nelle sue introduzioni ha chiesto ai politici di evitare l’aumento dell’Iva nel 2019, di non compromettere la ripresa e, soprattutto, di ridurre le tasse ma solo tagliando la spesa pubblica. E proprio su questo tasto ha battuto la Bonino dicendo di non fidarsi di chi viene a promettere la luna: «Non è il momento dello spendi e spandi, ma quello di consolidare la ripresa. Ci sono problemi che vengono da lontano e ci rendono meno competitivi: uno su tutti, il debito pubblico e quindi le proposte che propongono più debito non sono possibili, chiunque le promette ci porterà contro il muro e lasciando ai vostri figli la bancarotta che abbiamo già evitato per un soffio». La leader radicale ha aggiunto di non avere mai visto «una campagna elettorale più mediocre, piena di bugie e promesse impossibili, cose che si spegneranno il 5 marzo come le candele». Allora, piedi per terra: «Blocco della spesa nei primi due anni della prossima legislatura, riduzione del debito fino a 110 miliardi e quindi, solo dopo, taglio dell’Irpef e dell’Ires». A più riprese sono partiti gli applausi e chi non lo ha fatto ha apprezzato la passione di Emma. «E’ stata l’unica che ha scaldato i cuori», hanno commentato a Piazza Belli.
il manifesto 14.2.18
Marco Cappato: «La sentenza di oggi è una tappa verso l’eutanasia legale»
Milano. In attesa del giudizio della Corte d’assise per l’aiuto al suicidio fornito dal radicale a Dj Fabo. «Se dovessero assolvermi perché il fatto è avvenuto in Svizzera, sarebbe un precedente pericoloso: solo chi ha i soldi per andare all’estero potrebbe essere aiutato».
Marco Cappato durante un'udienza del suo processo in Corte d'Assise per l'aiuto al suicidio fornito a Dj Fabo
di Eleonora Martini
«Sono determinato ad andare avanti. Qualunque sia il responso, sarà comunque una tappa del percorso». Obiettivo: eutanasia legale. Nella sua Milano, l’imputato Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, attende la sentenza della Corte d’Assise che questa mattina dovrà decidere se condannarlo per l’aiuto dato a Fabiano Antoniani nel raggiungere la Svizzera. È lì, infatti, nel Paese elvetico, e non nel proprio, che il 27 febbraio 2017 il giovane Dj milanese, divenuto paraplegico e cieco in seguito ad un incidente stradale, ha potuto ottenere quanto desiderava ormai da tempo, ossia l’eutanasia per mezzo del cosiddetto suicidio assistito.
Ma i giudici potrebbero anche decidere di rinviare alla Corte costituzionale l’articolo 580 del cp che configura il reato di istigazione o aiuto al suicidio (punibile con la reclusione da 5 a 12 anni), come ha chiesto in subordine l’avvocata Filomena Gallo (segretaria dell’associazione radicale), a capo del collegio di difesa, ed hanno chiesto anche le stesse pm, Tiziana Siciliano e Sara Arduini.
Quando ha deciso di autodenunciarsi per l’aiuto a Dj Fabo, si aspettava un processo? Questo tipo di processo?
Ero pronto, anche se nel caso di Dominique Velati la procura aveva deciso di non procedere. Ad ogni modo cercavo una decisione formale dello Stato: un’archiviazione o un processo, di sicuro non una soluzione all’italiana, facendo finta di niente.
Un anno fa il biotestamento sembrava ancora al di là dell’orizzonte possibile e voi parlavate già di eutanasia legale. Un escamotage per accelerare l’iter della legge?
L’azione di disobbedienza civile di aiutare pubblicamente le persone che vogliono andare in Svizzera l’abbiamo decisa due anni fa con Mina Welby perché la legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia non era mai stata discussa dal Parlamento. Un’azione che è stata fondamentale per smuovere le acque, anche se poi il Parlamento divise il testo e bloccò la parte riguardante l’eutanasia. Ma il nostro obiettivo rimane quello di riconoscere la libertà di decidere come morire, sia se questo significhi rinunciare ad una cura o essere staccati da una macchina, sia se si debba passare attraverso una morte volontaria.
Quale sentenza si aspetta?
Che sia una condanna o un’assoluzione, comunque questo processo fa fare un passo avanti in termini di chiarezza su ciò che si può fare o no. E con un’opinione pubblica così favorevole al rispetto della libertà individuale com’è quella italiana, la chiarezza è anche un passo avanti verso buone regole, verso nuove libertà e nuovi diritti. In caso di condanna dovremo decidere se ricorrere o meno in Appello, per poi semmai proseguire sulla strada delle giurisdizioni internazionali. Ma dipenderà dalle motivazioni della sentenza.
Lei però ha detto, intervenendo nell’ultima udienza, che preferisce una condanna ad una assoluzione che definisse irrilevanti le sue azioni. Perché lo ha fatto? Ritiene che sia la sentenza più plausibile?
La pm ha chiesto la mia assoluzione con due motivazioni possibili. In un caso, come abbiamo fatto noi, ha considerato una violazione dei diritti fondamentali di Dj Fabo – o di una persona nelle sue medesime condizioni – impedirgli di poter morire nel modo più rapido e con minore sofferenza possibile. E, cosa più importante e sorprendente, nella sua arringa la pm ha fatto riferimento alla giustizia internazionale, alla Carta europea dei diritti fondamentali, che è un livello perfino superiore a quello costituzionale. È la seconda motivazione proposta dalla pm – cioè che il fatto non sussiste perché il suicidio è avvenuto in Svizzera – che io ho rifiutato esplicitamente. Perché quando con Fabo abbiamo deciso di agire pubblicamente, a quel punto lui poteva farlo solo con chi fosse stato disponibile ad assumersi tutta la responsabilità dell’aiuto al suicidio. Un’assoluzione con motivazioni di questo tipo creerebbe un precedente: solo se hai 12 mila euro per permetterti il suicidio assistito in Svizzera puoi essere aiutato a farlo. Il problema non è se si può o no andare in Svizzera, ma se si può o no farlo in Italia.
C’è poi la strada della Corte costituzionale.
La stessa Corte d’Assise potrebbe dichiarare incostituzionale l’articolo 580 per il caso di Dj Fabo, oppure potrebbe rinviare alla Consulta. E in questo caso la sentenza di incostituzionalità dell’articolo, applicato a persone affette da patologie insopportabili e irreversibili, farebbe giurisprudenza. Ed è quello che noi auspichiamo.
Lei non si è candidato proprio per questo processo. Un modo per proteggere la sua lista +Europa?
No, non è per questo: so per certo che i miei compagni della lista +Europa sono fieri di quello che ho fatto. È il viceversa. Proprio perché questa sentenza potrebbe avere conseguenze storiche sul piano delle libertà individuali, ho preferito lasciare che i giudici siano quanto più possibile liberi e scevri da possibili condizionamenti, quando prenderanno in coscienza la loro decisione, indipendentemente da eventuali conseguenze politico elettorali sull’imputato.
Eppure nella storia radicale ci sono sempre stati, scientemente scelti, candidati/imputati.
Qui la differenza è che il reato non ricade esclusivamente su di me, come una disobbedienza civile sulle droghe, dove la strumentalizzazione politica – in senso positivo – ricade solo su se stessi, sul proprio corpo, sulla propria libertà. In questo caso i giudici devono stabilire se una persona è morta sulla base di un reato gravissimo o sulla base di un diritto. Ma è solo un giudizio di opportunità, avrei potuto fare la scelta opposta e candidarmi.
Repubblica 14.2.18
La formazione. Il boom dei corsi
Il latino ora fa curriculum la nuova vita della lingua morta
di Ilaria Venturi
Oltre tremila studenti si presenteranno ad aprile, in tutta Italia, ai test che certificano le conoscenze dell’antico idioma Sul modello degli esami “Cambridge”, forniranno crediti
ROMA
Il latino fa curriculum.
Crescono gli studenti iscritti ai test che certificano le conoscenze dell’idioma degli antichi romani: in oltre tremila si presenteranno alla prova, dalla Sicilia alla Lombardia, fissata nelle scuole e università in aprile per ottenere un attestato sul modello degli esami Cambridge per l’inglese. Da spendere per ottenere crediti per la Maturità e per avere “sconti” negli esami a Lettere. Ma anche da inserire tra le competenze da presentare in un colloquio di lavoro: lingue conosciute? Inglese, francese e perché no, latino.
Quello che è partito in Liguria quasi in sordina da alcuni anni, con 300 iscritti, è diventato un fenomeno che si è allargato a macchia d’olio. La Lombardia traina, con oltre mille candidati, stessi numeri in Veneto. In Sicilia gli iscritti, triplicati in tre anni, ora sono 600. Il Piemonte ha aperto le iscrizioni per l’esame che si terrà per la prima volta il 12 aprile.
L’Emilia Romagna si prepara a una prova in cui saranno ammessi 600 studenti. La supervisione è affidata alla Consulta dei professori universitari di latino e passa attraverso protocolli firmati con gli uffici scolastici regionali. I prossimi a partire o in dirittura d’arrivo sono in Lazio, dove c’è la percentuale più alta di iscritti al liceo classico, Campania, Puglia e Basilicata. «L’obiettivo è arrivare a un’intesa col ministero per fare diventare questo test una prova di carattere nazionale», spiega Paolo De Paolis, presidente della Consulta. «L’approccio della certificazione mette il latino vicino alle lingue moderne». Sono quattro i livelli, da quello base all’intermedio (A1, A2, B1 e B2). La prova non prevede traduzioni, ma parafrasi, domande sul significato di cuius, ut, sibi. Tra i tanti liceali e universitari, si presenta al test anche chi vuole verificare studi fatti in passato. Ma i latinisti scommettono anche sulla spendibilità nel mondo del lavoro. Non solo loro. «Vediamo in modo favorevole la certificazione del latino in un curriculum. Significa che il candidato ha la capacità di “problem solving”, sa affrontare situazioni complesse e ha capacità logiche», spiega Isabella Covili Faggioli, presidente dell’associazione dei direttori del personale.
È il segnale di ripresa di una lingua data per morta, che passa anche dall’aumento degli iscritti nei licei classici, sino al fiorire nella letteratura per l’infanzia di volumi di successo come la traduzione in latino del Diario di una schiappa e
Latin Lover di Mino Milano, novità della Fiera del libro per ragazzi.
«Anche se fosse una moda meglio questa di altre», osserva il latinista Ivano Dionigi. «Oltre all’utilità, dietro al fenomeno delle certificazioni intravvedo la ricerca, anche inconsapevole, dei ragazzi di un maggior rigore, di un antidoto al video-analfabetismo e alla fragilità imperante».
Repubblica 14.2.18
Intervista a Maurizio Bettini
“È una garanzia di flessibilità per il lavoro”
Maurizio Bettini, docente di filologia classica all’università di Siena, non è sorpreso dal boom degli iscritti ai test per la certificazione del latino.
Perché professore?
«Questo fenomeno si inserisce nella grande ripresa dell’interesse per gli studi classici. Aumentano gli iscritti nei licei dove si studiano greco e latino, ma è cresciuto anche l’impegno dei professori nel portare fuori dalle aule queste materie in modo intelligente. Penso alla Notte dei licei classici o all’aver messo in scena al mercato di Ballarò a Palermo la rappresentazione dell’Odissea fatta dai ragazzi».
Questa certificazione può aver un’utilità anche nel mondo del lavoro?
«Se fossi un datore di lavoro non avrei dubbi: la conoscenza del latino è una garanzia».
Di cosa?
«Di flessibilità, capacità di affrontare rapidamente problemi complessi. Il latino è una materia impegnativa che serve a far riflettere sulla propria lingua e che ti costringe a mobilitare categorie cognitive».
E dire che viene considerata una lingua morta
«È un’idea davvero sbagliata. Il latino continua a vivere nelle lingue romanze, parlate nella maggior parte del mondo. Anche nell’inglese è alta la percentuale del lessico che viene dal latino.
Alcune università americane chiedono una conoscenza di un certo numero di parole nei test di accesso e per la maggior parte sono parole latine, perché quello che si vuole verificare è la conoscenza di un lessico intellettuale».
Ma cosa spinge a partecipare a queste prove per ottenere una certificazione?
«Motivazioni più profonde. Il latino non è solo una lingua, ma un patrimonio culturale. Che non si vuole perdere».
– il. ve.
Repubblica 14.2.18
Finanza pubblica
Statali, il nuovo contratto mette a rischio i conti
L’allarme dell’Ufficio parlamentare di bilancio: mancano 1,2 miliardi, rischio manovra- bis “Criticità su tassi, finanza e lotta all’evasione”. Ma il Tesoro esclude aggiustamenti
di Roberto Petrini
ROMA Il contratto del pubblico impiego rischia di far “ballare” i conti dello Stato di quest’anno. Per il milione di dipendenti degli enti locali e della sanità, la cui firma è in vista, dopo la sigla dei ministeri, delle agenzie fiscali e del parastato, mancano all’appello 1,2 miliardi. La stima viene dall’Upb, l’autorità indipendente sui conti pubblici, che ieri ha presentato il rapporto sulla finanza pubblica. « Potrebbero sorgere criticità — spiega lo studio — in relazione al reperimento delle risorse ». L’occhio dell’Upb si rivolge anche al prossimo anno e avverte che le risorse per l’intero settore del pubblico impiego si fermano al triennio 2016- 2018 e dal prossimo anno sarà necessario trovare finanziamenti per gli ulteriori rinnovi contrattuali.
Questo è solo uno dei punti deboli messi in luce dall’analisi dell’organismo guidato da Giuseppe Pisauro, perché la situazione complessiva dei conti pubblici viene definita densa di «rischi e criticità ».
Le cinque aree a rischio che emergono dalla due diligence dell’Upb, oltre al contratto del pubblico impiego sono: manovra- bis, debito, tassi, evasione. L’analisi in sostanza ci dice che il quadro lasciato da Padoan regge già con una certa difficoltà e che, dunque, i margini per nuovi interventi sono vicini allo zero.
La prima questione è la manovra. Come è noto la valutazione definitiva sarà in primavera, ma l’esito è scontato: bisognerà correggere i conti pubblici per lo 0,2 del Pil. Va inoltre ricordato che Bruxelles ha individuato una «deviazione significativa » pari a 0,1-0,2 del Pil anche nei conti del 2017: il verdetto sarà emesso a consuntivo, il « rientro » potrà essere spalmato su due anni e dunque la correzione si valuterà sul 2019. Tuttavia la «deviazione » del 2017 depotenzia ogni resistenza dell’Italia alla ormai assai probabile manovra bis che ieri sera Padoan, con una nota di replica, ha tuttavia escluso.
La seconda criticità riguarda il debito. Per il 2017, dice l’Upb, lo stock di debito potrebbe risultare « più elevato » rispetto a quanto indicato nel Documento programmatico di bilancio ( Dpb) pari al 131,6 per cento del Pil. L’Eurostat sta valutando se contabilizzare o meno i 5,4 miliardi di garanzie concesse dallo Stato a Banca Intesa per l’operazione di acquisto delle banche venete.
La terza questione che produce incertezza riguarda i tassi. Oggi pesano sul nostro debito per una somma pari al 4 per cento del Pil ( siamo secondi solo al Portogallo). Il problema è che le stime del governo nel Dpb per i prossimi anni prevedono i tassi in riduzione e considerano una spesa del 3,5 per cento del Pil nel 2020. Ipotesi, dice l’Upb, soggetta a « significativi rischi » visto il graduale azzeramento del quantitative easing e le prospettive economiche mondiali.
La quarta questione riguarda la copertura della riduzione delle tasse. In parte è stata finanziata con misure di contrasto all’evasione che non potranno ripetersi ( come la rottamazione). Un tema ben presente alla Commissione che non giudica ex ante l’impatto di questo genere di coperture.
Come è evidente la situazione è già critica di per sé e l’almanacco delle promesse elettorali viene posto fuori gioco da un semplice esercizio di realismo.
Repubblica 14.2.18
I criteri di assunzione
“Ignorante è meglio” L’azienda snobba i laureati
Ricerca Inapp: gli imprenditori poco istruiti sottovalutano i vantaggi della formazione. Solo il 5,7% dei loro dipendenti ha fatto l’università
di Rosaria Amato
ROMA Ma a che servono i laureati in economia?
Per gli affari bisogna avere fiuto, non aver studiato». Per tutta la durata del suo stage Carlo M., fresco di laurea presa all’Università di Napoli, si è sentito ripetere queste frasi dal suo datore di lavoro, un piccolo imprenditore meccanico. Alla fine Carlo non è stato assunto, ha poi trovato un posto in una media azienda dove le sue conoscenze sono state sfruttate per migliorare la produzione. Anche così si spiega il ritardo italiano: piccole imprese (sono oltre il 90%), con imprenditori che non sanno usare i giovani laureati spesso perché essi stessi non sono laureati.
Laureato chiama laureato, avviando un circolo virtuoso che porta alla crescita dell’impresa, all’innovazione e anche a retribuzioni superiori: secondo una ricerca dell’Inapp (l’ex Isfol), dove al vertice ci sono proprietari non laureati la quota di dipendenti laureati si ferma in media al 5,7%, mentre in quelle con imprenditori laureati (il 20,5% secondo l’Inapp) arriva al 25,5%.
Anche l’investimento in formazione cresce con il livello di istruzione del datore di lavoro: gli imprenditori laureati spendono in media 148,83 euro a dipendente contro 101,85 dei non laureati.
Eppure la laurea in Italia non sempre apre le porte. «Io non assumo laureati, non siete affidabili», dichiara nel film “Smetto quando voglio” il proprietario di un’officina. La laurea come costo, non come investimento per migliorare la qualità del lavoro e del servizio.
«Come se non avere la laurea fosse un titolo di merito - ragiona Francesco Pastore, professore di economia all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” – . È un modo di pensare molto diffuso, che dipende dal fatto che la maggior parte delle imprese italiane sono piccole o piccolissime, non svolgono funzioni complesse e in effetti non hanno bisogno di manager con una grande cultura industriale».
Spiega Giulia Marini, titolare di un’erboristeria con tre dipendenti a Roma: «Io sono diplomata, e i laureati nel mio settore hanno una vita difficile quanto la mia. Inoltre un dipendente laureato deve essere inquadrato a un livello più alto, e per me questo è un deterrente. Certo per fare l’erborista devi avere un minimo di cognizione, ma c’è gente che lavora da decenni e lo fa senza una laurea».
Una realtà sperimentata da un esercito di piccole imprese in Italia. Le dimensioni però non sono tutto: la pugliese Planetek ha solo una cinquantina di dipendenti ma, spiega l’ad e fondatore Giovanni Sylos Labini, «siccome lavoriamo nei sistemi spaziali abbiamo il 90% dei dipendenti laureati in varie discipline, ingegneri, fisici, informatici, agronomi, biologi, io sono un fisico. Nel nostro settore è scontato assumere laureati, ma sono convinto che anche la manifattura e i settori tradizionali ne avrebbero bisogno». È un tema su cui però gli imprenditori e le loro associazioni non si confrontano volentieri, forse anche per non cadere nella polemica innescata involontariamente alcune settimane fa dalla lettera del presidente degli industriali di Cuneo, che consigliava di scegliere il corso di studi sulla base delle esigenze del territorio.
«Il problema non è tanto che si chiedono soprattutto lavoratori manuali, è che le aziende non vogliono sprecarsi a fare formazione. – osserva Stefano Sacchi, presidente dell’Inapp – Un imprenditore non deve aspettarsi che il ragazzo uscito dall’università o dall’istituto tecnico, sia stato formato per quel particolare processo produttivo.
Se le scuole dovessero diventare così specialistiche, formerebbero lavoratori che diventerebbero obsoleti in pochi anni. Mentre invece conta sempre di più la capacità di adattamento, di trovare soluzioni ai problemi.
Anziché lamentarsi che gli ingegneri non sanno usare i saldatori, gli imprenditori dovrebbero insegnarglielo».
Repubblica 14.2.18
L’intervista a Marco Minniti
“Renzi non aprirà a Berlusconi E meglio se Gentiloni resta in sella”
di Eugenio Scalfari
«A suo modo sì, è una crociata.
Ma le antiche crociate servivano, con la scusa di recuperare la Terra Santa dove era nato il cristianesimo, a colonizzare un territorio dove i vari baroni dell’Europa dell’epoca si costruivano staterelli e castelli rendendo schiavi i palestinesi dell’epoca. La nostra crociata è esattamente l’opposto di quelle.
L’Africa fino a poco tempo fa vedeva lentamente diminuire la sua popolazione. In quarant’anni la situazione africana si è completamente capovolta.
Ormai la popolazione in pochi anni è aumentata enormemente e ringiovanisce allo stesso modo e continuerà così. Nella società africana aumenterà di conseguenza anche la cultura. La società globale consentirà anche un intreccio di popoli; c’è un’ondata di cinesi verso l’Africa e altrettanti africani verso la Cina. Di tutto questo bisogna tener conto e non escluderei affatto una emigrazione di europei e di italiani giovani e famiglie addirittura che si trasferiscono in Africa».
Vogliamo concludere con i tre poli in Italia?
«Infatti era questo di cui volevo parlare per concludere la nostra conversazione. Cominciamo dalla destra. Attualmente si dichiara un’alleanza maggioritaria con Berlusconi alleato con Salvini e con la Meloni. Raggiungono il 30 per cento e non escludono di arrivare al 35. Ma è un’alleanza puramente figurativa che non ha nulla di effettivo. Berlusconi è a favore dell’Europa e comunque vuole essere il leader che fissa la politica dell’alleanza. Ma in realtà la situazione non è questa.
L’alleanza con Salvini è puramente figurativa ma in realtà c’è una differenza di fondo e quasi una contrapposizione.
Fanno finta di essere alleati per ottenere ciascuno più voti di quanti già ne abbiano ma poi in realtà si contrappongono su tutto. Berlusconi si prepara semmai ad alleanze di altro genere».
Magari con Renzi.
«Forse lo vorrebbe ma Renzi non si alleerà mai con Berlusconi.
Semmai pensa che Berlusconi avrà verso il Partito democratico un comportamento neutrale. È possibile che questo avvenga ma certo non di più. Passiamo all’altro polo, quello grillino. Di Maio sta facendo alleanze sottobanco, con la scusa di associarsi a personalità di grande competenza in singoli settori, dalla Costituzione (nell’ipotesi che venga rifatta come i Cinque Stelle vorrebbero), all’economia, all’educazione scolastica, alla parità delle donne. Questo perfino nella prospettiva di una loro eventuale presenza al Quirinale quando Mattarella sarà scaduto. È accaduto nel frattempo che abbiano scoperto una serie di mascalzoni tra i loro candidati. I grillini sono molto forti specialmente nel Sud e in Sicilia ma non hanno alcun piano concreto oltre a visioni puramente teoriche. Nel frattempo si è sviluppata una lotta interna tra Di Maio e molti altri esponenti del movimento ormai diventato partito. Ma alleanze politiche non ne faranno e quindi credo che perderanno terreno se la politica del Pd aumenterà l’efficienza, gli ideali e la raccolta di una nuova grande sinistra».
A questo punto ci siamo alzati, abbracciati e lui mi ha detto: la prossima volta vengo di nuovo a casa tua, lì si sta meglio che qui.
Si chiacchiera egualmente senza che circoli l’aria dell’ufficio.
Oltre al caso di Piacenza il corteo più importante si è svolto a Macerata. Vuoi per favore chiarire quale è stata la tua posizione?
«A Macerata sono accaduti due fatti, uno orribile che è quello di Pamela, nel quale non c’era assolutamente nulla da manifestare, gli autori erano già stati individuati e messi in galera. Io comunque sono andato a dare la mano ai suoi parenti più stretti, altro non c’era da fare. Poi sono andato dove ha sparato Traini che nel frattempo era anche lui stato arrestato.
Qualche giorno dopo si è svolta una manifestazione di molte migliaia di persone venute un po’ da tutta Italia. Ho ritenuto che la manifestazione fosse doverosa e quindi non ho dato nessuna disposizione alle forze dell’ordine».
Ti incontri molto spesso con Renzi e a quanto mi risulta i tuoi suggerimenti sono quasi sempre accettati e messi in pratica. Che cosa gli suggerisci?
«Te lo dico subito ma prima voglio parlare della democrazia in genere, dei suoi valori, dei modi di metterli in pratica. La democrazia è il solo sistema che conserva la libertà e la giustizia. È un motto che tu usi molto spesso e dici anche che costituisce il Dna del giornale da te fondato.
Hai perfettamente ragione, quei valori vanno conservati, ma è anche vero che la democrazia con il passare del tempo va ricostruita e soprattutto va rinnovata. Non è un sistema di classe dirigente, se a battersi per la democrazia è il popolo non è populismo ma è sovranità popolare. Questo tema è di grande importanza e Renzi lo sente molto. Infatti io non credo che lui voglia diventare dopo le elezioni del 4 marzo il presidente del Consiglio. Preferisce restare leader del partito e come tale, essendo come io sono sicuro, capo del partito di maggioranza sarà lui ad occuparsi anche dell’Europa».
Al referendum costituzionale del 2016 Renzi è stato sommerso dai No provenienti in gran parte dai populisti italiani. Io inizialmente ero portato al No ma non per il contenuto del referendum, che condividevo, ma per la legge elettorale che sarebbe stata di fatto una legge di nominati da parte del potere esecutivo. Poi mi convinse Romano Prodi a votare Sì perché anche lui condivideva il monocameralismo e, pur ritenendo che la legge elettorale avrebbe asservito il potere legislativo a quello esecutivo, fu orientato a distinguere. Votò Sì ed io feci come lui. Adesso, se sarà vera la tua previsione del Partito democratico in testa agli altri, questa legge elettorale dovrebbe esser cambiata. Tu credi che Renzi lo farà?
«No, non credo che lo farà. Ma a mio avviso lui in Europa si può far sentire moltissimo. Tra l’altro il Partito socialista europeo è in decadenza ma continua ad essere fondamentale tra le forze politiche rappresentate nell’Europa attuale e noi non solo aderiamo a quel partito ma ne siamo la maggiore forza. Questo è un elemento che rende ancora più importante la presenza europea del leader socialdemocratico. Gli ho sempre suggerito di non limitarsi a mettere nella lista dei candidati i suoi fedelissimi. Dovrebbe dare spazio a tutti, anche a quelli che lo criticano all’interno del partito perché hanno anch’essi il diritto di essere rappresentati in Parlamento. Naturalmente possono essere critici non solo nel partito ma anche in Parlamento, e questo è non solo normale ma anche utile perché dimostra che la libertà è ampiamente rappresentata dal nostro partito. Se quelli che hanno formato un altro partito con il nome che gli ha dato Pietro Grasso fossero rimasti dentro come per esempio Cuperlo sarebbe stato solo un bene e un esempio di partito forte e libero.
Questa è la realtà della nuova democrazia da costruire. Fermi restando i valori, molto cambiando nella pratica. Un altro suggerimento che gli ho dato è di non andare al governo.
Gentiloni deve continuare come governo di ordinaria amministrazione perché questa è l’intenzione del nostro presidente della Repubblica.
Questo rinvio può durare sei mesi, otto mesi, un anno ma poi bisognerà indire ovviamente nuove elezioni. È possibile che Gentiloni venga rieletto non più per un governo di ordinaria amministrazione ma per un vero e nuovo incarico, ma avrà sicuramente anche altri concorrenti e non è escluso che abbiano la meglio. In teoria tra questi ci può benissimo essere anche Renzi ma suppongo che non lo farà».
Caro Marco, l’immigrazione è uno dei temi principali della tua attività. Lo so bene perché ho sempre seguito quello che hai fatto, ma dimmi cosa realmente proponi.
«Proprio pochi giorni fa ho incontrato il primo ministro a Tripoli dove erano anche presenti i vari leader delle regioni a sud del deserto tripolitano che è la via d’ingresso tipica dei migranti, trattati sinora talmente male che affrontano la traversata del deserto e l’arrivo al mare con gommoni quasi sempre in mano a scafisti che li fanno fuori durante il viaggio.
Questo non avverrà più. Quelli che oggi marciscono nei campi di concentramento lungo le sponde africane verranno almeno in parte ricondotti in patria. Quanto ai rifugiati, provvederemo a farli arrivare in Italia una volta al mese. La porta del nostro Paese per loro sarà sempre aperta».
In Africa hai avuto contatto con tutti, dal capo del governo egiziano a quello di Tobruch e a quello di Misurata e al generale cirenaico Haftar.
«Hai fatto un’ampia rassegna dei miei contatti con tutta la costiera africana. questi contatti sono indispensabili per la politica dell’immigrazione.
Specialmente da parte egiziana.
Il capo del cui governo mi ha assicurato la sua piena collaborazione per intervenire in qualche modo anche sul rafforzamento dell’attuale governo di Tripoli».
Insomma è una crociata.
Il Fatto 14.21.8
Ultimo tango a Tel Aviv, chiesta incriminazione per Netanyahu
La polizia: “Ci sono prove sufficienti di corruzione contro il premier”. Bibi replica: “Innocente, non mi dimetto”. L’ultima parola al procuratore generale Mandelblit
di Roberta Zunini
“Io so la verità, non decide la polizia ma la magistratura”. Sono state queste le prime parole che il premier israeliano Benjamin Netanyahu ieri sera ha scelto per il discorso alla tv nazionale allo scopo di rispondere alle accuse della polizia. Che poche ore prima aveva raccomandato alla magistratura l’incriminazione per corruzione e abuso d’ufficio. Dopo oltre un anno di investigazione, la polizia israeliana ha dunque deciso di inviare alla magistratura la richiesta di incriminarlo.
Il temuto dado è stato tratto nonostante lo stesso Netanyahu avesse tentato nei mesi scorsi di fare pressione sui legislatori affinchè approvassero una legge per abolire la facoltà della polizia di raccomandare ai magistrati di procedere alle incriminazioni.
Il premier più longevo della storia israeliana, la settimana scorsa aveva provato in extremis a scongiurare la “raccomandazione” facendo leva sul lungo rapporto di collaborazione e amicizia con il Procuratore generale Avichai Mandelblit. Tanto è vero che Bibi aveva risposto alle anticipazioni della stampa locale con queste parole : “Il Procuratore generale non permetterà che la magistratura accolga le indicazioni della polizia”. Ma anche per il fedele Mandelblit, a questo punto, non sarà facile trovare un escamotage per posticipare nuovamente la caduta dal piedistallo di Bibi e della impopolare Sara. La first lady è detestata da buona parte degli israeliani anche di destra – tra i quali molti elettori del Likud (il partito conservatore di cui Netanyahu è leader, ndr) – per lo stile di vita sfarzoso, l’amore per il lusso e le angherie nei confronti dei collaboratori domestici che in passato la denunciarono contribuendo a rimpolpare l’inchiesta dell’Unità anticorruzione della polizia nei confronti del marito. Il premier è al centro di 3 diverse inchieste denominate dalla polizia “caso 1000”, “caso 2000” e “caso 3000”. Per ora la richiesta di incriminazione riguarda i primi due.Nel “caso 1000” il premier è sotto accusa per aver ricevuto regali per migliaia di shekels dal noto produttore di Hollywood, l’israeliano Arnon Milchan. L’uomo, con un passato da agente segreto, fu aiutato da Netanyahu a ottenere la cittadinanza americana. Dalle ricostruzioni dei poliziotti sarebbe emerso che Milchan da anni mandi a casa Netanyahu casse dei più costosi champagne e centinaia di scatole di sigari pregiatissimi. Il premier si è giustificato sostenendo che “erano regali fra amici”. A smentire Bibi è emersa nei giorni scorsi una testimonianza considerata attendibile: la moglie Sarah avrebbe chiesto con insistenza alla segretaria di Milchan di far consegnare gli omaggi in scatole chiuse ermeticamente per evitare ne venisse individuato il contenuto. Il “caso 2000” riguarda il tentativo di Netanyahu di far cambiare linea editoriale, a proprio favore, al quotidiano Yediot Aharonot in cambio di una manovra, illegale, contro il quotidiano rivale Israel Hayom, oggi il più letto dagli israeliani.
Il motivo per cui Bibi si dice sicuro che il procuratore generale non accoglierà il suggerimento della polizia è dovuto anche al fatto che per il caso più spinoso, il “3000”, non si sia ancora arrivati alla fine delle indagini. Si tratterebbe della vendita di sottomarini tedeschi Dolphins a Israele, dietro pagamento di enormi tangenti. Nel settembre 2017 la polizia arrestò a questo proposito l’ex capo dello staff del premier, David Sharan. L’inchiesta tuttavia procede a rilento nonostante la polizia sia riuscita a convincere Sharan a diventare collaboratore di giustizia e a rivelare ciò che sa. Per quanto riguarda i primi due casi ci vorranno ancora mesi per conoscere le decisioni dei giudici sulla sorte del politico più controverso di Israele.
il manifesto 14.2.18
Processo a porte chiuse per Ahed Tamimi
Territori palestinesi occupati. Il giudice militare Menachem Lieberman ha giustificato la decisione con la necessità di proteggere la minore palestinese, sotto processo per aver schiaffeggiato due soldati. Per la difesa è solo un modo per non dare risonanza internazionale al caso
di Michele Giorgio
Processo a porte chiuse per tutelare Ahed Tamimi, ancora minorenne, o per evitare ulteriori imbarazzi a Israele che sta processando una 17enne che ha schiaffeggiato due soldati? L’avvocato Gabi Lasky, che assiste la ragazza palestinese, non ha dubbi. «La corte ha deciso per un processo in presenza solo degli avvocati e dei familiari per tutelare i propri interessi», ossia perché il caso avesse la minore risonanza internazionale possibile, ha spiegato Lasky la decisione presa ieri dal giudice militare Menachem Lieberman di vietare a reporter e diplomatici la presenza alla prima udienza del processo a carico di Tamimi. La 17enne fu arrestata lo scorso dicembre in seguito alla diffusione di un filmato girato dalla madre, Nariman, anche lei sotto processo, in cui l’adolescente prende a schiaffi e sferra un calcio a due soldati davanti alla sua abitazione nel villaggio di Nabi Saleh. Immagini virali, che hanno fatto il giro del mondo, e alle quali gran parte dell’opinione pubblica e del mondo politico in Israele ha reagito con sdegno e rabbia chiedendo una punizione esemplare per la ragazza palestinese.
Questo procedimento in un Paese democratico si sarebbe chiuso con un’ammenda, considerando anche l’età dell’imputata, e Nariman Tamimi non avrebbe mai visto il carcere solo per aver postato un video sui social. Non è azzardato ipotizzare che un civile israeliano per un “reato” simile non avrebbe trascorso quasi due mesi in prigione. L’hanno denunciato più volte nelle scorse settimane anche Amnesty International e Human Rights Watch. Ma Ahed e Nariman Tamimi sono processate da un tribunale delle forze di occupazione militare, l’occupazione che la ragazza e, in generale, tutta la sua famiglia denunciano costantemente da anni. Basem Tamimi, il padre, è stato più volte arrestato e detenuto per la lotta (pacifica) contro l’occupazione e per la partecipazione alle proteste contro la costruzione del Muro israeliano a ridosso di Nabi Saleh. Ieri l’uomo ha lanciato un invito, «Sii forte», alla figlia arrivata in aula in divisa da carcerata e con le manette ai polsi e alle caviglie.
L’avvocato Gaby Lasky spiegava ieri che, di norma, i dibattiti processuali che riguardano i minorenni si svolgono a porte chiuse per proteggere i loro diritti «mentre in questo caso Ahed stessa ha chiesto con forza che fosse aperto al pubblico». Lasky ha aggiunto che l’incriminazione dell’attivista è stata «gonfiata» per scoraggiare altre proteste contro i militari. Per il quotidiano israeliano Haaretz è stato un colpo di genio quello del giudice Lieberman, per impedire che Ahed Tamimi potesse continuare, con la sola esposizione davanti alle telecamere di tv di mezzo mondo, a denunciare l’occupazione e la sproporzione tra la condanna al carcere che rischia concretamente e i “reati” che le vengono contestati». Come ufficiale delle forze di difesa israeliane, ha scritto Haaretz, il giudice Lieberman ha due doveri: «Deve soddisfare il desiderio di punizione (di Tamimi) da parte del pubblico israeliano, furibondo per il fatto che a una palestinese di 16 anni sia stato permesso di spintonare e schiaffeggiare un militare dell’Idf (le forze armate israeliane,ndr)…Allo stesso tempo deve fare tutto ciò che è in suo potere per impedire che la corte diventi un circo mediatico, al punto da offrire a Tamimi, alla sua famiglia, agli avvocati e agli attivisti una conveniente opportunità per processare l’occupazione israeliana».
Che potesse accadere tutto ciò non è mai stato in dubbio visto che centinaia di giornalisti, diplomatici e operatori delle Ong per i diritti umani erano pronti a seguire e a dare pieno risalto alla vicenda. Il processo pubblico a Ahed Tamimi avrebbe anche fatto emergere il dato di oltre 300 minori palestinesi che sono detenuti in Israele. Così ieri un’ora dopo l’inizio del procedimento, senza preavviso, tutti hanno ricevuto l’ordine di lasciare l’aula, tranne la famiglia. Il colpo di genio del giudice Lieberman comunque non servirà a molto. I riflettori sull’adolescente palestinese e sua madre restano ugualmente accesi in tutto il mondo, mai come in questo momento.
La Stampa 14.2.18
Hong Kong, libertà soffocate
dall’abbraccio della Cina di Xi
Pechino aumenta il controllo su economia e politica, i dissidenti ridotti al silenzio
di Carlo Pizzati
Passeggiando spensierati tra i grandi boulevard di Hong Kong, all’ombra di grattacieli affastellati, a bordo di un grazioso tram d’epoca o nei mercatini esotici con animali d’incerta provenienza, nell’abbaglio di schermi pubblicitari e tra le auto di lusso non è percepibile quanto il dragone cinese stia stringendo le sue spire sull’indipendenza politica di Hong Kong.
Siamo nella New York d’Asia, la città più cara al mondo, cosmopolis leggendaria, tra uno Yacht Club e un China Club ultra-chic.
Ma uno spettro s’aggira per queste isole, quello della superpotenza con il più grande prodotto interno lordo al mondo, che penetra subdolo nei gangli di finanza, edilizia, media e telecomunicazioni con una strategia biforcuta per conquistare economicamente Hong Kong, ma soggiogandola anche politicamente, fino a consentire alla polizia cinese d’arrestare legalmente i dissidenti nei terreni affittati da società cinesi, dentro la città-stato.
Nel 1997, il Regno Unito consegnò Hong Kong alla Cina con un dichiarazione precisa. La Sino-British Joint Declaration garantiva il mantenimento dell’attuale sistema politico fino al 2047. Ma negli ultimi anni, tra rapimenti di librai considerati pericolosi dalla Cina, arresti di dissidenti del movimento degli Ombrelli e l’insediamento di «Lady Pechino» Carrie Lam al governo, la crescita del potere cinese nella capitale finanziaria non è solo accelerata, ha imboccato una strada legale verso la conquista totale.
Chi ha davvero il potere qui? I vecchi tycoon locali, che fino al ’97 la facevano da padrone, si trovano soggiogati. Vent’anni fa, i conglomerati autoctoni di Hong Kong, la cui fortuna risaliva alle Guerre dell’Oppio, come Li Ka-shing e Jardine Matheson, avevano una presa salda sul capitale. Esistono ancora, ma crollano in ginocchio sotto i colpi delle società della terraferma.
All’epoca, le società statali, le Red Chips, raccoglievano capitale da Hong Kong per finanziare lo sviluppo dell’economia cinese. Ora le stesse società spadroneggiano a Hong Kong, dove i servizi finanziari sono il 18 per cento dell’economia.
La China Construction Bank e la Haitong Securities dominano uno dei più grandi mercati finanziari al mondo. Nell’edilizia, i costruttori cinesi della Hna e della Logan Property vincono i più lucrativi appalti residenziali. Nella telefonia, China Telecom inaugura i suoi cellulari. E il miliardario Jack Ma s’è comprato il quotidiano «South China Morning Post», dichiarando che sarà più rappresentativo della punto di vista cinese.
Ma c’è un problema politico più preoccupante che gravita attorno alla stazione del treno di West Kowloon. A Capodanno, 10 mila manifestanti si sono scontrati con la polizia per protestare una decisione che riguarda questa stazione. E molto altro.
Non solo la governatrice sta infierendo con nuove restrizioni nei confronti di candidati anti-Pechino, squalificandoli dalle loro cariche, o arrestando i dissidenti, ma sta anche aprendo le porte a una vera conquista del territorio con un nuovo cavillo.
Un quarto della nuova ferrovia in costruzione è dato in concessione a società cinesi. Ciò significa che la Cina vi ha giurisdizione. Ovvero, può far intervenire forze di polizia o esercito. Ha in pratica ottenuto la sovranità tramite l’affitto dei terreni.
Questa mossa ha causato rabbia tra i dissidenti per l’impatto simbolico, poiché consentirà d’applicare leggi cinesi in alcune parti del territorio di Hong Kong. Ma c’è una preoccupazione più concreta nel consentire una sfera d’influenza cinese in uno snodo ferroviario di passaggio quotidiano così importante, mescolando giurisdizione cinese a quella locale, rendendo leciti i sequestri di persona da parte di polizia o servizi segreti, com’è accaduto ai librai di Causeway Bay, scomparsi e poi riapparsi nelle prigioni cinesi, ma anche a normali imprenditori, rapiti dai loro uffici in questi bei grattacieli. E trasformati in desaparecidos.
Ora se un terreno viene affittato a una società cinese, lì inizia la sovranità di Pechino. La conquista completa di Hong Kong sta avvenendo un dollaro alla volta, affittandosi in modo incrementale l’intera città. E stabilendovi, grazie al precedente di West Kowloon, la legge cinese. Non sarà necessario nessun Blitzkrieg per prendersi Hong Kong inviando truppe nei treni ad alta velocità. Si saranno già comprati tutto.
Non sorprende allora che la Cina, l’altro ieri, abbia richiesto alle associazioni in uniforme di Hong Kong, a partire dai Boy Scout fino ai volontari dell’Ambulanza di St. John, di rimpiazzare lo stile britannico nelle parate adottato finora e di sfilare con il passo dell’oca come l’Esercito di Liberazione del Popolo cinese.
Volenti o nolenti, a Hong Kong dovranno presto marciare tutti al passo dell’oca, alcuni decenni prima di quanto promesso nel 1997.
Repubblica 14.2.18
I piccoli orfani di Ceausescu il dittatore che volle farsi Dio
di Andrea Bajani
I dittatori hanno sempre preso spunto da Dio, per decidere come comportarsi con i propri sudditi. I Vangeli, più ancora che l’Antico Testamento, sono stati per loro l’implicito manuale di condotta. E i Vangeli ci hanno fatto capire – tra le altre cose – la stretta correlazione che esiste tra la divinità e la nascita. Una delle prerogativa di Dio è quella di presiedere alla nascita. È da Lui che dipende il venire a questo mondo di Gesù. È per questo che i dittatori tradizionalmente mettono bocca sulle gravidanze delle loro cittadine. Al pari di Dio sono loro e solo loro che ne sono responsabili.
Il sottotesto di Figli del diavolo della scrittrice romena Liliana Lazar (66than2nd, traduzione di Camilla Diez), è proprio questa equivalenza. «Costringeva il piccolo a voltarsi verso il ritratto del presidente che era affisso al muro e continuava: “Lui è tuo padre! È grazie a lui che hai un tetto sopra la testa, è lui che ti dà da mangiare!”». “Lui” è Nicolae Ceausescu, il Conducator della Romania comunista, dal 1967 all’89. Lei – la protagonista – si chiama Elena Cosma ed è un’ostetrica: è lei che si occupa di far nascere i figli della Romania, di mostrarli al Padre.
“Lui”, il Padre, è diventato divino per decreto, il Decreto 770, del 1966, chiamato Decreto sull’aborto e la contraccezione. È il grimaldello legislativo attraverso cui la Romania vuole ingrossare le file del Partito. I metodi contraccettivi sono riservati alle donne con almeno quattro figli, recita il primo degli articoli. Tra gli altri: «Tutti i cittadini che sono a conoscenza di un aborto sono tenuti a denunciarlo alle autorità». «Le donne ferite in seguito a un aborto clandestino» non potranno essere curate finché non avranno denunciato la persona che ha procurato l’aborto. A Elena Cosma, dunque, è fatto divieto assoluto di interrompere delle gravidanze. A meno che le donne incinte non siano mogli dei quadri del Partito.
Il ritratto di Ceausescu è appeso nel suo ambulatorio. È lì davanti che le donne si spogliano, perché di Dio è l’anima e anche il corpo: «Mettersi nude davanti al ritratto di Ceausescu rappresentava già di per sé una prova durissima. Poche erano le donne che posavano gli indumenti su una sedia, quasi tutte preferivano tenerli in mano, per tentare di nascondere la propria nudità. Quando si stendevano sul lettino, con le gambe sulle staffe, sentivano lo sguardo del presidente affondare tra le loro cosce».
Elena Cosma è la mano del Conducator. I bambini nascono e vanno consegnati a lui, per i ritratti ufficiali e il sol dell’avvenire. Quelli di cui ci si vuole sbarazzare, viceversa, sono figli del diavolo: appena nati, finiscono diretti in orfanotrofio, un affollato inferno di bambini disconosciuti appena nati.
Liliana Lazar, che conoscevano già per Terra di uomini liberi (Marco Tropea, 2011), ha scritto un romanzo che è difficile dimenticare. Attraverso la vicenda di una donna sola, che in fondo vorrebbe soltanto esser madre senza averne la possibilità, racconta come pochi altri libri hanno fatto i limiti estremi del culto della personalità. Elena decide di sottrarre un bambino destinato all’orfanotrofio pur di averne uno, mentre dal suo ambulatorio passano ogni giorno donne pronte a consegnare al Socialismo un altro soldato che si batterà per la Rivoluzione.
Certi spettri sembrano continuare a parlare da dentro gli armadi, e l’arte gli dà voce, perché sono rovelli che interrogano ogni Tempo. Nel 2007 il regista romeno Cristian Mungiu vinse a Cannes con il film 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni: era un film di finzione ma con la potenza visiva di un documento, e raccontava, da una prospettiva diversa, lo stesso problema affrontato da Lazar. La desolazione di ogni inquadratura rendeva agghiacciante un gesto antico, inquadrato nel contesto di un mondo cosiddetto progressista.
Questo romanzo torna a raccontarlo, ma con lo sguardo di una donna: lo squallore si fa compartecipazione, la violenza resta tale, ma si tinge di una malinconia che resta addosso a chi legge, si spalma sul giudizio della Storia, che però torna a ripetersi ogni giorno sui giornali. E anche quando il 1989 finalmente arriva, nel giorno di Natale, resta l’impressione – leggendo Lazar – che il mondo non cambi per davvero. «Il tiranno è morto!», legge Elena Cosma su uno striscione. Eppure quei bambini dati via continuano a parlare, anche dopo l’ultima pagina del libro.
il manifesto 14.2.18
Mary Gauthier, psicoterapia rock militante
Note sparse. Ritorno convincente per la musicista americana con «Rifles & Rosary Beads», un album che racconta il dramma dei suicidi fra i reduci dalle guerre in America
Mary Gauthier
di Guido Festinese
Mary Gauthier è un nome ben noto agli appassionati di «Americana», quel genere composito in cui si incrociano mille rivoli musicali del grande fiume del songwriting. Ha una voce potente ed amara, e le sue canzoni sono come sporgenze su un muro liscio cui attaccarsi per non precipitare nel vuoto: esorcismo di una vita ulcerata da molte tragedie e molti demoni interiori. Questa volta però cambia lo scenario, non più personale: le undici tracce di «Fucili e grani di rosario» sono nate dalla stretta collaborazione di Gauthier con i reduci delle mille missioni militari degli Usa nel mondo e le loro famiglie.
Una sorta di psicoterapia in rock militante, per rintuzzare l’assedio dei terribili demoni della paranoia da guerra vera, quella per cui centinaia di ex soldati si uccidono ogni anno nel Paese delle Opportunità. Un disco decisamente crudo, quanto diretto, implacabile, e con un merito in più: la traduzione in italiano dei testi presente nel disco.
Il Fatto 14.2.18
“Perfino Humphrey Bogart reciterebbe Montalbano”
Alberto Sironi - Lunedì il 45% di share, il regista: “Ci ispiriamo al cinema Usa, ma il commissario incarna l’italianità migliore”
di Federico Pontiggia
Record dei record: 11 milioni e 386 mila telespettatori per il 45% di share, La giostra degli scambi è Il commissario Montalbano più visto di sempre. L’acclamata serie tv lunedì 19 febbraio toccherà con Amore quota 32 film, e dal ’99 la triade creativa non è cambiata: Andrea Camilleri ci mette la penna, Luca Zingaretti la faccia e Alberto Sironi la macchina da presa. Gallaratese trapiantato a Roma, classe 1940, il regista non si capacita del successo: “Siamo contenti, anzi, di più. Ma anche un po’ sconcertati, sono cifre che fanno impressione”.
Sironi, a giudicare dagli ascolti Sanremo non è finito: è il trionfo del nazionalpopolare?
Come ascolti c’azzecca, ma la somiglianza col Festival finisce lì. Non sono nemmeno sicuro del nazionalpopolare, se è quello dei Promessi sposi allora sì, Montalbano lo è, in senso alto e importante. Camilleri ha scritto storie straordinarie, Salvo è tra i personaggi più belli della letteratura degli ultimi 50 anni.
Qual è la sua eccezione culturale?
Sceneggiature e romanzi hanno un’ambivalenza molto particolare, non sono storie naturalistiche, partono dal quotidiano, ma si e ci trasportano nel mito e, perfino, nella metafisica. Sicché il mondo di Montalbano è fatato: poche comparse, una macchina, la Tipo, che era già desueta nel ’99, una lentezza, una morbidezza di luce da favola. È un racconto diverso, e la gente lo capisce.
La gente vede anche Don Matteo: analogie?
Poche. Ho visto uno o due episodi qualche anno fa, per carità, certe cose sono anche divertenti, ma il modello d’ispirazione del poliziesco, quale è Montalbano, viene dal cinema americano, non dalla tv italiana.
Facciamo i nomi?
Il lungo addio, il bianco e nero, Raymond Chandler e Dashiell Hammett, le dark lady. E Humphrey Bogart.
Zingaretti come Bogart?
Beh, sono sicuro che copione alla mano Bogart Montalbano l’avrebbe fatto. Del resto, Luca l’abbiamo scelto sulla scorta del suo esempio: con la Rai e il produttore Carlo Degli Esposti, cercavamo un protagonista che oltre al commissario avrebbe potuto fare il villain. Accade, appunto, con i grandi attori americani, li vedi e non sai se aspettarti un buono o un cattivo: un interprete deve saper rovesciare la calza, altrimenti il pubblico s’addormenta. All’epoca Luca veniva da una carogna, lo strozzino di Vite strozzate, e dal villain della Piovra: perfetto. Ha ambivalenza, fisicità, sa essere forte e duro, per poi rivelare un’anima corretta e onesta.
Un gallaratese la Sicilia come la inquadra?
In realtà, esserlo è stata una fortuna: chi può emozionarsi di più delle bellezze sicule se non chi le conosce meno? Le piazze barocche le abbiamo liberate dalle macchine per filmarle, e grazie a Dio ci hanno copiato tutti, il sindaco di Ragusa Ibla in testa. E che dire della Fornace Penna, una fabbrica di mattoni abbandonata a Sampieri, che abbiamo usato più volte per location? Il sindaco ci ha messo un cartello, “luogo di interesse cinematografico”, e ha inibito la speculazione.
Da regista quali sono le premure?
Vengo dal teatro, facevo da assistente a Strehler, poi mi son trasferito a Roma, gavetta a Tv7. Ma dal palcoscenico ho mutuato un’attenzione estrema per gli attori: un regista li deve amare, non solo, deve esserne geloso, volersi sostituire. Bisogna saperli scegliere, come diceva Fellini, e il più è fatto. Zingaretti sa benissimo dove portare Montalbano, ha cervello, sensibilità: io al massimo posso dirgli “qui un po’ meno”, ma oramai tra noi basta uno sguardo.
32 episodi, il suo preferito?
Gli ultimi sono sempre i migliori, ma nel cuore ne serbo uno vecchio, Gita a Tindari, sul traffico d’organi di bambini.
Qual è il segreto di Montalbano?
Oltre alla dimensione mitica, incarna tutte le caratteristiche dell’italiano: anarchico individualista, vuole ragionare con la sua testa, vivere lì dove vive e stare con i suoi collaboratori, rinunciando a viaggi e carriera. Fedeltà e onore: molto siciliano e molto italiano, nel senso migliore. Ma ha anche uno sguardo ricco di pietas per i derelitti, non condanna quelli che sbagliano, al contrario, perdona e comprende. E il pubblico apprezza grandemente questa sua religiosità laica, tipicamente camilleriana.
Salvo chi voterebbe?
Non lo so, e vale pure per me. Agli inizi Fazio lo accusava di essere di sinistra, e Salvo si schermiva: “Ma quando mai!”. Eppure, l’attenzione per i deboli quella no, non l’ha mai nascosta.
La Stampa TuttoScienze 14.2.18
“Così al Cern si farà luce sull’Universo oscuro”
Fabiola Gianotti è leader del laboratorio n°1 al mondo “Ci stiamo preparando a decifrare il 95% del cosmo”
di Stefano Massarelli
La conoscenza dei componenti della materia, dell’Universo e di noi stessi è solo agli inizi. Ciò che osserveremo al Cern di Ginevra nei prossimi anni potrebbe spalancare le porte a una nuova fisica e a un nuovo modo di osservare la realtà, a partire dai minuscoli quark. A guidare questo cammino saranno i 17 mila ricercatori di 110 Paesi che collaborano agli esperimenti dell’acceleratore di particelle tra Francia e Svizzera sotto la guida di Fabiola Gianotti.
È lei che nel 2012 ha annunciato la scoperta del Bosone di Higgs, un risultato reso possibile - ha spiegato nella lezione all’Accademica dei Lincei a Roma - anche dalle tecnologie futuristiche della mega-macchina «Lhc», il «Large hadron collider».
Torniamo a quel 4 luglio 2012, quando lei era responsabile del test «Atlas»: quali prospettive ha aperto l’Higgs?
«La scoperta ha rappresentato allo stesso tempo un grande traguardo e un nuovo inizio. Un grande traguardo perché ci ha permesso di completare il disegno del Modello Standard, che è la teoria che descrive i componenti fondamentali della materia e le loro interazioni. Un nuovo inizio perché ci ha permesso di aprire le porte verso una nuova fisica. Il Modello Standard, infatti, seppure verificato a livello sperimentale, non è in grado di rispondere a tutte le domande ancora aperte della fisica. Il Bosone di Higgs rappresenta proprio uno degli strumenti attraverso cui indagare questa nuova fisica. Oggi, per esempio, stiamo misurando con attenzione i suoi comportamenti e le interazioni con le altre particelle: se dovessimo effettuare osservazioni che si discostano dal Modello Standard, ciò significherebbe che stiamo entrando in un terreno inesplorato».
A quali altre domande si tenta di dare una risposta con «Lhc»?
«Uno dei grandi interrogativi riguarda la comprensione dell’Universo oscuro. Ciò che riusciamo a vedere è solo il 5% della materia che compone l’Universo, che per il restante 95% è composto di materia ed energie a noi sconosciute. Tra i nostri obiettivi c’è quello di scoprire l’identità della materia oscura che costituisce circa il 25% dell’Universo. Abbiamo prove indirette della sua esistenza, ma non si è rivelata. Oltre a “Lhc”, numerose altre strutture nel mondo le danno la caccia, tra cui i Laboratori del Gran Sasso dell’Infn».
Un’altra questione riguarda l’origine dell’Universo: cosa sappiamo del Big Bang?
«Quello che osserviamo con i telescopi si ferma a circa 380 mila anni dopo il Big Bang, perché in epoche precedenti la luce è rimasta intrappolata in un gas opaco di particelle e quindi non è potuta giungere fino a noi. Per indagare oltre dobbiamo ricorrere agli acceleratori di particelle, attraverso cui si replicano le reazioni nei primi istanti dell’Universo. Con gli esperimenti attuali abbiamo studiato fenomeni che sono avvenuti un milionesimo di milionesimo di secondo dopo il Big Bang. Ma andare oltre è difficile: ci sono fenomeni che ancora non conosciamo».
Quali saranno i prossimi sviluppi dell’acceleratore «Lhc»?
«L’attuale ciclo, il “Run2”, terminerà a fine 2018. In seguito sarà effettuato un potenziamento e l’acceleratore riprenderà l’attività nel 2021, con fasci più intensi e maggiori energie. La quantità di dati aumenterà di 20-30 volte e ci permetterà di cogliere maggiori opportunità, effettuare possibili nuove scoperte e fornire anche risposte alle domande ancora irrisolte».
Al momento della nascita dell’Universo esistevano quantità pressoché simili di materia e antimateria, dopodiché quest’ultima è scomparsa. Sappiamo che fine abbia fatto?
«“Lhc” lavora anche per rispondere a questo quesito. Uno dei test - “LHCb” - si occupa di effettuare ricerche proprio sull’asimmetria tra materia e antimateria e di spiegare il perché quest’ultima sia scomparsa. Inoltre abbiamo a disposizione l’unica installazione al mondo per la produzione di antiprotoni e antielettroni, i quali vengono sintetizzati a formare molecole di anti-idrogeno: studiamo il comportamento di questo “equivalente” dell’idrogeno nell’antimateria e questo sembra comportarsi esattamente come l’idrogeno conosciuto».
Intorno al 2035 «Lhc» terminerà la sua attività. E dopo?
«Cominciamo a proporre nuove idee per quello che potrebbe essere il successore: si pensa a un super-acceleratore più grande e sempre circolare, anche se sono state avanzate ipotesi di infrastrutture lineari. È un momento strategico, in cui pianificare il futuro in previsione della nuova fisica».
Repubblica 14.2.18
Il mio maestro e il segreto dell’Antico Egitto
Il 14 febbraio 1928 moriva Ernesto Schiaparelli. Erudito, archeologo ossessionato dalla terra dei Faraoni rivoluzionò lo studio del passato e rese il Museo Egizio di Torino un’eccellenza mondiale. Il ricordo del suo successore
di Christian Greco
Il 14 febbraio del 1928, moriva a Torino Ernesto Schiaparelli. Si concludeva così l’avventura di un uomo straordinario, che dedicò la vita al prossimo e al suo Museo. Il direttore dell’Egizio fu un visionario e un precursore nel comprendere la rilevanza di un approccio multidisciplinare oltre che per l’uso di rilievi fotografici per sottoporre ad analisi scientifiche ciò che era contenuto nei reperti. Fece ad esempio analizzare gli oli e gli unguenti del corredo funerario dell’architetto Kha o i legni del suo bastone. Iniziative che più di un secolo fa erano tutt’altro che scontate. Ma Schiaparelli fu grande anche per aver mostrato interesse verso l’antropologia fisica. È questo principio a guidare la scelta di esporre nel museo, accanto alle vetrine, un album fotografico che mostrasse i siti e i luoghi da cui gli oggetti provenivano. L’archeologia deve molto a Schiaparelli, che resta un maestro per tutti noi. Grazie a lui ci si è resi conto dell’importanza dello studio sistematico delle collezioni, tramite una loro contestualizzazione archeologica e l’attività sul campo. Appartiene a quella generazione di studiosi – insieme a Petrie, Revers, Fiorelli e Rosa – che si confrontarono in modo scientifico con lo scavo, ponendosi domande di carattere metodologico e soprattutto insistendo sul contesto.
Dopo la laurea in Lettere all’Università di Torino, con una tesi intitolata Del sentimento religioso degli Antichi Egiziani,
sotto la guida del professore di Egittologia Francesco Rossi, si trasferì a Parigi. Qui, all’École Pratique des Hautes Études della Sorbona, seguì le lezioni di Eugène Revillout e di Gaston Maspero, e sarà l’amicizia con quest’ultimo che lo agevolerà nel corso delle campagne di scavo.
Schiaparelli fece rientro in Italia sul finire del 1879 e fu chiamato a Firenze al Museo Archeologico come assistente delle collezioni egizia ed etrusca.
I nuovi allestimenti fiorentini furono inaugurati il 2 febbraio del 1883, alla presenza di re Umberto I. Successivamente, dopo aver assunto la direzione della sezione egizia, si dedicò all’arricchimento delle collezioni organizzando due campagne di acquisti, condotte in Egitto nel 1884-1885 e nel 1891-1892. Fu nel corso della prima campagna che, venendo in contatto con l’Ordine francescano al Cairo e a Luxor, si rese conto della situazione di disagio sofferta dai religiosi dislocati in varie località del Paese. Toccato dai racconti dei frati, Schiaparelli, rientrato in Italia, si attivò per creare una struttura laica capace di garantire sostegno e dignità ai religiosi italiani in Egitto, costretti a vivere sotto la protezione austriaca. Il progetto si concretizzò nel 1886 con la fondazione dell’Associazione nazionale per soccorrere i missionari italiani (Amni poi Ansmi), con sede a Firenze, che in breve tempo si attivò in Egitto con oltre venti sedi, dal Cairo a Luxor, estendendosi poi fino a Pechino.
Nel 1894, con la morte di Ariodante Fabretti, Schiaparelli fu chiamato a Torino per dirigere il Regio Museo di Antichità ed Egizio. E fu il suo capolavoro. Si dedicò al riassesto del museo che, rimasto a lungo inattivo, rischiava di perdere il primato che lo aveva reso celebre nel mondo.
Occorreva rinnovare gli allestimenti e incrementare le collezioni per tornare a competere con i principali musei d’Europa e d’America. Dopo una campagna di acquisti condotta in Egitto nel 1901, pur con risultati “molti e preziosi”, Schiaparelli aveva compreso che le campagne di acquisti non erano la strada migliore per arricchire le collezioni, sia per gli elevati costi sia perché si finiva inevitabilmente con l’acquisire antichità sottratte al loro contesto di origine. Occorreva invece intraprendere ricerche direttamente sul campo, programmando più stagioni di scavo e individuando preventivamente i siti maggiormente interessanti per le necessità del museo.
La sua attività di ricerca prese il via nell’inverno del 1903, con i fondi messi a disposizione da Vittorio Emanuele III, portando così alla fondazione della Missione archeologica italiana (Mai). Questi finanziamenti permisero di condurre le prime quattro campagne di ricerca in alcuni tra i siti più importanti per la storia dell’antico Egitto: Eliopoli, Ermopoli, Giza, Valle delle Regine, Deir el-Medina, Hammamya, Qau el-Kebir e Assiut. Una sovvenzione successiva da parte dei Savoia consentì il proseguimento degli scavi fino al 1920. Il ventennio di ricerche in undici località del Basso, Medio e Alto Egitto permise la scoperta di migliaia di reperti dei quali oltre 35.000 vennero accordati dal governo egiziano al nostro Paese, per il museo di Torino. I grandi cantieri della Valle delle Regine (1903-1905), presso Tebe, avevano messo in luce numerose tombe di regine e principi tra cui, nel 1904, quella della regina Nefertari, sposa di Ramesse II. Dalle tombe giunsero a Torino importanti resti di corredi funerari e decine di sarcofagi con le loro mummie.
Nell’attigua località di Deir el-Medina (1905-1908), oltre alla necropoli dove fu ritrovata nel 1906 la tomba intatta di Kha e Merit e la cappella di Maia, furono portati alla luce i resti del villaggio, che permisero la scoperta di un archivio con oltre trenta papiri.
La campagna di Giza del 1903 aveva consentito il recupero di statue, elementi architettonici e sarcofagi. Anche gli altri siti fornirono una straordinaria quantità di materiale che contribuirono al riallestimento delle collezioni in ambienti molto ampliati. L’inaugurazione delle nuove sale avvenne il 17 ottobre del 1924. L’attività sul campo è considerata da Schiaparelli in tutti i suoi aspetti, dalla necessità di definire una metodologia corretta di indagine, che permetta di identificare e studiare in modo unitario il contesto, alla documentazione, con il ricorso sistematico allo studio multidisciplinare, per ottenere tutte le informazioni possibili a inquadrare il ritrovamento, fino alla sua musealizzazione. In questo consiste la lezione che ci lascia. Si tratta delle basi che ancora oggi caratterizzano gli scavi condotti dagli archeologi in Egitto e non solo.
Le sfide che ci troviamo di fronte adesso sono molteplici: la continua ridefinizione degli aspetti metodologici, la necessità di pubblicare e di condividere rapidamente i dati con la comunità scientifica e, non ultimi, i cambiamenti ambientali, demografici e politici che incidono sugli scavi e sui reperti.
Un ultimo aspetto mi pare importante sottolineare: un’istituzione, come il Museo Egizio, che oggi decida di intraprendere scavi non ha più come fine quello di accrescere le proprie collezioni – in questo si misura la netta distanza dagli anni di Schiaparelli – ma quello di ampliare le conoscenze specifiche sulla cultura materiale che ha il privilegio di custodire, quello di comprendere il contesto da cui provengono i reperti esposti nelle sue gallerie e quello di costruire legami, reali o solo virtuali, fra le comunità che popolano il territorio nel quale le ricerche sono condotte e quello nel quale l’istituzione stessa è radicata.
Sta a noi, adesso, continuare quel viaggio intrapreso da Schiaparelli.