Il Fatto 1.2.18
Caro Prodi, queste non sono coalizioni
di Franco Monaco
Questa
volta dissento da Romano Prodi, cui pure mi legano amicizia e un lungo
sodalizio politico. Mi spiego. Sono d’accordo su due punti:
1) il
profondo dissenso sulla legge elettorale, da lui definita sciagurata,
che infatti mi sono rifiutato di votare e che, tra i suoi innumerevoli
difetti, contempla al più esili e precari accordi elettorali e non
coalizioni politiche con programma e simbolo comune (tipo Ulivo), le
sole che hanno consentito di vincere al centrosinistra a guida prodiana;
2)
è stato un errore la scelta neofrontista di MdP con SI, che le consegna
entrambe a una deriva minoritaria, e sancisce una divisione del
centrosinistra che, temo, si proietterà ben oltre la prossima contesa
elettorale. Un errore che tuttavia, mai come in queste ore che
comprovano la totale refrattarietà renziana a concepire un partito
plurale e inclusivo, meriterebbe una qualche comprensione. Anche in
vista di un’auspicabile ricucitura domani. Ma qui si innesta il mio
dissenso da Prodi. Specie nella imputazione delle responsabilità, che io
attribuisco quasi per intero a Renzi e alla sua invincibile attitudine
divisiva. L’opposto dello spirito dell’Ulivo. La linea e la leadership
di Renzi hanno diviso il Pd (la scissione è stata più cercata che subita
e comunque egli non ha fatto nulla per scongiurarla); hanno diviso il
centrosinistra con la reiterata presunzione dell’autosufficienza che si è
risolta nella solitudine del Pd, acuita dal Rosatellum, regola
elettorale perfetta per il centrodestra imperniato appunto su
opportunistici accordi elettorali e suicida per il centrosinistra (il Pd
si è rifiutato pure al voto disgiunto); hanno diviso il paese, anche e
soprattutto sulla riforma costituzionale e sulla sua gestione politica;
hanno diviso verticalmente società, politica e istituzioni con la teoria
e la pratica della “disintermediazione”, di uno stile di governo a
scavalco delle rappresentanze politiche e sociali. In contrasto con la
tradizione di tutte le sinistre riformiste europee. Domando a Romano: si
può chiamare coalizione quella raccoltasi intorno al Pd? Con tre liste
civetta, cespugli che, forse con la sola, parziale eccezione della
Bonino, manifestamente neppure ci provano a guadagnarsi una autonoma
rappresentanza puntando al 3%, come dimostrano i tre-quattro seggi
asseriti come sicuri graziosamente concessi dal Pd?
La si può
definire come nitidamente di centrosinistra e alternativa al
centrodestra con Casini, Lorenzin, formigoniani, ceto politico ex
berlusconiano? La verità è che la “cultura della coalizione”, di cui
Prodi fu ineguagliato artefice, non la si può improvvisare. Di più: è
intimamente estranea al Pd renziano. La prova? Intanto che Renzi abbia
delegato ad altri – il volenteroso Fassino – un compito che per
definizione spetterebbe al leader, evidentemente consapevole di essere
il meno idoneo ad aggregare e avvertito che si trattasse di missione
impossibile. Del resto, con ostinazione, ci aveva provato Pisapia,
concludendo che con questo Pd non era possibile (si veda come si sono
risolte le due condizioni da lui poste: lo ius soli e una chiara
discriminante verso esponenti del centrodestra, ora reclutati dal Pd).
Infine la pagina allucinante delle candidature, che certifica la
cancellazione delle minoranze e il compimento della metamorfosi del Pd
nel Partito di Renzi. Egli disporrà di un gruppo parlamentare di
fedelissimi e avrà le mani libere.
Saranno pure maliziosi quelli
che immaginano un asse privilegiato con Berlusconi, ma troppe cose
congiurano in quella direzione. A cominciare dallo scenario di un futuro
parlamento senza maggioranze e dunque esposto a manovre e trasformismo.
Sarebbe un paradosso, certo non voluto da Prodi, il leale e fiero
antagonista di Berlusconi, se quello che fu il suo Pd si risolvesse
nella spalla del Cavaliere che, non è un mistero, a dispetto delle
rituali smentite, volentieri si alleggerirebbe di Salvini dopo il voto.
Naturalmente per asserito senso di responsabilità da “statista”…