domenica 11 febbraio 2018

Corriere La Lettura 11.2.18
Il maestro Toni Negri dà lezione al mondo
di Antonio Carioti


Nel volume Galera ed esilio , seconda parte dell’autobiografia di Toni Negri Storia di un comunista (a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie, pp. 447, e 19,50), c’è una sola parte in cui l’autore ammette degli errori: è il testo del discorso da lui tenuto alla Camera nel 1983 per chiedere ai deputati di non rimandarlo nel carcere da cui era uscito grazie all’elezione nelle liste radicali. Acqua passata. Dopo essersi sottratto all’arresto con la fuga e aver ammaliato l’estrema sinistra mondiale, Negri oggi si sente di nuovo un Lenin postmoderno.
Certo, l’uomo è dotato di acuta intelligenza e smisurata cultura, benché esigua rispetto al suo ego. E se non può presentarsi certo in Italia come un povero perseguitato, va riconosciuto che molte delle più gravi accuse rivolte contro di lui (come quella di essere il cervello delle Br) non erano fondate. Tuttavia Negri conferma di aver esaltato i fermenti sociali degli anni Settanta come «una rivoluzione in atto, uno scenario politico che si trasformava in orizzonte di guerra». E non ha autocritiche da fare circa gli effetti che quella predicazione ebbe su tanti giovani indotti a bruciare le loro vite in nome di una meta illusoria. Da marxista, potrebbe almeno ammettere che all’epoca non c’erano le condizioni materiali per sbocchi rivoluzionari. Invece no. Anzi, con prosa dannunziana, invoca il suo nuovo idolo, la «moltitudine», che già vede «muoversi in maniera vincente nella lotta di classe». E se il mondo non va dove dice Negri, di sicuro ha torto lui. Il mondo, naturalmente.

Corriere 11.2.18
Auschwitz, spettro che può tornare Il monito eterno di Primo Levi
La collana In edicola il terzo di sedici volumi con le opere dello scrittore sopravvissuto alla Shoah
Dove «non si è più considerati umani». E dove «nessuno ti parla»
Il naufragio dell’etica occidentale nell’orrore dei campi di sterminio
di Donatella Di Cesare


Fu un tonfo sordo e inatteso. Quel sabato mattina una volante della polizia e un’autoambulanza raggiunsero in fretta Corso Re Umberto 75, al centro di Torino. Era di Primo Levi il corpo esanime, ai piedi delle scale. Quell’11 aprile 1987 la notizia del suicidio fece il giro del mondo e lasciò tutti attoniti, i lettori, ma anche gli amici. Pur sapendo della sua depressione, si rifiutavano di credere che avesse compiuto quel gesto. La lucidità di pensiero, l’altezza intellettuale, che avevano contrassegnato figura e opera di Levi, stridevano con quella spirale di ringhiere in cui era precipitata la sua vita. Molti dubitarono, vollero credere a un incidente. Il suicidio sembrava cancellare ogni scintilla di speranza inscritta nelle sue parole. Il «New Yorker» espresse questo timore apertamente. Molti altri, però, indicarono in quella morte la fine di una tenace sopravvivenza al lager.
Solo un anno prima, nel maggio 1986, era uscito I sommersi e i salvati , l’opera fondamentale di Levi. In quelle pagine la testimonianza personale, affidata ad altri libri precedenti, si coniuga con una riflessione profonda, un’analisi implacabile e un monito severo. «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire». Le parole della conclusione sono il suggello di un libro pervaso dall’amarezza, a tratti dalla disperazione, ma sostenuto dall’esigenza di una denuncia senza compromessi. I sommersi e i salvati è scritto per i giovani; sono loro i destinatari. E perciò in ogni scuola dovrebbe oggi essere studiato, meditato. Non basta leggere Se questo è un uomo , oppure La tregua . Perché è come se quella narrazione trovi una nuova luce. È a partire dall’attualità che viene infatti ripercorsa l’esperienza del lager. Auschwitz non è un mito lontano, ma uno spettro del futuro. Levi prende la parola per combattere, con le ultime forze, contro revisionisti e negazionisti.
Non si comprenderebbe il suo pensiero se non lo si interpretasse nel contesto di quei giorni. Nel giugno 1986 lo storico tedesco Ernst Nolte aveva articolato una tesi, già diffusa in Germania, con cui pretendeva di mettere sullo stesso piano il gulag e il lager, lo stalinismo e il nazismo, e vedeva anzi in quest’ultimo null’altro che una risposta al primo. Qualche tempo dopo, quel «laido conato» trovò spazio anche sulla stampa italiana. Levi fu implacabile: i due sistemi non erano paragonabili. Le camere a gas, quell’invenzione tutta tedesca, era la cifra ineguagliata dello sterminio.
La Germania che tentava invano di discolparsi, di «sbiancare il suo passato», gli faceva orrore. «Nessun tedesco dovrebbe dimenticare». Attento a non pronunciare un verdetto su un’intera nazione, con il tempo modificò il giudizio. La colpa era stata enorme: «Quasi tutti i tedeschi di allora» sapevano e non avevano avuto il coraggio di parlare. I sommersi e i salvati è un libro durissimo che mira a decostruire molti stereotipi. Ad esempio l’idea, ancora ben radicata, che Auschwitz sia il risultato della barbarie nazista. Le cose sono ben più complicate. A quel progetto politico hanno aderito — occorre riconoscerlo — molti intellettuali. Ma sulla scia di Hegel, che aveva deificato lo Stato, l’intellettuale tedesco «tende a farsi complice del Potere». «Le cronache della Germania hitleriana — osserva Levi — brulicano di casi che confermano questa tendenza: vi hanno soggiaciuto Heidegger il filosofo, il maestro di Sartre; Stark il fisico, premio Nobel; Faulhaber, il cardinale, suprema autorità cattolica in Germania, ed innumerevoli altri».
Qualcuno ha scritto che in queste pagine Levi si rivela un grande moralista. Ma la definizione è fuorviante. Piuttosto, senza smettere di essere testimone, Levi veste i panni del filosofo per criticare la filosofia, per sfidarla, indicando temi rimasti fuori dall’inventario filosofico, come quello di vergogna, o mostrando i concetti che, come quello di morte o di libertà, vanno rivisti. Perché Auschwitz è il naufragio dell’etica occidentale. La responsabilità è stata frantumata. Levi ritorna sulla «zona grigia» dove alla vittima, per la prima volta, non è concesso più neppure il ruolo di vittima, al punto da renderla semicarnefice. È questo il «delitto più demoniaco del nazionalsocialismo».
Splendido, e forse sottovalutato, è il capitolo «Comunicare» . Auschwitz appare una nuova versione della Torre di Babele. Capire o non capire, sapere il tedesco, segna lo spartiacque tra la vita e la morte. La disumanizzazione dell’altro passa attraverso la lingua ridotta a crudele strumento di potere. La parola lascia il posto all’offesa e poi al nerbo. È il segnale che non si è più considerati umani. E Levi commenta: «Dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio». Nel lager, però, si muore per mancanza non solo di informazione, ma anche di dialogo, quando nessuno «ti parla» più. Dove viene meno il vocativo dell’altro finisce la vita. Perciò scrive Levi rivolto ai suoi destinatari futuri: «Rifiutare di comunicare è colpa» .

il manifesto 11.2.18
Chi è sceso in piazza ci ha salvato la faccia e la Costituzione
di Marco Revelli


Macerata ritorna umana. Nonostante il coprifuoco di un sindaco dal pensiero corto, che ne ha reso spettrale il centro storico. Nonostante il catechismo sospeso e le chiese chiuse da un vescovo poco cristiano. Nonostante gli allarmi, i divieti, le incertezze della vigilia. Nonostante tutto.
Un’umanitá variopinta, consapevole e determinata, l’ha avvolta in una fiumana calda di vita, ritornando nei luoghi che una settimana prima erano stati teatro del primo vero atto di terrorismo in Italia in questo tormentato decennio. Un terrorismo odioso, di matrice razzista e fascista, a riesumare gli aspetti più oscuri e vergognosi della nostra storia nazionale.
Era un atto dovuto. La condizione per tutti noi di poter andare ancora con la testa alta. Senza la vergogna di una resa incondizionata all’inumano che avanza, e rischia di farsi, a poco a poco, spirito del tempo, senso comune, ordine delle cose.
Un merito enorme per questo gesto di riparazione, va a chi, fin da subito, ha capito e ha deciso che essere a Macerata, ed esserci in tanti, era una necessità assoluta, di quelle che non ammettono repliche né remore. A chi, senza aspettare permessi o comandi, nonostante gli ondeggiamenti, le retromarce, le ambiguità dei cosiddetti «responsabili» delle «grandi organizzazioni», si è messo in cammino. Ha chiamato a raccolta. Ha fatto da sé, come si fa appunto nelle emergenze.
Il Merito va ai ragazzi del Sisma, che non ci hanno pensato un minuto per mobilitarsi, alla Fiom che per prima ha capito cosa fosse giusto fare, ai 190 circoli dell’Arci, alle tante sezioni dell’Anpi, a cominciare da quella di Macerata, agli iscritti della Cgil, che hanno considerato fin da subito una follia i tentennamenti dei rispettivi vertici.
Alle organizzazioni politiche che pur impegnate in una campagna elettorale dura hanno anteposto la testimonianza civile alla ricerca di voti. Alle donne agli uomini ai ragazzi che d’istinto hanno pensato «se non ora quando?». Sono loro che hanno «salvato l’onore» di quello che con termine sempre più frusto continua a chiamarsi «mondo democratico» italiano impedendo che fosse definitivamente inghiottito dalla notte della memoria. Sono loro, ancora, che hanno difeso la Costituzione, riaffermandone i valori, mentre lo Stato stava altrove, e contro.
Tutto è andato bene, dunque, e le minacce «istituzionali» della vigilia sono alla fine rientrate come era giusto che fosse.
Il che non toglie nulla alle responsabilità, gravi, di quei vertici (della Cgil, dell’Arci, dell’Anpi…) solo parzialmente emendate dai successivi riaggiustamenti.
Gravi perché testimoniano di un deficit prima ancora che politico, culturale. Di una debolezza «morale» avrebbe detto Piero Gobetti, che si esprime in una incomprensione del proprio tempo e in un’abdicazione ai propri compiti.
Non aver colto che nel giorno di terrore a Macerata si era consumata un’accelerazione inedita nel degrado civile del Paese, col rischio estremo che quell’ostentazione fisica e simbolica di una violenza che del fascismo riesumava la radice razzista, si insediasse nello spazio pubblico e nell’immaginario collettivo, fino ad esserne accolta e assimilata; aver derubricato tutto ciò a questione ordinaria di buon senso, o di buone maniere istituzionali accogliendo le richieste di un sindaco incapace d’intendere ma non di volere, accettando i diktat di un ministro di polizia in versione skinhead, facendosi carico delle preoccupazioni elettorali di un Pd che ha smarrito il senno insieme alla propria storia e rischiando così di umiliare e disperdere le forze di chi aveva capito…
Tutto questo testimonia di una preoccupante inadeguatezza proprio nel momento in cui servirebbe, forte, un’azione pedagogica ampia, convinta e convincente.
Un’opera di ri-alfabetizzazione che educasse a «ritornare umani» pur nel pieno di un processo di sfarinamento e di declassamento sociale che della disumanità ha ferocemente il volto e che disumanità riproduce su scala allargata. Quell’ opera che un tempo fu svolta dai partiti politici e dal movimento operaio, i cui tardi epigoni ci danzano ora davanti, irriconoscibili e grotteschi.
Negli inviti renziani a moderare i toni e a sopire, mentre fuori dal suo cerchio magico infuria la tempesta perfetta, o nelle esibizioni neocoloniali del suo ministro Minniti, quello che avrebbe voluto svuotare le vie di Macerata delle donne e degli uomini della solidarietà allo stesso modo in cui quest’estate aveva svuotato il mare delle navi della solidarietà, quasi con la stessa formula linguistica («o rinunciate voi o ci pensiamo noi»).
Il successo della mobilitazione di ieri ci dice che di qui, nonostante tutto, si può ripartire. Che c’è, un «popolo» che non s’è arreso, che sa ancora vedere i pericoli che ha di fronte e non «abbassa i toni», anzi alza la testa. Ed è grazie a questo popolo che si è messo in strada, se del nostro Paese non resterà solo quell’immagine, terribile e grottesca, di un fascista con la pistola in mano avvolto nel tricolore.

Il Fatto 11.2.18
Le “Anime belle” stiano lontane da Macerata
di Furio Colombo


Per spiegare chi sono le “anime belle” c’è bisogno di un autorevole editorialista di un grande giornale a cui preme di apparire super partes(dunque mai pensare che i neri colpiti dalle pallottole di Macerata siano tutti buoni e mai caricare tutte le colpe sui fascisti che sostengono il fascista che ha sparato). Cito dall’editoriale di un grande quotidiano: “Bisogna aprire gli occhi sul fatto che il modo caotico, non controllato, illegale, con cui i flussi migratori hanno ‘invaso’ pezzi delle nostre città e delle nostre terre, ha provocato risentimento e rancore anche fra la gente per bene, magari un po’ tradizionalista ma niente affatto razzista, non abbastanza ricca da godere dei vantaggi della Società multietnica che le ‘anime belle’ spacciano come destino ineluttabile della nazione…” (Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 4 febbraio). La parola chiave è “spacciano”, da spacciatore, sostantivo che va bene sia per chi predica finta bontà dagli attici di buone abitazioni sicure, sia per gli spacciatori di droga che “presumibilmente (dice l’autore) hanno fatto a pezzi la ragazza Pamela”. Infatti (cito ancora dal testo di Polito, un buon documento del come e dove stiamo vivendo): “Macerata è la città dove una ragazza di diciotto anni che avrebbe potuto essere nostra figlia, è appena stata uccisa e fatta a pezzi presumibilmente da uno spacciatore di origine nigeriana. (…) Tolleranza vuol dire tollerare anche questo? Ovviamente no. Bisogna allora che lo Stato per la sua parte e i media per la nostra, lo dicano a voce talmente alta da farla sentire anche a coloro che, lontani e frustrati (e armati, ma l’autore questo dettaglio non lo nota, ndr) si sentono soli e perciò covano sentimenti di vendetta”.
Importante notare il titolo del pezzo da cui ho citato è “Ora niente sia come prima”. Bisogna riconoscere un buon istinto giornalistico (è vero, niente è più come prima), intonato con l’umore di una classe dirigente e di buona parte dell’opinione popolare. Quell’umore, del tutto estraneo fino a poco fa al Paese di cui un tempo si diceva “nato dalla Resistenza”, è stato espresso con chiarezza e per primo dal Movimento 5 Stelle. I due leader Di Battista e Di Maio hanno detto in modo quasi solenne: “Silenzio”. E hanno stabilito uno strano rapporto con la realtà. Silenzio vuole anche dire restare fuori dalla disputa, di fronte a una città in cui si spara per le strade per vendetta, e nel tentativo di uccidere. Però la omogeneità fra parti di potere che controllano o influenzano il Paese è grande. Qualcuno ha tenuto a bada i fascisti che volevano sostenere il loro eroe (l’uomo che ha sparato) e rivendicare il loro militantismo assassino. Ma nello stesso momento qualcuno ha tenuto a bada l’Anpi (coloro che intendono ancora rappresentare i partigiani e la Resistenza che ha stroncato il fascismo) e tiene a bada coloro che sono antifascisti e sanno che questo è il momento di essere presenti come lo è stato in ogni altro momento pericoloso della storia italiana. Questa volta no. Il ministro dell’Interno e il segretario di un partito che era di sinistra hanno detto no e fatto capire che qui non si discute di politica, qui si lavora alle elezioni. In questo modo, per la prima volta, l’Italia che conta, ben rappresentata dall’articolo citato, tiene ferme le due parti, lasciandoci capire che si somigliano e vogliono solo menarsi. La decisione, presa in un misterioso luogo dove si sa come stanno le cose, rende uguale il fascismo che viene avanti in divisa e con le sue dottrine di morte e il suo odore di campi di sterminio. E l’antifascismo, che discende da una sua massa di perseguitati, imprigionati, torturati e uccisi, nella lotta per la libertà che ha fondato l’Europa, e ha salvato i ragazzi di Forza Nuova, di CasaPound e i nuovi associati ancora travestiti con felpe, dal fare per sempre, di professione, le guardie dei lager.
Sappiamo tutti che la verità che potrà emergere non potrà cancellare una abominevole storia né restituire la vittima ai suoi genitori (fra i pochi umani e generosi protagonisti di tutto quest’incubo). Sappiamo anche che in prigione c’è uno spacciatore nigeriano (infiltrato in un’attività tutta italiana) ma non c’è un assassino nigeriano. Infatti il nero in prigione, per il quale sette neri dovevano morire (se ne cercavano dieci) e non sono morti per caso, non è accusato di omicidio. Tuttavia, tra i cittadini italiani di Macerata già arruolati nel nuovo fascismo fondato sulla vendetta e sulle fake news, è già stato fatto il giuramento: “Quando lo liberano, il compito è nostro”. La conclusione dell’articolo che ho citato è in armonia con la nuova cultura del tenere a distanza i facinorosi delle due curve, fascisti e antifascisti (con paterna comprensione per l’esasperazione dei bianchi): “Ognuno è preoccupato di riaffermare le sue ragioni, nessuno disposto a riconoscere le buone ragioni degli altri e a chiedere umilmente scusa per averle sottovalutate”. Pensate a quale punto di squilibrio possono portare il Paese “le anime belle”.

il manifesto 11.2.18
Pacifici, uniti e antifascisti
Partigiani sempre. Nei giorni scorsi si era insistito molto sul carattere pacifico della manifestazione, e il timore di provocazioni era presente e si è fatto sentire: il servizio d’ordine è stato imponente e ha contribuito a far sì che ogni cosa andasse per il verso giusto
di Mario Di Vito


MACERATA Quando la testa del corteo è ormai a metà percorso, la coda deve ancora lasciare il punto di partenza. Dalle casse la voce degli organizzatori si fa sentire forte: «Siamo trentamila».
IL GIORNO DELL’ANTIFASCISMO a Macerata è stato un bagno di folla quasi inaspettato. «Pensavamo saremmo stati molti meno, soprattutto dopo le difficoltà dell’ultima settimana», confidano dal Sisma, il centro sociale che ha tessuto la rete che ha portato alla pacifica invasione della città di ieri.
Il serpentone era lungo più di un chilometro, su un percorso intorno alle mura cittadine che di chilometri ne prevedeva in totale soltanto tre. Sin dalla prima mattinata, i giardini Diaz si sono riempiti di persone: militanti da ogni parte d’Italia, certo, ma anche cittadini qualunque accorsi a mostrare il proprio sdegno per la sparatoria razzista compiuta dal militante leghista Luca Traini una settimana fa, e al conseguente clima di giustificazionismo pararazzista arrivato da troppe parti.
Tra i primi ad arrivare è stato Adriano Sofri, che si aggirava tra i ragazzi che gli stringono la mano, quasi stupiti di vederlo lì. Presenti anche i rappresentanti della comunità africana cittadina, accolti dagli applausi di tutti al loro ingresso. Poi ancora, tra gli altri: Pippo Civati, Nicola Fratoianni e un pugno di parlamentari di Leu (alcuni dei quali con un adesivo attaccato addosso: «Liberi, Uguali e Antifascisti»), quelli di Potere al Popolo guidati da Viola Carofalo e Maurizio Acerbo, Francesca Re David con la Fiom, Gino Strada di Emergency, Sabina Guzzanti, l’ex ministro Cécile Kyenge, Sergio Staino, il disegnatore Michele Rech (alias Zerocalcare), la partigiana Lidia Menapace, l’anarchico Lello Valitutti, in apertura di corteo, di fianco al camion da cui partivano gli interventi. Tante le bandiere di ogni colore, tra cui quelle dell’Anpi e dell’Arci, presente tra l’altro con la sua presidente Francesca Chiavacci. Come annunciato, infine, ha sventolato con le altre anche la bandiera del manifesto, con lo slogan «La rivoluzione non russa».
LA FRATTURA che si era venuta a creare nel fronte antifascista durante la settimana – con Cgil, Anpi, Arci e Libera che si erano dissociate dalla manifestazione – è sostanzialmente sanata: tanti iscritti di base di queste associazioni hanno partecipato all’iniziativa maceratese. Nella calca si è fatto vedere anche qualche militante locale del Pd, che a mezza bocca ammette di non condividere la posizione del proprio partito su questa vicenda: assenza senza giustificazione: «Traini ha sparato anche contro una nostra sede, non venire qui sarebbe stato un errore». L’unico dettaglio che stona è la completa assenza di figure istituzionali.
IL SINDACO Romano Carancini ha fatto sapere di essere con gli antifascisti, ma solo«col cuore», non condividendo comunque tempi e modalità del corteo. A conti fatti, però, quella di Macerata si segnala anche come prima manifestazione europea contro il terrorismo in cui non si è fatto vedere nemmeno un rappresentante delle istituzioni. Un’occasione persa, visto e considerato il clamoroso successo di partecipazione della giornata di ieri.
LE TENSIONI IPOTIZZATE in maniera non sempre disinteressata alla vigilia non ci sono state: la manifestazione è stata in tutto e per tutto pacifica, la polizia in assetto antisommossa si è limitata a presidiare gli ingressi al centro storico e non è mai entrata in contatto con le persone in corteo. È apparsa financo eccessiva l’aria di città blindata che ha assunto Macerata, con i negozi che per lo più hanno tenuto le serrande abbassate. Gli unici due paninari aperti nei pressi dei giardini Diaz, in verità, hanno fatto affari d’oro.
FINO A VENERDÌ SERA le cose erano avvolte nell’incertezza, tra la prefettura che minacciava di bloccare tutto e il sindaco che ha tentato in ogni modo di modificarne il percorso. Non c’è però mai stato alcun divieto di manifestare, o almeno così ha sempre sostenuto la questura, che di comunicazioni ufficiali dal Viminale non ne ha ricevuta nemmeno una.
INUTILE NEGARE che quando tutti i manifestanti sono tornati al punto di partenza per ascoltare gli ultimi interventi prima del rompete le righe, gli organizzatori hanno tirato un bel sospiro di sollievo. Nei giorni scorsi si era insistito molto sul carattere pacifico della manifestazione, e il timore di provocazioni era presente e si è fatto sentire: il servizio d’ordine è stato imponente e ha contribuito a far sì che ogni cosa andasse per il verso giusto. Tutto è andato secondo i piani, anzi, dalle finestre dei palazzi, molti cittadini hanno battuto le mani al passaggio del serpentone.
La partita sul filo del rasoio tra il ministro degli Interni Marco Minniti (che nei giorni scorsi ha fatto di tutto per rendere il clima pesante) e i ragazzi del centro sociale Sisma è stata infine vinta dai secondi: una piazza grande, bella e antifascista. Come dovrebbe essere tutto il Paese.

Il Fatto 11.2.18
L’assenza del Pd non fa più notizia
di Daniela Ranieri


Ci è arrivata voce di gente delusa che il Pd ieri non fosse a Macerata alla manifestazione contro il fascio-razzismo indetta da movimenti e associazioni antifasciste, e che anzi, nella persona del sindaco Pd Carancini l’abbia pervicacemente sabotata. Noi un po’ ce l’aspettavamo. Serbiamo memoria di tutte le buche che il partito per convenzione chiamato democratico, che mobilitava le piazze contro B., rifila da anni al suo elettorato storico quando questo protesta, preferendo alle piazze Leopolde e talk-show. Tralasciamo i cortei di studenti, insegnanti, operai e sindacati, dove i pidini non hanno potuto esser presenti perché per una serie sfortunata di circostanze si manifestava contro di loro.
Il Pd ha disertato il raduno anti-mafia a Ostia proposto dal sindaco Raggi; questo perché i geni del Pd ritengono preferibile far pensare alla gente che il Pd sia a favore della mafia piuttosto che d’accordo col M5S. Il giorno della Liberazione, a Roma con l’Anpi il Pd non c’era. Era a Milano: col “25 aprile tutto Blu” (cartelli color Ikea coi nomi di “patrioti europei” come Coco Chanel, che però purtroppo era filo-nazista) ha bloccato il fascismo, come i fatti di Macerata dimostrano.
Ieri ha detto involontariamente parole significative il ministro Calenda, a un’iniziativa del Pd a Bergamo dove non si manifestava contro il fascismo perciò era giusto stare: “Spero che (quella di Macerata, ndr) non sia una marcia d’odio” (odiare cecchini neonazi è démodé) “ma che riaffermi i valori democratici e costituzionali”, ed è questo il principale motivo per cui loro non ci sono andati.
Un capolavoro di pusillanimità le parole ventriloque del sindaco: “Col cuore oggi sarò in piazza, ma riconfermo che la città ha bisogno di respirare”. L’immagine degli organi del sindaco sparsi un po’ qua un po’ là ci suscita un sospetto: e se non andassero alle manifestazioni non per non perdere voti, ma perché hanno paura di essere menati? Ma mica da Forza Nuova: dalla gente perbene.

Repubblica 11.2.18
Piazze antirazziste il Pd resta ai margini e disorienta la base
Centri sociali e associazioni di solidarietà trainano le manifestazioni In 20mila a Macerata con slogan anti Minniti. A Milano anche Fiano
di Alessandra Longo


MACERATA È il giorno della piazza che divide e disorienta la sinistra in tutta Italia. Macerata è l’epicentro della lacerazione. Una città blindata che non partecipa fisicamente alla manifestazione contro il fascismo e il razzismo. Le finestre sono chiuse, i negozi hanno le porte protette dal compensato come per gli uragani in America. Ventimila, trentamila persone sfilano dai giardini Diaz, là dove lo spaccio si consuma vicino alle giostre per i bambini. Un fiume di militanti, centri sociali, anarchici, la Fiom, ma non la Cgil, Libera, Emergency con Gino Strada, i Cobas, Potere al Popolo con Lidia Menapace che tiene lo striscione a 94 anni, i comunisti con Marco Ferrando, i leninisti di Che fare (scatenati contro «la stampa di regime»), i deputati di Leu Civati, Fratoianni e Zoggia, segmenti di Arci, partigiani locali e l’Anpi di Roma, contraria all’assenza decisa dall’Anpi nazionale, i neri, regolari e non, l’ex ministra Kyenge, gli studenti, i vecchi di Lotta Continua che riabbracciano Adriano Sofri e a qualcuno vengono le lacrime.
Ma il Pd non c’è. Il Pd è il grande assente. Non solo a Macerata ma anche a Milano dove altri ventimila, soprattutto giovani, occupano la piazza ed Emanuele Fiano, promotore Pd della legge sul divieto di propaganda fascista, si materializza quasi timidamente. C’è anche Pierfrancesco Majorino. Li conti sulle dita di una mano. È Laura Boldrini a tenere banco: « Non c’è posto per l’apartheid in Italia. Mi fa piacere ci siano Fiano e Majorino, ma il Pd ha sbagliato a non esserci » . E poi una frecciata ad Emma Bonino: « Come fa a stare col Pd che non ha voluto lo Ius soli?». A Palermo il sindaco Orlando sfila sotto le bandiere di Cobas, Arci e Anpi.
Su temi come l’antifascismo, potevano essere assieme. Ecco, a Macerata, Sergio Staino: « Doveva esserci una grande manifestazione repubblicana ma il Pd, che è l’asse di riferimento, ci ha spiazzati tutti ». Nei più vecchi militanti c’è sofferenza per la scelta del vertice di lasciare vuoto il campo. Alvaro, 74 anni, iscritto all’Anpi di Cerreto Desi, si guarda intorno: «Non c’è il Pd, non ci sono i compagni dell’Anpi nazionale. Provo un sentimento, strano, confuso » . Forse lo stesso sentimento che porta all’abbraccio tra Vasco Errani, passato a Leu, e Gianni Cuperlo. Loro sono a Bologna, altro sit in in questa giornata difficile. Cuperlo è amaro: «Dividere le piazze sull’antifascismo è l’errore più grave che possiamo fare». Però ormai è andata così. E i giovani che sfilano sotto le Mura Urbiche di Macerata sfogano la loro rabbia contro Marco Minniti. Gli danno del “ nazista”, della “ testa d’uovo”. Portano cartelli del tipo Minniti= Cossiga, Minniti fascisti garantiti. Molto più rari gli slogan a pennarello contro la Lega. Uno dice : “ Salvini fascista”. Se la prendono più volentieri con il sindaco Pd di Macerata Romano Carancini che aveva chiesto, per la sua comunità choccata, una pausa di silenzio e riflessione. E quasi ignorano Pamela uccisa, Pamela fatta a pezzi e chiusa in due valigie. Lei è il non detto, lo sfondo macabro da cui è partito tutto.
Macerata città non c’è, si blinda, i fiori alle finestre, la pace perduta. Non è un corteo dove ci sono le famiglie, è un corteo “ politico”, che parla all’Italia e non alla città. Sofri la spiega così: « Hanno spaventato la gente con l’allarme su possibili disordini. Avrei voluto telefonare a Renzi e dirgli: “ Vieni in incognito ma vieni” » . Fratoianni, la giacca d’ordinanza con su scritto “ parlamentare antifascista”, mette sale sulla ferita: « Questa è una sconfitta per il Pd, la sua scelta di non esserci è stata incomprensibile » . Da un comizio a Porto Torres, il capogruppo dei senatori dem Luigi Zanda cerca una connessione con i manifestanti: «Il fascioleghismo di Salvini ha prodotto gli spari razzisti di Macerata e non possiamo sottovalutarlo ».
Certo, con il Pd sarebbe stata una manifestazione diversa, forse senza slogan isolati ma indegni come quello scandito da un centro sociale del Nord Est: “Ma che belle sono le foibe da Trieste in giu”. O come l’orrendo coro già usato dopo il delitto Mattei e risentito ieri: “I covi dei fascisti si chiudono con il fuoco; con i fascisti dentro sennò è troppo poco”.
Le parole pesano, dice Susanna Camusso, con Matteo Orfini alla manifestazione di Roma per le foibe, a Tor Bella Monaca: «L’attentato terrorista va chiamato con il suo nome». La giornata è difficile: a Piacenza gli antagonisti vanno all’assalto di CasaPound, cinque carabinieri feriti; a Torino sassi contro la polizia. Ma a Macerata, presidiata come per un G8, fila tutto liscio . Ulderico Orazi, consigliere comunale del Pd a Macerata, e titolare del bar di fronte al monumento ai caduti dove si è consegnato il pistolero filoleghista Luca Traini, guarda scorrere il fiume in piena dei manifestanti e si sente contento di aver sparigliato: «Sono qui con orgoglio piddino». Renziano, fa finta di non sentire quello che dice un “compagno” con l’altoparlante: «Caro Renzi, stai delirando tu e il tuo partito. Altro che silenzio. Noi siamo qui a manifestare! » . A sera, Elena, una giovane mamma di Terni, dà il biberon ad Edera, 4 mesi. Non ha avuto paura di portarla qui, così piccola? « Mi fa paura altro, la direzione che sta prendendo questo Paese».

Corriere 11.2.18
Migliaia al corteo antirazzista Il Pd sotto attacco
Nel mirino finiscono più il leader pd e Minniti che non la Lega
E Salvini commenta: da italiano mi vergognoper la manifestazione
di Goffredo Buccini


Macerata Scusate, qualcuno di voi, qui, vota Pd? Silenzi ostili, sguardi rancorosi. Poi un attempato leninista che diffonde copie di «Che fare», il giornalino dei comunisti internazionalisti, si volta rabbioso: «Ma perché non pensi ai cavoli tuoi? Sei venuto a provocare?». Insomma, uno s’immagina per bersagli i fascisti, il terrorista nero Traini, magari la Lega... invece in questo freddo pomeriggio maceratese, tra i capannelli del popolo di sinistra-sinistra radunato nei Giardini Diaz (per l’occasione sottratti agli spacciatori nigeriani) ecco s’avanza soprattutto uno strano nemico, che sarebbe anche un po’ amico e dunque è nemico due volte, in quanto traditore della causa: il Partito democratico; meglio: il Partito democratico di Renzi e Minniti, quello «modificato geneticamente». Classico convitato di pietra, tutti lo evocano, per dannarlo, sollecitarlo, esorcizzarlo, alla partenza della grande manifestazione antifascista e antirazzista nata tra cento paure e mille tira e molla, sconsigliata e sconfessata proprio dal Pd, senza Cgil né Arci e con brandelli regionali di Anpi, dunque sostanzialmente «in mano ai centri sociali», «forse un errore», come premette con onestà Lara Ricciatti di Liberi e uguali, scendendo alla stazione.
Le parole di Sofri
Tutti ne parlano, quasi controvoglia. Dal leninista inviperito di «Che fare» al sempre felpato Sofri, che ritrova qui compagni d’una vita (Cesare Cannaroli, già sindaco di Fano e antico militante di Lotta continua non lo vedeva dal congresso di Rimini del 1976 e gli butta le braccia al collo: «Adrianoooo, adesso piango!»). A metà tra un gigantesco come eravamo e un balzo nelle nuove reti antagoniste di adolescenti che invocano un comunismo mai realizzato e tuttavia tracimato dai sogni di padri e nonni, il catino dei Giardini Diaz vibra alla partenza con questo buco dentro: perché senza Pd, ammettiamolo, non c’è neppure la città, il corteo si snoda potente e orgoglioso ma isolato lungo le quattrocentesche «Mura Urbiche» sotto finestre quasi tutte chiuse (eccetto quelle di un centro Sprar pieno zeppo di migranti). Sofri la racconta sornione com’è: «Avevo quasi pensato di telefonare l’altra notte a Renzi e dirgli: Matteo, vieni anche in incognito, ma vieni, bisogna essere pazzi per non essere oggi in questa piazza!». Non dev’essergli costato troppo rinunciare alla chiamata notturna. Sergio Staino ha scommesso con lui sui numeri alti del corteo e alla fine vincerà (sfilano tra i venti e i trentamila) ma non si fa illusioni: «Certo, lo so, doveva essere una grande manifestazione dell’Italia repubblicana, ma l’asse di quell’Italia, il Pd, s’è sfilato e ci ha spiazzati».
Insomma, per questo popolo è in fondo «una vittoria e una sconfitta», come coglie lucido Nicola Fratoianni. Si sente negli slogan, urlati da tanti ragazzini antagonisti ma impregnati di passato e di trapassato: «Minniti uguale a Kossiga», «Ministro Minniti, fascisti garantiti». Ce ne sono di odiosi, come questo ereditato dalla livida Roma degli anni Settanta e dal rogo assassino di Primavalle: «Le sedi fasciste si chiudono col fuoco, con i fascisti dentro, se no è troppo poco». Ce ne sono di intollerabili, come questo dei veneti di Aktion Antifascista sulle note di una vecchia canzonetta della Carrà: «Come son belle le foibe/ da Trieste in giù». Non può essere cittadino questo corteo militante, «troppo militante», ammette Marco Furfaro: così questa in qualche modo è anche la rivincita dell’assai vituperato sindaco di Macerata, Romano Carancini, convinto che bisognasse manifestare, sì, ma concedendo un tempo di riflessione alla comunità. Non può davvero essere cittadino un corteo che, salvo un passaggio «contro i femminicidi», non dedica uno slogan, uno striscione, una foto o un pensiero a Pamela Mastropietro, la ragazzina massacrata nella casa del nigeriano Innocent Oseghale e diventata simbolo da vendicare anche nella mente allucinata dello stragista Traini.
C’è invece un grande striscione per le sei vittime di Traini, i migranti feriti nel raid di una settimana prima da cui è iniziato tutto quest’incubo. Altri ragazzi immigrati ballano e cantano chiedendo «permesso di soggiorno subito!», davanti a Cecile Kyenge, una delle rare presenze Pd che, con lieve fastidio, offre ai taccuini una dichiarazione surreale: «Non parliamo di politica in un giorno come questo». E chissà quando mai dovremmo parlarne se non in un pomeriggio che, dopo scissioni e veleni, sancisce il divorzio della sinistra con una ufficialità quasi notarile su un tema così enorme. Un consigliere comunale del locale Partito democratico, Ulderico Orazi, è venuto qui mezzo incappucciato, con il figlio e il cane. È il padrone del bar Cavour e ha visto da venti metri la cattura di Traini, infagottato nel tricolore in quel suo modo sacrilego, sulle scale del Monumento ai Caduti. Per risposta, ha esposto a sua volta il tricolore sul bar e adesso dice che «il partito partecipa col cuore ma purtroppo senza presenza fisica. Sarebbe stata una bella occasione per recuperare a sinistra, senza lasciare la piazza a Liberi e uguali». Alvaro Viola, presidente Anpi di Cerreto Desi, provincia di Ancona, racconta orgoglioso: «Noi siamo qui, ci siamo schierati contro il direttivo nazionale che ha subito le pressioni del Pd».
I vecchi Disobbedienti
Nel lungo flusso umano riappaiono vecchi Disobbedienti dimenticati come Caruso e Casarini, Gino Strada con la sua Emergency, Lidia Menapace coi suoi 94 anni e uno striscione di Potere al Popolo. Un fiume infine pacifico, che s’impiegano 35 minuti a vederlo passare, e che smentisce profeti di sventura e terroristi della parola che immaginavano scontri e Blocchi Neri. Elena, giovane mamma di Terni, non s’era fatta spaventare nemmeno da terrore e profezie. S’è tirata dietro in passeggino una meraviglia di quattro mesi, Edera, che regala risatine di cristallo a chiunque le parli: «Preoccupata per averla portata qui al corteo? Ma dai! Sono un bel po’ più preoccupata per come va il mondo...».

il manifesto 11.2.18
Camusso nel «feudo» fascista: «La politica torni in periferia»
Roma. Presidio Cgil e Anpi a Tor Bella Monaca. «Nel nostro Paese è vietato costruire organizzazioni neofasciste e neonaziste. Allora bisogna pretendere e rivendicare che queste organizzazioni vengano sciolte»
di Gilda Maussier


ROMA Stato. Nel nostro Paese è vietato costruire organizzazioni neofasciste e neonaziste. Allora credo che bisogna pretendere e rivendicare che queste organizzazioni vengano sciolte». Susanna Camusso esorta così le centinaia di persone arrivate ieri pomeriggio in uno dei più difficili quartieri della periferia est romana, Tor Bella Monaca, per partecipare al presidio antifascista organizzato dalla Cgil Roma e Lazio e dall’Anpi, e a cui hanno aderito hanno aderito diverse sigle tra le quali Pd, Potere al popolo, Liberi e uguali, Rete degli studenti, Acli, Aned, Arci, Libera, Associazione per il rinnovamento della sinistra, Articolo 21, Cisl, Libertà e Giustizia, Comitato Dossetti per la costituzione e L’altra Europa.
Una manifestazione voluta per presidiare un territorio dove le bande di neofascisti la fanno da padrone, tanto che Azione Frontale lo scorso anno tappezzò la borgata con manifesti per boicottare i negozi degli immigrati e ieri, dopo aver postato su Facebook le foto delle scritte inneggianti al fascismo che campeggiano nel quartiere per dimostrare che Tor Bella Monaca è un loro «feudo», ha tenuto una fiaccolata all’interno del vicino parco di Torre Angela per chiedere di intitolare l’area a Giuseppina Ghersi, una bambina di 13 anni che sarebbe stata uccisa a Savona poco dopo la Liberazione da un gruppo di partigiani (la ricostruzione storica è controversa) ma sicuramente è stata molto usata nella propaganda neofascista. Tra i partecipanti, anche esponenti locali della Lega e di Fratelli d’Italia.
Così, mentre Camusso ricordava ai partecipanti al presidio (tra i quali il presidente del Pd Matteo Orfini, i parlamentari di LeU Loredana De Petris e Stefano Fassina, e l’ex partigiana Tina Costa) che «la responsabilità della politica, delle organizzazioni democratiche è di avere abbandonato le periferie e averle lasciate ai neofascisti» e che «la Cgil ha sedi in molti territori ma la politica deve tornare in queste zone», anche dall’altra parte della città l’estrema destra invadeva le strade. Nel quartiere Giuliano-Dalmata, infatti, CasaPound ha sfilato con la solita imponente coreografia fascio-ultrà «in onore dei martiri delle foibe» e, per quel che vale, il relativo video postato su Fb ha raccolto quasi 7 mila like in poco più di due ore (d’altronde, come ha notato il quotidiano britannico The Guardian qualche giorno fa, sia Forza Nuova che CasaPound hanno sui social media migliaia di followers in più del Pd).
«Il ministro dell’Interno sbaglia a sottovalutare quanto accade – ha ammonito Stefano Fassina – e ha sbagliato ha autorizzare il presidio dell’ennesima organizzazione fascista a pochi centinaia di metri da qui. Basta ambiguità, basta tolleranza, basta silenzi, basta indifferenza verso chi sta fuori dal nostro quadro costituzionale». In questa ottica è stata lanciata la campagna «Mai più fascismo» che raccoglie firme per chiedere di sciogliere le organizzazioni neofasciste e neonaziste «come già avvenuto in alcuni casi negli anni ’70».
È uno dei cinque punti proposti dal candidato di LeU Pippo Civati, segretario di Possibile, per un «piano nazionale antifascismo» che prevede anche «un osservatorio pubblico su fatti, fenomeni, gruppi e movimenti fascisti»; un piano formativo straordinario in ogni ordine di scuola»; l’«obbligo, almeno per i canali Rai, della produzione di programmi informativi sul tema»; e la rimodulazione delle pene per l’istigazione all’odio razziale e per gli hate speech.

Il Fatto 11.2.18
Ma Salvini dell’Islam non sa nulla
Ignoranza elettorale - Come il centrodestra rinuncia a 600 mila voti musulmani
Ma Salvini dell’Islam non sa nulla
di Pietrangelo Buttafuoco


Mancano 600 mila voti al centrodestra per raggiungere la maggioranza elettorale il 4 marzo prossimo. Così, i sondaggi. Sono giusto i numeri dei musulmani italiani che, incostituzionali a detta di Matteo Salvini – di fatto destinati ad avere negati diritti civili, e così finirà – col piffero poi vanno a votare la coalizione che pure potrebbe garantire la richiesta minima che accomuna i credenti: Dio, Patria, Famiglia. Nessuno è più nemico a noi come la maggior parte dei nostri, verrebbe da dire ai musulmani. Proprio perché tra i “nostri” dovrebbero annoverarsi i difensori della tradizione, nel segno della Misericordia e di quel pane da spartire con gli ultimi.
La destra che non riesce nelle distinzioni, non sa staccare due temi lontanissimi – l’immigrazione e la religione – ne fa un tutt’uno e prende due strade infami: il razzismo e il divieto di culto. Due maledizioni che sono figlie di odio e ignoranza. Mancano giusto quei 600 mila voti alla destra e il leader della Lega, pensando di raccattare la schiuma della rabbia sociale s’imbarca sul fronte di una guerra modernista per indicare nell’Islam il nemico dei “nostri valori”. Se si tratta di diritti civili, e cioè aborto, eutanasia, matrimonio omosessuale e ideologia gender, anche i cattolici – che all’elenco aggiungono il divorzio – non ne condividono l’impianto laicista. Sono fuori dall’arco costituzionale anche loro? Se si tratta di sacralità, del mirabile tracciato con cui la Chiesa – nei secoli – ha intessuto l’esito degli Evangeli, chiunque li abbia letti e compresi non può credere che l’Islam sia in conflitto con il messaggio di Gesù. Salvini che è già stato ospite nelle moschee, in altre stagioni, non può non sapere cosa sia Maria Vergine per i musulmani, non può dimenticare la vibrante sura a Lei dedicata nel Corano e lo stesso Salvini che spesso predica male per razzolare bene non può attingere al Bar Sport delle idee trash tutta la sua ostilità a una religione universale, marchiarla come “incompatibile con la nostra Costituzione” e spiegare ciò che, Dio ce ne scampi, non conosce. Dimostrando di non conoscere né l’Islam e neppure la Carta, Salvini dice: “Il problema dell’islam è che è una legge, non una religione e nel nome di Dio impone una legge”. Ci mette il carico: “Non voglio che in Italia si insedino persone per cui la donna vale meno dell’uomo”. Molti musulmani italiani, ben prima che dalla nascita – per famiglia e per storia – sono insediati nella patria del Veltro di Dante e la domanda è ovvia: “Siamo dei fuorilegge?”.
Una docente di Teologia islamica interpellata sorride (e non faccio il suo nome, a sua tutela, i tempi diventano sempre più brutti). Tanto per cominciare è lei quella che istruisce in materia di religione. Vale dunque più di qualunque barba. Sorride e, paziente, ricorda: “La sharia non è una lista della spesa con elencate le cose lecite e illecite”.
Appunto, no. “La sharia è divisa in due parti, nella prima si contempla l’adorazione di Dio, la seconda riguarda le attività umane; nella prima è vietato fare i cambiamenti e cioè non si può certo pregare con le mani in tasca, nella seconda – invece – le innovazioni partecipano della mutevolezza terrena”.
La sharia è un monolite dal punto di vista della fede, ma non della pratica. Pare di sentire tuonare Salvini, nel solco di Oriana Fallaci: “Leggetelo il Corano, vi troverete la Legge!”. Appunto, no. Una cosa è il Libro, un’altra è la Legge. Alla domanda di cui sopra – “Siamo fuorilegge?” – può seguire un’altra domanda: “Perché Maometto che era depositario della rivelazione divina ha promulgato, a Medina, una costituzione civile?”. Ecco una risposta. A differenza di quello che capita a un credente ogni giorno, e cioè di cominciare all’alba la prima delle cinque preghiere quotidiane, e di farlo sempre, e assolvere ai “sacri doveri”, ciò che riguarda la Legge – ciò che compete alle vicende terrene – è materia d’interpretazione, è sforzo di adattamento e non certo dogma. Altrimenti non sarebbe più affidamento alla Misericordia ma idolatria verso una “lista della spesa”. Quasi come una lista al mercato elettorale.

Il Fatto 11.2.18
“Che tristezza vedere la vostra sinistra votata alla sconfitta”
Il segretario di Podemos commenta la campagna elettorale italiana e le similitudini con il Movimento 5 Stelle
“Che tristezza vedere la vostra sinistra votata alla sconfitta”
intervista di Elena Marisol Brandolini


Pablo Iglesias, come sta Podemos? Non sembra attraversare la sua fase migliore.
Abbiamo commesso un errore, in particolare nell’ultimo periodo segnato dalla vicenda catalana, lasciando che l’agenda sociale sparisse dalla scena mediatica. Nonostante questo, ora ci danno in risalita, siamo al 19%, a due punti dal risultato delle scorse elezioni. Questo è un paese con 4 partiti politici che possono vincere le elezioni e noi siamo impegnati a vincerle.
È in difficoltà Rajoy?
Il PP sta vivendo uno dei suoi momenti più difficili, resiste perché Ciudadanos e il Psoe glielo permettono. I socialisti dovrebbero presentare una mozione di sfiducia, noi l’appoggeremmo, disponibili a negoziare un governo. I numeri ci sono, Esquerra Republicana e il Partit Demócrata hanno già detto che la sosterrebbero senza chiedere nulla in cambio, solo per cacciare Rajoy dal governo.
Perché ci guadagna più Ciudadanos che il PP con il tema catalano?
Per due processi simultanei che si stanno verificando: da un lato quello di una svolta reazionaria in Spagna che Ciudadanos interpreta meglio senza patire il logorio della corruzione e della responsabilità di governo, aprendo un’inedita competizione a destra, ove Ciudadanos rappresenta a volte la nuova estrema destra. C’è poi una dimensione specificatamente catalana: il fatto che il partito politico più votato in Catalogna sia una forza apertamente anti-catalanista. E questo significa che esiste un nazionalismo spagnolo in Catalogna. A noi sembra che sia indispensabile cambiare le domande e renderle più trasversali: quando la gente vota pensando agli sfratti, alla sanità, alla scuola, possiamo vincere le elezioni e cambiare le cose.
Avete proposto una riforma della legge elettorale.
La stiamo negoziando con Ciudadanos, la proporremo a tutti i gruppi, sperando che almeno il Psoe la sostenga. Suggeriamo una cosa molto semplice: cambiare la formula dal D’Hondt al Sainte- Laguë (ovvero due metodi matematici per l’attribuzione proporzionale dei seggi, ndr), perché così avremo un Congresso con una maggior corrispondenza tra voto e rappresentanza. Questo non solo è più giusto, ma corrisponde alla nuova fase politica, in cui non ci saranno più maggioranze assolute, ma governi di coalizione. E abbiamo bisogno di un sistema elettorale che rappresenti meglio la volontà degli elettori e favorisca l’accordo tra partiti. Poi proponiamo le liste-cremagliera per assicurare almeno la metà dei parlamentari donne. E che si possa votare a 16 anni.
I leader indipendentisti restano in carcere per la loro ideologia, sono prigionieri politici?
Credo di esser stato il primo a sostenerlo, già a settembre dissi: non voglio che ci siano prigionieri politici nel mio paese. Siamo coscienti che in Catalogna c’è un conflitto politico che dovrebbe risolversi politicamente. Detto questo, ci sembra un errore la strategia della unilateralità del procés indipendentista: quella strategia ha prodotto una situazione di eccezione generando uno scenario che ha facilitato una svolta reazionaria, danneggiando sia la Spagna che la Catalogna.
C’è separazione di poteri in Spagna?
Siamo in una situazione di eccezionalità democratica in cui governa un partito sta mettendo in dubbio la separazione di poteri. E nel frattempo si giudicano e condannano rapper per i testi delle canzoni, e persone comuni per i loro tweet.
Che pensa di Rivera ricevuto da Renzi?
Credo che sia una dichiarazione di principio di Renzi, in Spagna sta con Ciudadanos. Rivera è sempre alla ricerca di referenti che proiettino quello che lui non è capace di essere, ha provato anche ad avvicinarsi a Macron.
Che opinione ha del M5S?
È un movimento difficile da qualificare. Ci hanno paragonati a loro, forse ciò che è simile è il momento politico di eccezionalità e di rifiuto nei confronti delle élite politiche in Italia e in Spagna. Ma, mentre nel nostro modo di governare e fare politica c’è una certa coerenza, mi sembra che in quello del M5S si mescolino elementi di cultura politica diversi. Le sue esperienze di governo municipale, per quanto ne so, non sono andate molto bene, a differenza delle nostre. Bisogna vedere l’esito delle elezioni di marzo e se il M5S sarà o no parte di una soluzione di governo.
E della sinistra italiana?
Sono molto preoccupato, l’Italia per me è stata una scuola, è un paese con una cultura di sinistra che continua a proiettarsi nel mondo come un riferimento. Ma vedo con tristezza che la sinistra con cui potrei identificarmi non è in condizioni di combattere per vincere le elezioni. Ho amici che fanno politica in LeU, altri nel Pap (Potere al popolo) e a entrambi auguro un buon risultato.
C’è un populismo buono e un populismo cattivo?
Il populismo non serve a descrivere un movimento, né uno stile politico. Descrive dei momenti, situazioni in cui il modo di fare politica cambia. È una parola che definisce i momenti di eccezionalità politica in cui appaiono le espressioni della rottura. E queste espressioni possono essere a volte terribili come Trump, o ambigue come il M5S, o chiaramente progressiste come Podemos o la France Insoumise.

La Stampa 11.2.18
Sui migranti la Babele della sinistra
In una bella giornata di sole decine di migliaia di persone, da Macerata alle grandi città del Nord, hanno rinunciato allo shopping, allo svago, per scendere in piazza e dire il loro no al razzismo
di Francesco Bei


Un sabato pacifico, di persone dignitose e ferme, che pochi imbecilli - come quelli che a Macerata hanno inneggiato alle foibe nel giorno del ricordo - non sono riusciti per fortuna a rovinare. E se era comprensibile il timore del sindaco della città marchigiana, che aveva chiesto di soprassedere per concedere ai suoi concittadini - travolti da eventi più grandi di loro - «almeno il tempo per respirare», è giusto dire che l’atteggiamento responsabile della maggioranza dei presenti ha creato le condizioni per una manifestazione serena dal grande valore morale.
Tuttavia la solita pulsione autodistruttiva della sinistra e l’approssimarsi delle elezioni hanno trasformato in parte lo slancio democratico di quanti sono scesi in piazza in un’arma contundente da campagna elettorale. Le cronache dei cortei, soprattutto quello marchigiano, raccontano infatti che bersaglio principale degli slogan e degli striscioni sono stati non Salvini, Traini, o i «fascisti del terzo millennio», non Fiore e Forza Nuova. No. Il vero bersaglio polemico di una parte dei convenuti era un altro: il Pd di Renzi e, soprattutto, il ministro Minniti. Definito da Gino Strada «ideologicamente corrotto e colluso». Colluso con Traini? Un cartello riproponeva il sempre verde Minniti=Kossiga, con la doppia esse nazista. Ma per qualcuno, che ha concluso con l’altoparlante la manifestazione, il ministro dell’Interno è persino peggio di Traini, perché «lui ne ha feriti sei, Minniti ne uccide a migliaia bloccandoli in Libia». Ora, è sbagliato accostare queste frange minoritarie a tutto quello che si muove a sinistra del Pd, ma non c’è dubbio che l’obiettivo di colpire i democratici è stato perseguito lucidamente anche dalla dirigenza di Liberi e Uguali, dai vertici dell’Anpi e dalla galassia di sigle dell’area.
Ma la vicenda di Macerata, che ripropone il dilemma del che fare di fronte alle masse di disperati che attraversano il Mediterraneo, tocca al fondo un problema che non riguarda solo Renzi: la verità è che la destra, nella sua brutalità, una ricetta agli italiani sembra offrirla. La sinistra riformista no. Per questo appare afasica, in difficoltà. E forse non è un caso se anche i massimi dirigenti di Liberi e Uguali, da Grasso ai big Bersani e D’Alema, ieri si siano tenuti lontani da quella piazza. Quello che la sinistra fatica a comprendere è che non basta gridare al fascismo o prendersela con Salvini perché gli italiani, come dicono i sondaggi, smettano di considerare un pericolo l’immigrazione clandestina. I maceratesi spaventati per quello che è successo a Pamela e per gli spacciatori nigeriani nei giardinetti della loro città non sono diventati improvvisamente militanti di CasaPound. Ma sono alla ricerca di qualcuno che li ascolti senza gridare al lupo, senza strumentalizzazioni politiche. Un tempo la sinistra era in grado di farlo, di tenere insieme i valori imprescindibili dell’antifascismo e la risposta concreta ai problemi delle persone che dovrebbe rappresentare. Oggi, divisa e inconcludente, sembra non aver più nulla da dire. E offre, persino nella stessa coalizione di centrosinistra, lo spettacolo di una babele di ricette. Ove mai il Pd dovesse vincere le elezioni insieme agli alleati, sarà applicata la linea di Minniti del «fermiamoli in Africa» o quella delle porte spalancate della Bonino? A tre settimane dalle elezioni, la risposta non c’è.

Corriere 11.6.18
Il voto, i silenzi
Ma dov’è la classe dirigente?
di Ferruccio de Bortoli


Una sensazione strana in questa forse inutile campagna elettorale. Con rare eccezioni, lo sguardo prevalente è rivolto al passato. Nella costante dilatazione del presente, il futuro non esiste. Se ne avessimo una qualche idea, per esempio, ci saremmo preoccupati per tempo del debito pubblico, lasciato a se stesso dagli ultimi governi. Siamo prigionieri del passato nella convinzione, malsana e ingannevole, che vi sia una torta da dividere, risorse aggiuntive da distribuire senza costi reali. Non siamo riusciti a fare una efficace spending review per lustri e, all’improvviso, un po’ tutti scoprono che si possono tagliare sussidi e detrazioni per decine di miliardi l’anno. Con un tratto di penna. Si fa credere agli italiani che il loro welfare universale — pensioni e sanità — sia sostenibile all’infinito in una società che invecchia e ha bisogno di immigrati. Che il Paese abbia la libertà di chiudersi in se stesso pur rimanendo, per merito, un grande esportatore. E sia nelle condizioni di scegliere della globalizzazione solo ciò che può fargli comodo. À la carte. E così dell’Europa e della sua presunta ossessione per conti e regole. Come se potessimo fare a meno di un bilancio sano e continuare a indebitarci restando ipoteticamente fuori dall’Unione. Chi porta la responsabilità di questo mancato discorso pubblico sulle reali condizioni finanziarie del Paese e sulla sua incerta traiettoria futura?
I nutile prendersela solo con i populisti di varia gradazione. Fatica sprecata. La stampa ha le sue gravi responsabilità, d’accordo. Ma c’è una parte consistente della classe dirigente o supposta tale, una élite industriale e finanziaria, che tace, assiste, ma soprattutto preferisce tessere relazioni vecchie e nuove anziché avere il coraggio di dire in pubblico ciò che sostiene in privato. Per esempio, esprimersi con nettezza sulla pericolosità di alcune ricette e non soltanto limitarsi a vaghe perorazioni di principio. Poteri forti solo nella loro arroganza e nel loro distacco, che giustificano prudenza e ipocrisia con la scusa degli interessi dei propri azionisti o stakeholders che poi sarebbero in ultima analisi, piaccia o no, anche cittadini italiani. Mostrano nei confronti dei partiti una falsa neutralità in attesa di capire chi vincerà, se vincerà. Disegnano, in numerosi incontri a porte chiuse, scenari di vario tipo incidendo anche, e in negativo, sulle aspettative di osservatori e investitori stranieri. Sono italiani a corrente alternata. Solo quando fa loro comodo nel proteggere relazioni e rendite di posizione. Altrimenti sono cittadini del mondo e non tenuti al coraggio nazionale delle proprie idee. Si lamentano, ovviamente, della dilatazione della spesa pubblica ma sarebbero i primi a protestare se il taglio dei sussidi toccasse il loro conto economico. Tutti hanno un osservatorio privilegiato sulle dinamiche future dei Paesi industrializzati e dovrebbero sentire il dovere di condividere analisi e conoscenze con l’opinione pubblica. Sanno quello che conterà in futuro, da che cosa dipenderanno lavoro e benessere, nel mezzo di una rivoluzione digitale che cambia ogni paradigma di vita. Quanto sarà essenziale, per esempio, la dimensione immateriale. La centralità di cultura, istruzione, formazione, preparazione anche e soprattutto tecnica. Buone scuole e buone università italiane? Tutti d’accordo. Ma nessuno avrà nulla da dire, immaginiamo, sul nuovo contratto della scuola che mortifica il merito. Tanto i figli studiano all’estero. Bisognerà puntare massicciamente sulla qualità del capitale umano, sulla sua mobilità, sul lavoro femminile, favorire investimenti in infrastrutture fisiche e immateriali per garantire un futuro decente ai nostri giovani. Avere lo sguardo lungo, non godere del bonus corto o della decontribuzione temporanea. Né insistere nel ridurre solo le tasse, che vanno assolutamente ridotte, ma non in deficit. Né essere agnostici di fronte al valore diseducativo di nuovi condoni o alla presa in giro di mirabolanti redditi per tutti.
Voci autorevoli di questo mondo se ne sentono poche, al di là di discorsi generici. Gran parte di loro, così severi nel denunciare l’inaffidabilità della politica, si affannano invece nel cercare i possibili referenti del dopo 4 marzo. Anche con qualche sorprendente apertura verso i Cinquestelle. Oppure tornando ad affollare la via di Arcore, dopo averla disconosciuta e disprezzata nel mezzo della grande crisi, o aggirandosi intorno al giglio magico renziano.
Nei giorni scorsi, nell’inaugurare l’anno accademico dell’Università Statale di Milano, il rettore Gianluca Vago si è chiesto come mai si discuta poco di quello che dovremmo fare e decidere in fretta per essere protagonisti e non vittime di una «rivoluzione tecnologica» che muterà in profondità le nostre condizioni di vita e lavoro. Mentre si sprecano le polemiche sul fatto che si possa o no insegnare in inglese. In una riunione a porte chiuse, sempre a Milano pochi giorni fa, con centinaia di presidenti e amministratori delegati (pochissime le donne), il numero uno di Enel, Francesco Starace, ha detto alcune parole che meriterebbero di essere commentate. In sintesi: noi classe dirigente ci lamentiamo della politica alla quale però raccontiamo mezze verità. Insistiamo per avere regole certe ma dovremmo essere i primi a chiedere di cambiarle perché la realtà cambia. A una velocità impressionante della quale non abbiamo coscienza pubblica, la quale riposa, in questa campagna elettorale, aggiungiamo noi, su un cuscino di false certezze.

Corriere 11.2.18
L’amarezza di Renzi: tutto è usato contro di me
di Maria Teresa Meli


ROMA «Imbarazzo? E perché mai? Mi sono stufato del fatto che tutto venga usato contro di me. Ora anche Macerata, questo è veramente troppo. Quel fascista ha sparato ad altezza d’uomo contro la sede del Pd e si contesta a me e al mio partito di non aver reagito in maniera adeguata. Adesso basta»: con i suoi collaboratori Renzi si sfoga così dopo le polemiche nei confronti dei dem per la mancata partecipazione alla manifestazione di ieri nella cittadina marchigiana.
In realtà il Pd aveva aderito all’iniziativa, tant’è vero che all’inizio, quando quell’iniziativa fu lanciata, avrebbe dovuto essere presente il vice segretario Maurizio Martina. Poi il sindaco di Macerata Romano Carancini ha chiesto di soprassedere e Anpi e Cgil, preoccupate per l’annuncio di cortei dei centri sociali e dell’estrema destra, hanno accolto l’appello del primo cittadino e il Pd si è subito accodato.
Alla fine ieri nella cittadina marchigiana non ci sono stati incidenti e adesso qualcuno rimprovera al Pd quella latitanza e, più in generale, il silenzio e l’imbarazzo del Partito democratico sul raid razzista di Macerata. Anche tra i dem c’è qualche perplessità: Gianni Cuperlo dichiara ufficialmente che se non avesse avuto altri impegni sarebbe andato senza dubbi al corteo, altri fanno sapere ufficiosamente ai giornali di non essere d’accordo con la linea del segretario.
Ma Renzi non ci sta: «Il Partito democratico ha seguito l’Anpi e parteciperà alla manifestazione del 24 a Roma, come ha fatto anche la Camusso. E dire che il Pd non c’era e non c’è a Macerata è assurdo e inaccettabile. Il Pd era lì con il suo sindaco, con il ministro dell’Interno, con il Guardasigilli e con il suo vice segretario, di che parliamo?».
Però le accuse a Renzi di aver voluto abbassare troppo i toni non si placano. La piazza di Macerata lo ha contestato, la base del suo partito ha fibrillato. Lui però la pensa in altro modo: «Io — ha spiegato ai collaboratori — non faccio passerelle elettorali e non butto in pasto alle polemiche della campagna questioni così delicate. C’è già chi sta soffiando sul fuoco e il Pd deve contrastarlo».
Perciò ai suoi accusatori Renzi replica così: «Continuino pure ad attaccarmi, ma quando si ritroveranno Salvini al governo, magari con l’appoggio di CasaPound, saranno fieri di aver speso più parole contro di me che contro i razzisti».
È amareggiato, il segretario, perché, dice, «ormai tutto viene usato contro di me». Ma è anche convinto, sondaggi alla mano, che l’atteggiamento del Pd alla fine pagherà: «Noi siamo contenti che non ci siano stati disordini alla manifestazione. Probabilmente questo è anche il frutto della decisione di non “caricarla” eccessivamente».
Quindi, neanche a sera, quando il bollettino degli incidenti segna uno zero spaccato, il segretario del Pd si rammarica di non aver fatto sfilare il suo partito per le vie di Macerata. «Ora l’Italia ha bisogno di tranquillità — è il suo ragionamento — per tornare a essere protagonista in Europa e per andare avanti con la ripresa. Non ha bisogno di tensioni e polemiche».

il manifesto 11.2.18
Tutto come prima: i cappellani militari li paga lo Stato
L'intesa. Accordo con la Santa sede: nessuna riforma e dieci milioni l'anno per i preti-soldato. Unica novità la riduzione del numero, da 204 a 162. Ma lo stipendio resta lo stesso


Cappellani militari abili, arruolati e ben pagati. Ovviamente dallo Stato. Il Consiglio dei ministri, nella riunione dell’8 febbraio, ha infatti approvato lo «schema di Intesa tra la Repubblica italiana e la Santa sede sull’assistenza spirituale alle Forze armate».
È il risultato dei lavori, iniziati nel 2015, della Commissione bilaterale Italia-Santa sede che avrebbe dovuto presentare una proposta di riforma dell’intero sistema dei preti-soldato. Si era addirittura ventilata l’ipotesi, dopo alcune dichiarazioni a mezzo stampa dei vertici dell’Ordinariato militare (l’arcivescovo castrense, mons. Marcianò, e il suo vicario, mons. Frigerio), di una possibile smilitarizzazione dei cappellani militari che, essendo inquadrati nella gerarchia delle Forze armate, hanno i gradi e un lauto stipendio statale, soprattutto gli ufficiali.
Come invece ampiamente prevedibile – le gerarchie ecclesiastiche hanno sempre affermato di non voler rinunciare né alle stellette né al denaro pubblico – tutto resta come prima. Quelle dei più alti in grado della gerarchia clerical-militare erano parole al vento, o fumo negli occhi.
E il premier Gentiloni ha preferito genuflettersi – come del resto i suoi predecessori – di fronte all’ordinario militare-generale di corpo d’armata. Risultato: non cambia nulla, o quasi.
«L’inquadramento, lo stato giuridico, la retribuzione, le funzioni e la disciplina dei cappellani militari» restano le stesse, spiega Palazzo Chigi. «Il trattamento economico principale continua ad essere quello base previsto per il grado di assimilazione, mentre per quello accessorio l’Intesa indica specificamente le diverse tipologie».
Unica buona notizia sembra la riduzione del numero dei cappellani: dagli attuali 204 a 162. Ma non è detto che nel lungo iter che l’Intesa dovrà percorrere (Santa sede, Chiesa italiana, Parlamento) non rientrino dalla finestra, come cappellani fuori ruolo.
In ogni caso per il 2018 e il 2019 vale quanto già stabilito dalla legge di bilancio per il triennio 2017-2019: lo Stato spenderà poco meno di dieci milioni di euro l’anno per il mantenimento dei preti sodato. I quali, in base alle tabelle ministeriali, vengono retribuiti come i loro pari grado in mimetica: 126mila euro lordi annui per l’ordinario militare (assimilato ad un generale di corpo d’armata); 104mila per il vicario generale (generale di divisione); 58mila per il primo cappellano capo (maggiore); 48mila per il cappellano (capitano); 43mila per il cappellano addetto (tenente).
«Per risparmiare sarebbe stato sufficiente equiparare i cappellani militari a quelli della Polizia di Stato, che percepiscono uno stipendio medio di 1.350 euro al mese», dice Luca Marco Comellini (segretario del Partito per la tutela dei diritti dei militari e delle Forze di polizia, della “galassia” radicale).
«Volevamo abolirlo, invece il sistema viene rilanciato e consolidato», commenta Vittorio Bellavite di Noi Siamo Chiesa.

Il Fatto 11.2.18
La cultura senza più difese
La Costituzione “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” ma prima i governi di Berlusconi e poi il centrosinistra hanno cancellato il principio a favore di logiche liberiste - Addio all’articolo 9
di Tomaso Montanari


Se proviamo a tracciare una storia dell’attuazione dell’articolo 9 della Costituzione dobbiamo riconoscere che il primo momento – quello della difficilissima sfida della ricostruzione postbellica del patrimonio culturale – rappresenta il punto più alto di una curva poi sempre in discesa.
Una curva che non tornò a riprendersi nemmeno con l’infelice nascita del ministero per i Beni culturali (1975), che poi iniziò a precipitare con le privatizzazioni neoliberiste dei primi anni Novanta, e che si è quindi definitivamente inabissata con le ‘riforme’ del ministro Dario Franceschini (2014-16). In questa lunga storia di non-attuazione si possono distinguere due diverse fasi. La prima (che arriva fino alla metà degli anni ottanta) è una storia di omissioni: una storia in cui la Repubblica non ha promosso abbastanza lo sviluppo della cultura e la ricerca, e non ha tutelato a sufficienza il patrimonio storico e artistico, a causa della superficialità di una classe dirigente incapace di comprendere il significato strategico (sul piano culturale e civile, ma anche su quello economico) di tutto questo, e dunque incapace di stanziare le risorse necessarie.
Nella seconda fase (quella che dagli anni Ottanta arriva fino a noi) è lo Stato stesso a entrare in crisi: anzi, a essere progressivamente smantellato, prima teoricamente e poi di fatto. Paradossalmente, il ritardo culturale della classe politica italiana ha preservato a lungo il patrimonio culturale dalle conseguenze dello smontaggio neoliberista dello Stato: ma questa involontaria quanto provvidenziale franchigia è progressivamente venuta meno con l’inizio del nuovo secolo. Di fatto, l’ultimo quindicennio ha visto un precipitoso allineamento dei beni culturali a ciò che era già successo in altri settori chiave del ‘pubblico’ (si pensi alla sanità, o all’università): fino ad una fase estrema e recentissima in cui, di fatto, si è messo in discussione il significato stesso di parole come “cultura” o “tutela”.
In quest’ultima drammatica fase è forse possibile distinguere due segmenti diversi. Il primo, caratterizzato dai governi di Silvio Berlusconi, ha eroso il secondo comma dell’articolo 9 minacciando soprattutto l’integrità della porzione pubblica del patrimonio storico e artistico della nazione, dando così una spallata pressoché letale all’esercizio della tutela, attraverso il taglio della metà (un miliardo di euro) del bilancio del ministero per i Beni culturali ‘guidato’ da Sandro Bondi (era l’estate del 2008), di fatto mettendolo “in liquidazione” (Settis). Il secondo, caratterizzato dai governi di centro-sinistra e da ministri per i Beni culturali come Walter Veltroni e Dario Franceschini, ha realizzato la dismissione del patrimonio pubblico avviata dal centrodestra, e se ha recuperato qualche punto nei finanziamenti della tutela, ha però messo sotto attacco il primo comma dell’articolo 9, interpretando lo “sviluppo della cultura” come pura valorizzazione economica, minando le ragioni stesse della tutela e l’indipendenza di questa ultima dalla politica. Tra i due segmenti non c’è alcuna soluzione di continuità, ma anzi un crescendo di impegno per sradicare di fatto l’articolo 9 dall’impianto dei principi fondamentali del nostro progetto di Paese.
Prendiamo il nucleo concettuale delle politiche berlusconiane sul patrimonio: la sua alienazione. Dopo una serie di tappe di avvicinamento, peraltro tutte dovute a governi di centro-sinistra, l’apice della privatizzazione del patrimonio si toccò, grazie a Giulio Tremonti, con “la costituzione, nel 2002, della Patrimonio dello Stato spa, una società per azioni che, almeno teoricamente, avrebbe potuto gestire e alienare qualunque bene della proprietà pubblica” (Mattei, Reviglio, Rodotà). Ovviamente questa specie di escalation della privatizzazione colpì e travolse anche la parte più importante del patrimonio dello Stato, il “paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”: e di fronte all’enormità dell’attacco, si risvegliò un’opinione pubblica non ancora del tutto franta. Il libro Italia spa di Salvatore Settis – che uscì proprio nel 2002, conquistando subito un ruolo guida – aprì gli occhi agli scettici e agli increduli, dimostrando con numeri e fatti che “il patrimonio culturale italiano non è mai stato tanto minacciato quanto oggi, nemmeno durante guerre e invasioni: perché oggi la minaccia viene dall’interno dello Stato, le cannonate dalle pagine della Gazzetta Ufficiale”.
Anche grazie a quella resistenza, il progetto megalomane della Patrimonio dello Stato spa si arenò: ma solo per realizzarsi, di fatto, passo a passo.
Oggi una fitta legislazione creata in gran parte dai governi di Centrosinistra consegna ai manuali di storia del diritto le differenze tra beni disponibili, beni indisponibili e demanio inalienabile dello Stato, e cancella l’idea stessa di un demanio inteso come una riserva inattingibile rivolta al futuro e finalizzata all’attuazione dei diritti fondamentali dei cittadini: tutto è, nei fatti, alienabile, tutto è anzi potenzialmente già in vendita, e le differenze di stato giuridico tra i beni comportano solo trafile burocratiche differenti. Così l’incubo della Patrimonio dello Stato spa si è di fatto avverato, anche se nella forma di uno stillicidio. […]
Negli ultimi anni l’insofferenza della politica italiana verso il sapere scientifico e tecnico appare crescente: tanto che nel discorso pubblico degli ultimi anni la contrapposizione tra le competenze della Repubblica e quelle gli enti locali è stata rappresentata come una contrapposizione tra una burocrazia non legittimata democraticamente (le soprintendenze) e le amministrazioni che hanno ottenuto il consenso popolare (innanzitutto i sindaci eletti direttamente). Questa insofferenza verso le magistrature repubblicane chiamate a difendere la publica utilitas contro l’arbitrio degli interessi privati è cresciuta a destra, ma è stata infine ‘sdoganata’ dal Matteo Renzi sindaco di Firenze, che arrivò a scrivere che “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia”. La convergenza politica sul progetto di eliminare l’articolazione concreta della ‘tutela’ imposta dal secondo comma dell’articolo 9 è stata plasticamente chiarita agli italiani durante una nota trasmissione televisiva televisiva (Porta a Porta del 16 novembre 2016): qua, dialogando amabilmente con il segretario della Lega Matteo Salvini, l’allora ministra per le Riforme istituzionali Maria Elena Boschi candidamente ammetteva: “Io sono d’accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d’accordo”. […]
Il “terribile diritto” della proprietà privata ha infine piegato l’interesse pubblico: l’eclissi dell’articolo 9 è oggi al suo culmine, e la formula del ‘silenzio assenso’ non è soltanto un escamotage giuridico procedurale, ma una traduzione simbolicamente efficace di ciò che il potere politico si aspetta oggi dai tecnici della tutela: un tacito consenso.

Il Fatto 11.2.18
La buona sanità accerchiata da Zingaretti (e dagli squalucci)
Nicola Zingaretti (Pd) si ricandida alla guida della Regione Lazio
di Antonio Padellaro


“In questi cinque anni abbiamo lavorato senza soste e rimesso le cose in ordine. Abbiamo dimostrato che è possibile tagliare sprechi e privilegi e nello stesso tempo aumentare i servizi. Ora possiamo, anzi dobbiamo vincere nuove sfide”.

Frastornati e infastiditi dalle promesse mirabolanti della politica elettorale, siamo convinti che a noi abitanti di Roma e del Lazio (ma il discorso riguarda la nazione intera) sarebbe sufficiente sapere che le non molte istituzioni efficienti, davvero al servizio del pubblico, continueranno a funzionare e non saranno smantellate o svendute. Eppure questo programma minimo di sopravvivenza civile certe volte sembra una montagna da scalare tra mille difficoltà. Parliamo, per esempio, della Fondazione S. Lucia, ovvero dell’eccellenza sanitaria nel campo della neuroriabilitazione. Possono testimoniarlo le migliaia di pazienti che, spesso vittime di traumi gravissimi o di patologie invalidanti, hanno ricevuto le cure più appropriate, grazie anche a un centro di ricerca all’avanguardia. Non stiamo esagerando visto che nel settembre scorso, con una delle sue famose improvvisate, papa Francesco è venuto a conoscere con i propri occhi cos’è la misericordia, quando ogni giorno deve misurarsi con la sofferenza e con la guarigione. E, lo sappiamo, Bergoglio non si muove a caso. Eppure, questa struttura che dovrebbe rappresentare l’orgoglio della politica di qualsiasi colore, da anni vive sull’orlo del precipizio a causa di un gigantesco e infinito contenzioso con la Regione Lazio, tanto che alla fine di ogni mese la Fondazione non sa se potrà pagare gli stipendi ai 900 dipendenti e collaboratori. Una vergogna. È a questa spada di Damocle sul S. Lucia che il presidente Zingaretti allude quando dice “abbiamo rimesso le cose in ordine”? E nel caso di sua rielezione le “nuove sfide da vincere” sono quelle che secondo voci ricorrenti, speriamo infondate, prevedono che la struttura una volta strangolata verrà data in pasto agli squali (anzi squalucci) che imperversano nella sanità privata? Terremo gli occhi aperti. Del resto, allargando il tema a quello più generale della disabilità, Zingaretti e gli altri candidati alla Regione, dalla Lombardi a Parisi, farebbero cosa buona e giusta se s’impegnassero, e non soltanto a parole, per risolvere problemi dell’accessibilità. Sottraggano qualche minuto ai loro imperdibili comizi e ascoltino chi dà voce con competenza ed esperienza al numero incalcolabile di persone non autosufficienti che nella loro già non facile esistenza sono costrette ad affrontare giorno dopo giorno ostacoli spesso insormontabili. Leggi vigenti sugli standard abitativi del tutto inapplicate e sostituite dalle “autocertificazioni” dei progettisti, per i quali naturalmente è sempre tutto a posto. Per non parlare di un sistema dei trasporti a Roma che rende mobilità una parola senza senso. Ascoltino l’architetto Fabrizio Vescovo che a questi problemi ha dedicato una vita. Zingaretti e competitors non ne facciano la solita questione di competenze ma si adoperino una volta eletti a cercare una collaborazione con la giunta Raggi (e viceversa), senza stupide gelosie. E se non vogliono ascoltare la loro coscienza, diano retta almeno al cinismo della politica: anche i malati e i disabili votano.

il manifesto 11.2.18
Scuola, sciopero il 23 febbraio


Usb, Usi, Unicobas, Cobas , coordinamenti di base dei diplomati magistrali, Cub hanno indetto uno sciopero generale nella scuola contro la firma del nuovo contratto firmato dai sindacati confederali della scuola giudicato «miserabile» (Unicobas), «ignobile mancetta» (Cobas). Il personale avrebbe perso fino a 18 mila euro in dieci anni di blocco a fronte di un aumento medio di 96 euro mensili lordi a cui si aggiungono circa 400 euro di arretrati. Unicobas rivolge un invito a Gilda e Snals – che non hanno firmato – a partecipare allo sciopero. Dura la risposta dei confederali: «Restiamo convinti di avere compiuto, firmando, una scelta giusta e coerente: gli aumenti che il personale della Scuola a breve riceverà valgono infinitamente più delle tante chiacchiere che si fanno e che lasciano il tempo che trovano» sostengono Flc-Cgil, Cisl Scuola e Uil Scuola. A loro parere sarebbero stati «recuperati spazi contrattuali importanti, al punto che da sponde opposte si sostiene che avremmo inferto un altro duro colpo alla legge 107 (la «Buona Scuola»). La manifestazione prevista il 23 febbraio partirà alle 9 dal ministero dell’Istruzione a Roma.

Il Fatto 11.2.18
Risiko in Siria: Iran e Israele fanno prove generali di guerra
Scambio di colpi, abbattuto drone dei Pasdaran, poi tocca a un caccia di Tel Aviv
Risiko in Siria: Iran e Israele fanno prove generali di guerra
di Fabio Scuto


Caccia israeliani in fiamme, droni iraniani in volo, il cielo striato dai missili antiaerei siriani, sirene di allarme nei centri abitati nel nord di Israele, raid aerei a ondate sul territorio di Damasco.
Nei cieli siriani e israeliani, ieri, è stato un giorno di guerra. Quella che pericolosamente si sta affacciando dalle colline del Golan, che preoccupa Israele e ne provoca la reazione. Lo Stato ebraico non accetterà mai che la Siria diventi un avamposto iraniano in grado di colpirlo. L’Iran “può creare un inferno per il regime sionista”, replica il generale di brigata iraniano Hossein Salami, numero due dei Guardiani della Rivoluzione che combattono a migliaia a fianco di Bashar Assad. Il movimento libanese Hezbollah ha aggiunto che “l’abbattimento del caccia nemico segna una nuova fase strategica” e un “cambio degli equilibri” nella regione. Israele, dove per tutta la giornata di ieri il premier è stato nel Comando operativo della Difesa a Tel Aviv, è chiaro nella sua posizione: risponderà colpo su colpo.
La crisi siriana è così entrata in una nuova dimensione, dove un incidente di confine può provocare un’escalation militare in grado di incendiare il resto della regione. Come all’alba di ieri che ha visto il più serio confronto tra Israele e Iran dall’inizio della guerra civile in Siria nel marzo 2011.
Nelle prime luci del giorno, silenzioso col suo motore elettrico, un drone decollato da una base nei pressi di Palmira controllata dai Guardiani della Rivoluzione iraniani, ha provato a bucare la difesa aerea israeliana oltrepassando il confine.
Un elicottero da combattimento israeliano si è alzato in volo e in una manciata di minuti ha polverizzato il drone con uno dei suoi missili. Mentre le difese aeree venivano poste tutte nello stato di massima allerta, partiva la rappresaglia israeliana sulla base da dove era decollato il drone. Gli F-16I si sono infilati come una lama nel burro nel territorio siriano e a volo radente sono arrivati fino a Palmira dove hanno distrutto la base iraniana. Ma nella missione di ritorno la contraerea siriana con i suoi SA-16 e SA-18 ha lanciato una quantità di razzi da far pensare ad un attacco missilistico contro Israele.
Sulle colline del Golan e tutte le aree circostanti sono suonate le sirene di allarme per la popolazione civile che è corsa nei rifugi. I segnali radar dei missili hanno allarmato anche gli operatori dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv che hanno chiuso lo scalo per oltre un’ora mentre veniva valutato l’entità dell’attacco contro lo Stato ebraico.
Uno delle decine di missili antiaerei sparati dai siriani ha colpito uno dei caccia con la Stella di Davide, il pilota è riuscito a portare il suo aereo oltre il confine israeliano per poi lanciarsi insieme al suo navigatore nel nord di Israele mentre il jet si schiantava in una zona agricola non distante. Altri caccia della Israel Air Force si sono poi levati in volo e hanno bombardato 12 diverse postazioni militari sul territorio siriano controllate da siriani e iraniani, in quello che Tomer Bar, vicecapo dell’IAF ha definito “il maggior attacco aereo dal 1982 in Libano”.
Il presidente russo Vladimir Putin ha invitato ieri tutti i protagonisti alla moderazione, dopo la “ritirata” americana dal Medio Oriente è l’unico leader in grado di disinnescare questa crisi. I contatti fra Mosca e Tel Aviv ieri sono stati febbrili, ma di esito incerto.
Spiega Ofer Zalzberg, analista di Gerusalemme per l’International Crisis Group: “Solo Mosca è in grado di mediare un rafforzamento dell’accordo di de-escalation. Altrimenti le regole del gioco siriano potrebbero cambiare e ci troveremo con un’altra guerra alle porte”.

Il Fatto 11.2,18
“Pazzi” e in cella, l’incredibile storia di 56 carcerati in Italia
di Chiara Daina


“Mi ha detto più di una volta ‘ma che campo a fare?’”. Alberto è sgomento. Suo fratello è rinchiuso nel carcere di Regina Coeli da luglio. Ma in galera lui, che è un paziente psichiatrico, non ci dovrebbe stare. Con la legge 81 del 2014, che ha portato al superamento degli opg (gli ospedali psichiatrici giudiziari), la riabilitazione dei malati psichiatrici autori di reato deve avvenire all’interno di strutture sanitarie, come le Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), e non più presso istituti penitenziari (quali erano gli opg). Una grande conquista di civiltà del nostro Paese che però a distanza di quasi quattro anni è ancora disattesa. “Nella perizia dello psichiatra c’è scritto che potrebbe avere istinti suicidi eppure continua a rimanere lì dentro”, non si dà pace Alberto. Il giudice ha previsto per suo fratello il trasferimento in una Rems ma la lista di attesa è troppo lunga. “Non si sa quando uscirà, nessuno sa dircelo. Ha 41 anni, è incensurato, soffre di un disturbo delirante da quando era ragazzino ma non ha mai riconosciuto di stare male. I miei genitori lo hanno denunciato perché li ha aggrediti. Speravano che così qualcuno si prendesse cura di lui, loro sono anziani e non ce la fanno più. Mio fratello non ha mai lavorato, ma almeno fuori aveva una band. In cella, invece, è completamente in preda ai suoi deliri”.
Alberto e la sua famiglia sono senza speranza: “Sembra di combattere contro i mulini a vento, la riforma è rimasta sulla carta”. Questo non è un caso isolato. Nelle carceri italiane, ci comunica il Dap, in questo momento ci sono 56 pazienti psichiatrici in attesa di essere spostati in una struttura sanitaria. Solo a Roma sono 14. Tredici in tutta la Campania e cinque in Lombardia. “È una situazione illegittima, lo so”, ammette Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti del Dap. Il cortocircuito che si sta creando è micidiale. “Troppi internati non realmente pericolosi affollano le Rems e alimentano le liste d’attesa, fino all’abuso del trattenimento senza titolo in carcere”, spiega Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio. Colpa dell’atteggiamento difensivo di certi giudici che per cautelarsi dispongono il ricovero nelle Rems, senza valutare percorsi di terapia alternativi con i servizi sanitari e sociali del territorio.
Il Csm, con una delibera del 12 aprile 2017, ha evidenziato l’uso inappropriato delle Rems, ricordando che rappresentano delle soluzioni estreme, eccezionali, quando ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate. “Ci sono troppi casi di ricoveri ingiustificati. Si tratta di persone non pericolose per la società che potrebbero tornare in famiglia o andare in comunità”, dice Giuseppe Nese, psichiatra dell’Asl di Caserta, che coordina il tavolo Rems in Conferenza Stato-Regioni. Felice Nava, psichiatra nel carcere di Padova e membro degli Stati generali per l’esecuzione penale, chiarisce che la condizione di “pericolosità sociale” impiegata nel diritto – per cui il malato viene spedito in Rems – risale addirittura al codice Rocco del 1930: “La scienza, da allora, ha fatto moltissimi progressi e quella definizione, che appartiene all’ambito clinico, andrebbe aggiornata. Le Rems non possono diventare un pozzo senza fondo. Serve un cambiamento culturale da parte dei magistrati”. Attualmente in Italia sono attive 30 Rems, da circa 20 posti letto l’una, e sono tutte intasatissime. I malati vengono parcheggiati in cella per sette/otto mesi in media. Ma c’è a chi va peggio. Paolo, 34 anni, schizofrenico, dopo che il tribunale lo ha scagionato con una sentenza definitiva, è rimasto nel carcere di Salerno per altri dieci mesi. Il 23 novembre, con oltre un anno di detenzione alle spalle, finalmente è stato trasferito in una casa di cura. “Lo spirito della riforma non è stato incarnato bene, ci sono tutti gli elementi per fare ricorso ai magistrati”: la denuncia arriva proprio da uno di loro, Francesco Maisto, già presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna. Lo psichiatra Nese parla di “riforma applicata quasi al contrario” e sottolinea che “la priorità non deve essere la detenzione ma la tutela della salute”. “Dopo aver aperto i manicomi – continua – ora non possiamo tornare indietro, rinchiudendo i pazienti. Più lo spazio è stretto, più il malato si agita e aggrava il suo stato mentale. Gli spazi vanno aperti se vogliamo salvare queste persone”. Il rischio è che qualcuno ridotto in quelle condizioni si ammazzi. Il caso di Valerio Guerrieri, morto suicida a 21 anni nel carcere di Regina Coeli, non deve ripetersi. Valerio dieci giorni prima di impiccarsi era stato scarcerato dal tribunale per incapacità di intendere e di volere. E per un reato precedente il giudice aveva chiesto per lui sei mesi di Rems. Ma lo stesso giorno Valerio, da uomo libero, è tornato dietro le sbarre. Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura a novembre ha chiesto all’Italia spiegazioni sul caso Guerrieri. L’associazione Antigone, a metà gennaio, ha lanciato un appello per l’immediata scarcerazione di un altro ragazzo, recluso nella Casa di lavoro di Vasto, affetto da epilessia cronica e schizofrenia paranoide, che ha sviluppato tendenze suicide. Il provvedimento del magistrato di sorveglianza anche in questo caso dispone il ricovero in Rems, ma non può essere eseguito perché non ci sono posti liberi.


il manifesto 11.2.18
L’antichità smontata e ricomposta dai nazifascisti
Un Companion pubblicato da Brill. A quale «Classico» si riferivano Hitler e Mussolini? Una raccolta di saggi, perlopiù anglosassoni, cerca radici, usi e sviluppi di un paradigma flessibile
di Carlo Franco


A sentire i fondatori, tutto chiaro. «Roma è il nostro punto di partenza: è il nostro simbolo; o se si vuole, il nostro mito. Noi sogniamo l’Italia romana, cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale». Così Mussolini in occasione del «Natale di Roma» sul proprio giornale, nell’aprile 1922. Ante marcia, quindi. Più astratto e generico Hitler, in un discorso al Reichstag del gennaio ’39, sei anni dopo la Machtergreifung, sei anni prima della fine: «Il debito che il germanesimo ha con l’antichità, nel campo dell’assetto statale ma poi anche del proprio sviluppo spirituale e nel settore della cultura in generale, è non misurabile nei dettagli e, nel complesso, gigantesco». E oltre alle linee espresse dai capi, molto altro: soprattutto in Italia, libri, francobolli, monete, statue, monumenti, film. L’antichità aveva grande spazio nei fascismi europei. Fa il punto sul tema il Brill’s Companion to the Classics, Fascist Italy and Nazi Germany, curato da Helen Roche e Kyriakos Demetriou nel quadro di una serie dedicata alla Classical Reception (Leiden, pp. 471, € 182).
Ma a quale antichità si faceva riferimento? Il paradigma era flessibile, sicché ogni sintesi è parziale. Si diceva «antichità», «Grecia», «Roma», ma da questi contenitori venivano ritagliati dei momenti, per costruire una immagine ideale, una narrazione rigenerante utile a proiettare gli animi verso nuovi (ma antichi e già scritti) destini. Ne derivava una combinazione mutevole. Per il fascismo, si guardò a Roma, soprattutto imperiale, più o meno cristiana a seconda delle opportunità di relazioni col Vaticano: un mito utile per raccontare sia la rivoluzione, sia la conservazione. Per il nazismo, invece, contava una varia combinazione di Grecia (guerriera, spartana), Germania (purezza genetica, purezza etica) e Roma imperiale (per le infrastrutture: come la Kongresshalle di Norimberga). Forse anche per questa varietà, valutare il ruolo dei modelli antichi sui due movimenti è più difficile che non sembri. Di certo, non basta liquidare la romanità littoria o la «spartanità» nazista come un ciarpame privo di gusto o di senso: caduca può apparire oggi certa esteriorità di manifestazioni, ma profondi e persistenti segni di quella stagione marcarono piazze, musei e biblioteche, e forse le coscienze.
Assoluzioni complici o smemorate
Il tema è rimasto a lungo estraneo all’interesse degli storici, ma occupa da quarant’anni filologi e archeologi. Il primo ripensamento venne già da quanti furono direttamente coinvolti, come protagonisti o vittime, o come testimoni. Ma l’elaborazione ha conosciuto un percorso difficile, segnato da reticenze e polemiche, in Italia come in Germania. Si sono viste sia assoluzioni complici o smemorate di studiosi compromessi con i regimi, sia pesanti e irrevocabili condanne. Il Companion Brill cerca la via mediana, invitando a non credere sempre all’innocenza di quelli che furono vicini al potere, ma nemmeno all’idea che tutto quanto si scrisse o si fece allora sia sempre disprezzabile perché dettato dall’ideologia (o dall’adulazione).
Rispetto all’antico, Italia e Germania mostrano due elaborazioni differenti. Varia fu la continuità che portò dai classicismi e i filellenismi di età romantica ai nazionalismi, e alle dittature. Poco conta che Mussolini o Hitler mostrassero una conoscenza del tema superficiale o errata: non di filologia o storia si nutriva il loro discorso. E il loro pensiero, alla bisogna, riceveva forma più colta grazie a solerti pennivendoli. I saggi del Companion si rivolgono piuttosto a ricercare radici, usi e sviluppi del paradigma. Senza sistematicità, per altro: e dunque, per la Germania, si muove dalle fasi ottocentesche della ricerca sugli «Ariani», con le successive ricadute razziste e antisemite, e poi le ambiguità del circolo riunito negli anni trenta del Novecento intorno al poeta Stefan George: un approccio alla grecità antistorico e antifilologico, che piacque anche al conte von Stauffenberg (l’attentatore del luglio 1944). Da quella linea nicciana e antifilologica derivarono (particolarmente per Platone) interpretazioni che oggi appaiono pre-naziste, ma che forse non sono morte con il nazismo. Più esplicitamente propagandistico fu l’approccio ai classici imposto(si) nelle scuole del Terzo Reich, studiato da Helen Roche. Se si passa alle scelte individuali, si incontrano quelle tormentate, al tempo del regime, di studiosi (non antichisti) come Adorno, Auerbach e Klemperer, e soprattutto il notevole ruolo degli archeologi – vista la forza evocativa di oggetti e monumenti. In Germania il gruppo accademico ha a lungo difeso, come mostra Stefan Altekamp, l’idea fallace che l’archeologia classica non fosse compromessa con il nazismo (a differenza da quella preistorica e dalla storia antica): il condizionamento fu molto notevole, e con effetti di lunga durata, anche per l’emigrazione forzata di molti importanti studiosi.
La terza Roma sognata da Mazzini
Per l’Italia il Companion non si sofferma sulle radici del «mito di Roma», mito che però attraversa tutto l’Ottocento italiano: una «terza Roma», dopo quella dei cesari e dei papi, era stata sognata da Mazzini, prima che da Mussolini. L’antichistica italiana è inquadrata direttamente nell’età del fascismo: Dino Piovan esamina gli esemplari percorsi e le differenti scelte politiche di studiosi come De Sanctis, Ferrabino, Momigliano e Treves, alle prese con il regime ma anche con il ripensamento storico della propria disciplina accademica. Il fascismo, meno interessato alla cultura greca, esibiva una romanità militaresca, disciplinata, dominatrice, virile, più italica che ellenistica, quindi «nazionale». Ma, come mostra Jan Nelis, non era (solo) un mito regressivo, quanto piuttosto un approccio paradossale, palingenetico alla modernità. Per questo è opportuno soffermarsi con attenzione sul «piccone del regime»: quello che operò in Roma città larghi sventramenti allo scopo di creare il «teatro del consenso» e lasciare i monumenti a «giganteggiare nella solitudine» (ma la pratica aveva importanti precedenti di fine Ottocento). Per questo oggi si possono considerare con sguardo nuovo, superato il rigetto totale alla Bruno Zevi, i prodotti dell’architettura durante il ventennio, gli edifici di Vaccaro o Moretti, e persino di Piacentini. I quali produssero in Italia risultati assai migliori rispetto ai classicismi e ai gigantismi creati da Speer in Germania: quella grandiosità celava di fatto un’ossessiva pulsione di sacrificio e morte, cui risposero le bombe angloamericane…
Non c’era poi solo il mondo accademico: l’antico parlava con più immediata evidenza quando era veicolato da mezzi potenti e popolari, come il cinema. Le differenze tra i due regimi, per mezzi e messaggi, si comprendono assai bene ponendo l’opera di Leni Riefenstahl versus quella di Carmine Gallone. Importanti osservazioni vengono anche da eventi come le Olimpiadi di Berlino (1936) e la Mostra augustea della Romanità (’37-’38). Nel caso della Mostra, l’impegno scientifico si mescolò inestricabilmente a una operazione tutta propagandistica. Nel Companion si parla, ovviamente, del Führer in visita a Roma nel maggio 1938, la «giornata particolare» del film di Scola: ma non si parla di Bianchi Bandinelli, l’archeologo e poi antifascista che fece da guida a Hitler e Mussolini, e li ritrasse sotto gli pseudonimi di Mario e Silla nel memorabile Diario di un borghese, pubblicato nel ’48. Negli anni del massimo consenso per il regime, dopo che nel ’36 l’impero era tornato per poco tempo sui colli fatali, pochissimi capivano dove quell’orgia romanolatrica poteva condurre.
Su un tema così vasto, un Companion non può dire tutto: poco utile allora rilevare che manca, per esempio, il ruolo della «romanità» nelle colonie, soprattutto in Libia. Non disturbano troppo i (parecchi) refusi nell’italiano e nel tedesco. Spiace invece certo squilibrio nella concezione e nella qualità dei contributi. Numerose sovrapposizioni erano evitabili con un editing più stringente. Si nota poi che la maggior parte dei saggi è affidata a studiosi stranieri: ossia né italiani né tedeschi. Certo, nazismo e fascismo sono temi di ricerca internazionali, e non necessariamente lo sguardo dall’interno dei paesi coinvolti è il migliore. Ma l’esito è l’emarginazione della ricerca italiana e tedesca e, per contro, la valorizzazione di recenti lavori anglosassoni presentati come «pionieristici», ma di fatto volti a temi già ben studiati (in altre lingue). Sono gli effetti ormai generalizzati del monolinguismo storiografico: diventerà monopensiero?
Incertezze emergono quando si passa dai fatti o dalle idee alle persone: la vicenda culturale degli studiosi e accademici coinvolti nella macchina delle dittature richiede esperienza. Per capire la fascistizzazione dell’Antico si deve conoscere il dettaglio di persone e luoghi (e consultare con cura il Dizionario Biografico degli Italiani). Spiace, per esempio, leggere di D’Annunzio «futurista» (p. 273), o che «gran parte della nostra esperienza attuale di città iconiche come Firenze e Venezia è il prodotto di scorci legati all’era fascista» (p. 345). Dette in inglese, alcune cose fanno forse meno effetto: ma certe osservazioni banali sopra la «totalitarian legacy» in Italia e Germania andavano evitate (p. 448-54). Certo, in Italia sopravvivono segni pubblici del fascismo (e anche ritratti esposti di Mussolini), mentre in Germania no: ma ciò dipende dalle vicende belliche e postbelliche, più che dallo sfondo ideologico dei due regimi, e dei due paesi.

Corriere 11.2.18
Gillo Dorfles
«La mia vita infinita da Francesco Giuseppe agli smartphone»
L’artista e critico, 108 anni ad aprile
di Aldo Cazzullo


«Le partite a bocce con Svevo e quella rottura con Montale»
È nato austroungarico, suddito dell’imperatore Francesco Giuseppe. Ha giocato a bocce con Italo Svevo, comprato libri da Umberto Saba, litigato con Eugenio Montale. Suo suocero era molto amico di Giuseppe Verdi. Ha ascoltato la bisnonna raccontargli le Cinque Giornate di Milano; è andato in barca sui Navigli. Sua moglie arrivò all’altare al braccio di Arturo Toscanini.

Gillo Dorfles tra due mesi compirà 108 anni. Ma non è soltanto un uomo molto vecchio. È uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento, testimone delle avventure artistiche, scientifiche, letterarie del nostro Paese. Questo fa di lui un prodigio e un enigma. Prodigiosa è la sua memoria, più per le cose lontane che per quelle vicine, come i dannati di Dante. Quando gli mancano un nome o un dettaglio, si fa aiutare dal nipote Piero, o controlla sul suo ultimo libro, Paesaggi e personaggi (Bompiani) .
La Trieste degli Asburgo
«Il mio vero nome è Angelo, ma nessuno mi ha mai chiamato così. I Dorfles sono una famiglia di origine austriaca, trasferita a Gorizia: mio nonno era presidente del teatro Verdi, molto fiero di avervi portato Eleonora Duse. Sono nato a Trieste il 12 aprile 1910. Ricordo la città pavesata di bandiere gialle e nere con le aquile, i colori dell’impero. Quasi ogni giorno uscivo in passeggiata con mia madre. Incontravamo un pope barbuto, un prete greco, che mi vezzeggiava: questo mi faceva sentire importante. E passavamo dalla libreria antiquaria di via San Nicolò, gestita da un uomo burbero: “ Cos’ti vol picio? No xe roba per ti !”. Era Umberto Saba. Non vidi l’arrivo dei marinai italiani, nel novembre di cent’anni fa; durante la Grande Guerra la mamma mi aveva portato a Genova, dov’era nata. Mio padre, irredentista, era al confino a Vienna. Ma il liceo lo feci a Trieste: il Dante Alighieri. Linuccia, la figlia di Saba, divenne una delle mie più care amiche. Andavo a casa sua almeno due pomeriggi a settimana; e se il padre mi sopportava a malapena, la madre, Lina, era molto gentile. Poi Linuccia si fidanzò con un ragazzo meraviglioso, Bobi Bazlen: fu lui a farmi scoprire Proust, Kafka e soprattutto Joyce. Andavamo a lezione da un professore che l’aveva conosciuto e ci spiegava l’ Ulisse , allora ignoto in Italia» .
Il salotto di Svevo
«Irredentisti e nazionalisti si trovavano a casa di Elsa Dobra, sorella di Elodie Stuparich, una delle muse di Scipio Slataper: il “barbaro sognante”, l’eroe del Carso. Io frequentavo il salotto di Olga Veneziani, che aveva una fabbrica di vernici sottomarine: una signora dal carattere terribile, che mal tollerava le prove letterarie del genero, Ettore Schmitz, che nessuno conosceva ancora come Italo Svevo. Con lui facevamo gite sul Carso, giocavamo a bocce nelle locande. Il mio primo articolo sul Corriere della Sera , chiestomi da Dino Buzzati, raccontava proprio casa Veneziani. C’era una giovane pittrice, Leonor Fini, eccentrica e vistosa; un mio professore ci vide camminare a braccetto e telefonò a mia madre allarmatissimo: “Suo figlio si accompagna a donne di malaffare!”. Ai bagni Savoia diventai amico di Leo Castelli, che avrei ritrovato a New York, divenuto il più grande mercante d’arte del secolo. Un nipote di Svevo sposò una pittrice, Anna, che sarà la mamma di Susanna Tamaro; che quindi è pronipote dello scrittore».
La Milano dei Navigli
«Da bambino andavo a trovare mia bisnonna, che abitava in corso Venezia, nel palazzo con le quattro colonne al numero 34, costruito da mio prozio. La bisnonna era stata amica di Carducci e mi parlava del Risorgimento: lei c’era. Cent’anni fa Milano era ancora un borgo tranquillo, circondato da orti e cascine. I Navigli erano bellissimi, interrarli è stato un errore. Abituato a città nautiche come Trieste e Genova, Milano mi parve una città d’acqua. Fu un incontro fatale. Passeggiavo lungo il Naviglio che ora è via Senato, andavo in barca nel laghetto di San Marco. Più tardi cominciai a frequentare gli artisti, in particolare Lucio Fontana. Lo vedevo spesso, studiava a Brera con Adolfo Wildt; non tagliava ancora le tele, faceva statue di ceramica, ma era già un grande. Andavo ai concerti con Fausto Melotti e suo cognato Gino Pollini, l’architetto» .
L’elettroshock
«Nonostante la passione per l’arte, mi sentivo obbligato a prendere una laurea seria, e mi iscrissi a Medicina. Volevo diventare psichiatra come Ugo Cerletti, l’inventore dell’elettroshock. Fu lui a insegnarmi come si fa: si mettono due elettrodi alle tempie del paziente, la scossa elettrica gli fa perdere coscienza. Era molto impressionante. Dava qualche risultato, ma si usava anche quando non ce n’era bisogno. Dopo tre anni a Milano mi trasferii a Roma, dove fui allievo e assistente di Cesare Frugoni. Ricordo i primi pazienti che interrogai. Un paranoico si credeva Gesù. Un uomo raccontava di aver partorito quattro gemelli di dieci chili l’uno. Un altro viveva in uno stato di priapismo continuo, e disegnava ovunque maialini. Capii che il mio mestiere non era la medicina, ma l’estetica».
Artù Toscanini
«Alla Scala mi portò per la prima volta lo zio Ernesto: era sordo, ma se sedeva in prima fila con la trombetta d’argento riusciva a sentire qualcosa. C’era Toscanini, dirigeva il Falstaff. Io ero fidanzato con Lalla Gallignani, la figlia di Giuseppe, un faentino legato a Verdi che l’aveva portato a Milano per dirigere il conservatorio. Alla sua morte, Toscanini divenne il tutore di Lalla. Fu lui a portarla all’altare quando ci sposammo. “Artù”, come amava firmarsi, era pieno di umanità, molto alla mano; innamorato delle donne, anche troppo. Suo figlio Walter fu testimone di nozze, il ricevimento lo facemmo a casa Toscanini, in via Durini, e andammo in viaggio di nozze all’Isolino, l’isola nel Lago Maggiore di sua proprietà. Le figlie, Wally e Wanda, avevano ereditato l’esuberanza del padre. Dopo la guerra rividi “Artù” a New York. Era molto stanco, ma alle prove gli errori dell’orchestra lo rinvigorivano: “Corpo di una madonnaccia!” urlava gettando la bacchetta».
Il superstite dei lager
«Avevo fatto il militare nel Nizza Cavalleria. Avrei preferito il Savoia, per via delle divise, ma l’impiegato a cui mi ero fatto raccomandare fece confusione. In cavalleria non era obbligatorio il saluto fascista, con mio grande sollievo, perché detestavo il Duce. Allo scoppio della guerra non fui richiamato alle armi, avevo già compiuto trent’anni. Sfollammo in un casolare in Toscana, ma andavo spesso a Firenze, alle Giubbe Rosse. Un testimone mi parlò di piazzale Loreto: non riuscivano a fucilare Starace, catturato in pantofole, perché c’era troppa gente, per sparargli dovettero distenderlo sopra il corpo di Mussolini. L’anatomopatologo Cattabeni, amico e collega, mi disse che dall’autopsia emerse che il Duce stava benissimo, a parte le cicatrici di un’ulcera; le malattie che gli attribuivano erano leggende. Incontrai un ebreo livornese quindicenne, sopravvissuto a Dachau e a Buchenwald: mi raccontò che erano costretti a cibarsi dei compagni morti. E vidi passare la brigata ebraica, con la stella di David — gialla su fondo biancoazzurro — ostentata con baldanza» .
Montale e la Mosca
« Montale me lo presentò Bazlen a Trieste: fu Eugenio, che chiamavamo Eusebio, a far conoscere Svevo ai lettori italiani. Lo rividi poi a Genova, a Firenze, a Milano, nella sua casa di via Bigli. Stava con la Mosca, che in realtà si chiamava Drusilla Tanzi, ed era terribilmente gelosa di lui. Teneva mia moglie per ore al telefono per lamentarsi delle rivali, fino a quando Lalla osò dire: “Ma perché non lo lasci un po’ in pace?”. Da un giorno all’altro la mia amicizia con Montale finì. Recuperammo in parte solo dopo la morte della Mosca, nel ‘63».
La Milano di oggi
«Tutto questo slancio, chiedo scusa, non lo vedo. Dopo la Seconda guerra mondiale Milano era diventata la capitale culturale d’Italia, soppiantando Torino, Firenze, Roma. Con Munari e Soldati fondammo l’arte concreta. C’erano il design e la grande editoria: Sereni, Vittorini, che oltretutto era un uomo affabile, a differenza di Moravia, un po’ presuntuoso. Ora la società letteraria non esiste più, e non vedo nuovi protagonisti. L’ultimo è stato Umberto Eco».
La longevità
«Com’è la vita oltre i cent’anni? Non amo l’argomento. Ci si annoia, perché si fatica a leggere. Le novità mi piacciono, ho anche preso il cellulare. Non sono morigerato, ho sempre mangiato le cose che mi piacevano: gli gnocchi alla romana, i carciofi, i tartufi; e i fritti. Sono un discreto cuoco, specialità fiori di zucca. Ho sempre bevuto vino rosso, ho una passione per il cannonau. Una volta lo dissi in tv e vari produttori sardi mi mandarono a casa una cinquantina di bottiglie. Poi purtroppo hanno smesso».

Corriere 11.2.18
Abbiamo il diritto di disconnetterci?
Scuola, il nuovo contratto vieta le mail fuori orario
«Tutela sacrosanta» «No, norma conservatrice»
Il mondo del lavoro diviso
di Alessandra Arachi


ROMA Connessi o non connessi? Nell’era della (quasi) quarta rivoluzione industriale è questo il dilemma esistenziale. Un dilemma che è finito nel contratto della scuola e che è stato risolto inserendo il diritto alla disconnessione. Un concetto inedito.
Una piccola bomba che fa discutere. Il nuovo contratto prevede fasce orarie protette per poter contattare via mail o via telefono gli insegnanti. Non potranno quindi più essere reperibili ventiquattr’ore su ventiquattro. Una conquista di civiltà?
Licia Cinfriglia scuote la testa: «Prevedere il diritto alla disconnessione è a mio avviso sintomo dell’incapacità di comprendere la portata innovativa del digitale e uno dei tanti elementi di conservatorismo di cui è pieno questo pessimo contratto». Cinfriglia, membro del consiglio superiore dell’Istruzione, è una preside in aspettativa.
Curioso confrontare il suo punto di vista con quello di Ludovico Arte, preside in attività dell’Istituto Marco Polo di Firenze. «Di solito sono contrario alle norme e agli obblighi imposti dall’alto, ma in questo caso sono norme di buona educazione».
Ludovico Arte fa ammissione di colpa: «Sono io quello che di solito manda agli insegnanti le mail il fine settimana. Starò più attento, da ora in poi. Certo questa non mi sembra la cosa più importante da fare nella scuola, ma la trovo giusta».
Connessi o non connessi? È giusto che il diritto alla disconnessione sia confinato soltanto al contratto della scuola? Alessio Gramolato, pensa proprio di no, lui che da sindacalista della Cgil è responsabile del «progetto 4.0». Dice: «Siamo perennemente connessi e questo tema da un po’ di tempo è affrontato in tutta Europa. Dal punto di vista legislativo — come in Francia — oppure dal punto di vista regolativo-contrattuale, come in Germania e come sta succedendo da noi. Soltanto che da noi pensiamo di fare un passo avanti».
Il passo avanti di Alessio Gramolato è semplice: dare un valore specifico alla connessione. «Con la connessione continua negli ultimi vent’anni è aumentato l’orario di lavoro. Non sbaglio se dico che con la reperibilità continua si è incrementato del 30-40 per cento. Quindi piuttosto che affermare il diritto alla disconnessione, direi di pagare la connessione, soprattutto in quei lavori dove non se ne può più fare a meno».
E loro, gli insegnanti, che dicono? Walter Fiorentino è affezionato a mail e chat: «Credo che le potenzialità della connessione siano molteplici. E penso che avere la possibilità di dialogare fuori dall’orario e del contesto sia un beneficio e non un danno».
Fiorentino insegna latino e greco nel liceo De Santis di Roma, e non la pensa per niente alla stessa maniera di Gaia Palladino, che insegna in un paesino in provincia di Catania, Zafferana Etnea, all’Istituto comprensivo De Roberto: «Mi sembra — dice la docente — un sacrosanto fattore di protezione nei nostri confronti. Credo che questo concetto del diritto alla disconnessione sia giusto e che serva anche per far aumentare la consapevolezza nell’uso del digitale».
L’ultima parola spetta alle mamme e ai papà. A papà Gianluca Pallai, presidente dell’Age (Associazione italiana genitori) a Roma. «Credo — afferma — che il vero dramma dietro questa norma sia la mancanza di educazione. Davvero c’è bisogno di regolamentare per contratto l’uso di mail e telefono? Mi sembra il minimo sindacale della civiltà».

Repubblica 11.2.18
Così cancelleremo l’età della vergogna
Ma dove rischia di farci sbattere il fenomeno dei figli-Narciso?
Gustavo Pietropolli Charmet, grande psichiatra, un’idea per salvarci ce l’ha: con i nostri ragazzi
Incontro di Marco Belpoliti


Mi riceve a casa sua. Un problema al ginocchio ora non gli permette di camminare. Prima di me pazienti in seduta, colleghi per riunioni, amici. Gustavo Pietropolli Charmet è uno che non sta mai fermo. Sempre su e giù per l’Italia per incontrare operatori sanitari, educatori, psicologi, assessori e ministri. Si è speso in questi anni come pochi altri psichiatri. Ha creato il centro Minotauro a Milano, che si occupa di adolescenti e terapie famigliari. Ha scritto libri, partecipato ad assemblee in scuole, con ragazzi e adulti. Quando l’ho conosciuto andava avanti e indietro dalla Valle d’Aosta, dove aveva realizzato un centro dedicato ai ragazzi che avevano tentato il suicidio, perché si è occupato anche di questo. Probabilmente proprio quest’attività è servita a mettere a punto il tema centrale della sua riflessione psicoanalitica, che ritorna nell’ultimo volume in uscita da Laterza, L’insostenibile bisogno di ammirazione: il passaggio da Edipo a Narciso nell’universo degli adolescenti. « Finita l’epoca della colpa», spiega seduto davanti a un’immensa libreria, «è cominciata quella della vergogna. Il vecchio modello educativo, durato fino agli anni Cinquanta, era improntato alla severità; c’era la convinzione che il bambino avrebbe commesso inevitabilmente trasgressioni sia di natura sessuale che aggressiva, lasciandosi dominare dalla sua natura pulsionale. Finito quel modello è apparso il bambino naturalmente buono, che i genitori cercavano di curare e incentivare in ogni modo: tanti Narcisi. Dal senso di colpa, fondato sul conflitto, s’è passati alla vergogna». E perché ci si deve vergognare? « Perché non si è più guardati, ammirati, perché il mondo non ti corrisponde più. Lo sguardo dell’altro, e in generale lo sguardo sociale comunque somministrato, anche in forma virtuale, è il regista indiscusso dell’eventualità di cadere in vergogna o invece, al contrario, di essere oggetto d’ammirazione». Come mai nel suo libro non parla di narcisismo ma piuttosto di ammirazione, termine non analitico? « Ho preferito ai termini psicologici un’altra definizione: ammirazione. In assenza di una griglia etica che pone dei limiti come nella società che ci siamo lasciati alle spalle, l’Io rimane in rapporto con i desideri, che non sono ovviamente solo negativi, ma anche positivi. L’ammirazione consiste in un aggancio visivo con gli altri, con il mondo. Si va a cercare l’ammirazione ovunque. Se non la trovi, se non la susciti, provi vergogna. C’è quindi il suicidio degli adolescenti, ma anche quello del giovane terrorista, che s’immola per la sua fede religiosa».
Il meccanismo è lo stesso? «Via il padre, scomparsa la figura genitoriale, il Super Io, non sono arrivate le donne, le madri, a riempire questo vuoto di potere e di comando, a dare delle griglie etiche, e neppure i fratelli hanno sostituito il Padre. Non c’è nessuno che sia più credibile. Guardi la scuola, le difficoltà che incontrano gli insegnanti. Tutti i Sé esprimono i loro desideri e vanno là dove questi spingono, prima di tutto il desiderio di ammirazione. Se non si riesce, subentra la vergogna». Nel libro, oltre a una teoria del presente, Pietropolli Charmet racconta alcune storie tratte dalla sua pratica analitica. Una in particolare colpisce: il racconto di un ragazzo che si vuole suicidare impiccandosi davanti alla scuola per punire i compagni per la vergogna provata. Pietropolli Charmet ha un approccio positivo ai problemi. Sentendolo parlare si capisce che possiede una forma di ottimismo e insieme una sorta di realismo. Ti sorprende con le sue affermazioni, che nascono da qualcosa di profondo. La sua origine veneziana, levantina, si unisce con il pragmatismo di Milano, città dove vive e lavora da anni. S’è occupato di anoressia femminile e della crisi degli adolescenti maschi. Nel libro ci sono pagine su questo, sui ragazzi, e sui genitori che non li capiscono. « I maschietti provano la paura di essere brutti, loro che non sono più capaci di fare paura: il bullismo ha questa radice, è una ricerca di ammirazione. Ma anche le ragazze anoressiche, che spesso sono belle,vogliono uccidere la loro bellezza, vogliono dominare il corpo con la mente, essere brutte; lottano contro la seduzione che il loro corpo bello promana».
L’ammirazione che si ricerca, spiega, non riguarda le competenze o abilità, riguarda il Sé, non il ruolo sociale o il mestiere che si è chiamati a svolgere. Sono pagine che non colpevolizzano nessuno; vogliono mostrare i problemi che come adulti, genitori, educatori abbiamo oggi. Pietropolli Charmet m’accompagna alla porta. Forse arriveranno altri visitatori, anche se fuori è oramai buio.

Repubblica 11.2.18
Lasciate che i bimbi vengano a Marx
Bestseller a Berlino.
Osannato dal Mit negli Usa di Trump.
“Il comunismo spiegato ai bambini” è diventato un grande caso editoriale. Grazie a un baby trucco
Intervista di Tonia Mastrobuoni


Il comunismo raccontato a un bambino (e non solo) (Sonda, 126 pagine, 15 euro, con la traduzione di Simone Buttazzi) della scrittrice e attivista politica tedesca Bini Adamczak è stato pubblicato per la prima volta nel 2004. L’autrice è nata nel 1979 e vive a Berlino

Bini Adamczak parla a voce bassissima ma bisogna ascoltarla attentamente. La incontriamo in un bar di Kreuzberg e dopo tre minuti non crediamo alle nostre orecchie. È giovanissima, ha trentasette anni, ma usa termini che il mondo ha frettolosamente sepolto dopo la caduta del Muro. Ha introiettato Marx e ha letto i grandi filosofi francesi e tedeschi della seconda metà del Novecento che il terzo millennio ha dimenticato. Per lei il comunismo non è una posa, è la sua vita. E in Italia ora esce il suo straordinario libro, acclamatissimo negli Usa, quando il prestigioso Mit decise già di intitolarlo Il comunismo spiegato ai bambini. Ovviamente è un libro che si divora anche a novant’anni.
Adamczak, perché è diventata comunista, perché legge autori che nessuno legge più?
« Sono cresciuta a Rüsselsheim, la città della Opel. Dopo il Sessantotto molti studenti e attivisti arrivarono lì per politicizzare gli operai. Marxisti-leninisti che distribuivano volantini maoisti. O persone orientate all’operaismo italiano. Queste persone hanno creato delle infrastrutture che sono sopravvissute anche a loro. Centri autonomi e associazioni culturali, punti informativi. Così è nata un’offerta di sinistra relativamente importante al di là dei socialdemocratici. Era una situazione particolare: in molte città non esiste una cosa del genere. Ma spesso può essere decisiva. Esistono studi che hanno dimostrato come molti posti nella Germania est siano diventati dopo il 1990 di destra o di sinistra a seconda di dove ha aperto il primo centro per i giovani. Se era la sinistra, la gente è diventata di sinistra e viceversa».
Ma il comunismo non è morto con la caduta del Muro?
«Allora Francis Fukuyama ha dichiarato che era arrivata la fine della storia. È diventata più che un’ideologia. Descrive un’atmosfera che, con la grande eccezione del Sudamerica, ha contagiato il mondo intero. La sensazione è che non si possa più influenzare il mondo, che la democrazia rappresentativa dell’economia di mercato abbia conquistato l’ultima parola nella Storia. Molti si sono arresi a quest’idea del mondo e si sentono oppressi. Solo alcuni momenti hanno significato uno squarcio in questa cappa di piombo: Seattle, gli zapatisti, il G8 di Genova. È questa l’atmosfera in cui ho scritto il libro, prima della Grande crisi, prima della Primavera araba che ha fatto ritornare la Storia al tavolo della Storia».
Perché tradurre il comunismo nel linguaggio per bambini?
«Per differenziarmi rispetto agli intellettuali tedeschi che pensano che più parli in modo complesso, meglio è. E poi quello dei bambini è il linguaggio del sogno, del desiderio. Il libro si rivolge a tutti coloro che vogliono sognare».
Quindi basta quel “tendere a”, quel topos della letteratura tedesca, quello che assolse Faust dal suo patto con Mefistofele?
«Per me il comunismo non è un “tendere a”, non è fine a sé stesso. Nel mio nuovo libro affronto le idee poststrutturaliste e postmarxiste, che descrivono la società perennemente in movimento, sempre contesa, verso qualsiasi futuro. E per me è questa la sconfitta del Sessantotto. Nel momento in cui la sinistra capisce che non può realizzare le sue idee sulla rivoluzione, sposta l’obiettivo per i cambiamenti locali sulla sovversione. Perché l’ambizione di cambiare la società è sospettata di mire totalitaristiche. Ma noi non ci battiamo per un mondo migliore per batterci per un mondo migliore, ma per vivere in un mondo migliore».
Perché la sinistra non riesce più a formulare un’idea potente per il cambiamento? Per esempio: come si affronta il problema della robotizzazione che cancellerà milioni di posti di lavoro?
« Perché è spesso ancorata alla negazione: eliminazione e cancellazione della proprietà privata, distruzione dello Stato. Spesso le manca la parte costruttiva. Durante la crisi immobiliare americana la gente perse le case. Erano ancora lì, ma di proprietà di un titolo finanziario, mentre le persone si erano trasferite in una tenda. Anche la robotizzazione corre lo stesso rischio. Finché non organizziamo la società in base al valore di scambio, non dobbiamo temere la robotizzazione. Dal punto di vista del valore d’uso, la robotizzazione potrebbe significare un aumento della ricchezza, per la società. Bisogna solo riappropriarsi di questa ricchezza in modo democratico, è proprio questa l’idea del libro. Dobbiamo chiederci, tutti insieme: che bisogni abbiamo, come li vogliamo soddisfare? Come giudichiamo il bisogno di più tempo libero o di un lavoro più soddisfacente? E come organizziamo insieme il lavoro necessario per soddisfare i nostri bisogni? Non dobbiamo avere paura di queste domande».

Repubblica 11.2.18
Sergio Givone
Che fine ha fatto l’Infinito
Dal sublime di Kant al “Viandante” di Friedrich.
Un filosofo indaga l’avventura dell’uomo moderno di fronte al mistero più grande. Offrendo al rebus un’insolita chiave: da far girare dentro di noi
di Marco Bracconi


TITOLO: SULL’INFINITO
AUTORE: SERGIO GIVONE EDITORE: IL MULINO
PREZZO: 12 EURO PAGINE: 135

C’è infinito e infinito. C’è l’infinito che vive dentro l’animo umano come idea, costruzione soggettiva, e l’infinito che è qui e ovunque, alla fine e all’inizio, reale e attuale. Sull’infinito del filosofo Sergio Givone è un saggio che affronta una delle questioni più affascinanti e misteriose dell’arte e del pensiero: l’Infinito, appunto, questo impensabile e irrappresentabile, che in quanto smisurato è Tutto ma è anche Nulla, sfida e paradosso, assenza di confine e confine che la rivela. Una sfida e un paradosso che filosofia e pittura raccolgono da sempre e che secondo l’autore tocca un punto di svolta con un quadro celebre e spesso (forse) malinteso: il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, opera del 1818, lo stesso anno del dolce naufragare di un signore che (anche lui) con l’Infinito stava facendo i conti. Ma quello con l’Infinito-Nulla di Giacomo Leopardi è solo uno dei tanti link che Givone traccia seguendo l’ipotetico viaggio del Viandante verso questa fine del mondo che presuppone un’altra fine, e un’altra ancora, perché tale è l’infinito in positivo, quello che abitiamo — noi stessi nell’infinito — nel mondo reale.
Così davanti a quelle nebbie il viaggiatore di Friedrich è debitore del sublime kantiano, sentimento che ci deprime con la sua potenza e al tempo stesso ci esalta e ci commuove, ma è anche già oltre, lanciato verso la mirabolante avventura della modernità: né perduto né stordito dai possibili esiti mistici di quel sublime, egli contempla (e forse già indaga) nemmeno più l’infinito, ma la possibilità di poterlo dire, rappresentare e capire al di là del suo vertiginoso essere contenitore e contenuto di sé stesso. Variante umana compresa, perché ciò che ci dice lo scrutare dell’uomo in quello spazio vuoto e infinitamente pieno, con quello sguardo che cambia l’idea stessa di paesaggio, è che l’infinito è uscito dai nostri sogni per essere esteriorizzato e diventare da ciò che non ha fine quello che, semplicemente, infinito è. Un viaggio che Givone conduce senza soluzione di continuità dalla trattazione accademic alla mimesi con il protagonista del quadro ottocentesco preso lungamente in esame. E che da Giordano Bruno a Schopenhauer e Nietzsche continuamente riconduce la questione filosofica dello “smisurato” al terreno della storia dell’arte, alla metafisica di Giorgio De Chirico, per esempio, o ai teoremi della moderna fisica teorica. Per dirci che l’infinito che è ci chiama da fuori di noi e ci impone di uscire da noi, come se solo così potessimo, infine, nell’abisso riconoscerci.

Corriere La Lettura 11.2.18
La mandibola che ci invecchia Nuove ipotesi su Homo sapiens
Un reperto ritrovato in Israele porta ad anticipare i 50 mila anni l’uscita dei nostri antenati dall’Africa. E forse a retrodatare anche le origini della nostra specie
di Giorgio Manzi


L’ultima notizia viene da una grotta del Monte Carmelo, il promontorio che si sporge verso il Mediterraneo dalle parti di Haifa, in Israele. Una porzione di ossa della faccia di un nostro antenato o antenata di quasi 200 mila anni fa, con quasi tutti i denti dell’arcata mascellare di sinistra, è stata rinvenuta in quella grotta (la Misliya Cave) e viene descritta e dettagliatamente analizzata in un articolo a firma di Israel Hershkovitz e una trentina di altri autori, comparso su una rivista scientifica di primo piano come «Science». A prima vista il resto fossile non sembra così ricco di informazioni, ma secondo gli autori i loro dati dimostrerebbero che non si tratta né di un Neanderthal né di un’altra forma umana arcaica (fra quelle da loro considerate), e che si possa parlare di Homo sapiens . Qui sta appunto la notizia. La morfologia, combinata con la datazione, indica che saremmo in presenza del più antico rappresentante dell’umanità moderna fuori dall’Africa, rappresentante cioè di una delle prime popolazioni della nostra specie che iniziavano a diffondersi a partire dall’originaria culla africana. E la data compresa tra 177 e 194 mila anni fa, affidabilmente ottenuta con tre differenti metodi quantitativi, ha qualcosa di sorprendente. Vediamo perché.
Per capire meglio, dobbiamo dire che qui si combinano almeno due diversi aspetti di primo piano per la comprensione del nostro passato nel tempo profondo: il tema delle migrazioni — o come preferisco dire io: delle diffusioni geografiche — e il problema assai dibattuto delle origini dell’umanità moderna, cioè del «quando» e del «come» si sia originata una creatura che si possa definire Homo sapiens . Una creatura che rappresenti cioè le origini dei primi nostri antenati del tardo Pleistocene che furono anatomicamente e, almeno in via potenziale, culturalmente «moderni»; in pratica, come noi. Sul primo tema — le migrazioni, o diffusioni — è arrivato di recente il bel libro di Guido Barbujani e Andrea Brunelli Il giro del mondo in sei milioni di anni (il Mulino). Ispirati da Italo Calvino — al quale riconoscono l’idea di farsi guidare da un testimone oculare sopravvissuto a vicende durate milioni di anni e che hanno chiamato Esumim (acronimo di «esseri umani in movimento») — Barbujani e Brunelli seguono il percorso dell’evoluzione umana in genere e poi della nostra specie in particolare, con attenzione al fenomeno delle ripetute espansioni umane che si ripetono da tempo immemore e che continuano ancor oggi negli scenari geografici di mezzo mondo.
Come dice il titolo, partono da circa sei milioni di anni fa, quando alcune scimmie bipedi africane intrapresero il cammino che ha portato fino a noi. Ma, come si sa, l’areale dei nostri antenati è rimasto a lungo quello, per milioni di anni: l’Africa orientale e meridionale. Compare poi, scimmia bipede fra le altre, il genere Homo (attenzione, siamo ancora ben lontani da Homo sapiens ); si era intorno a 2 milioni e mezzo di anni fa. Sono proprio i più antichi rappresentanti di questa umanità primordiale che iniziano a fare cose nuove (o quasi), fra cui i manufatti del primo Paleolitico, e a rendersi protagonisti di un’inedita diffusione geografica che li porta anche fuori dal continente africano: fino all’isola di Giava e oltre, verso oriente; fino alla penisola iberica, a occidente.
Poi si entra nel mondo di Homo sapiens , a cui è dedicata la maggior parte del racconto di Barbujani, Brunelli ed… Esumim. E il libro diventa appassionante quando i nostri diretti antenati, i primi uomini «moderni», comparsi in Africa orientale intorno a 200 mila anni fa, iniziano una diffusione che li porterà dapprima a espandersi in tutto il continente per poi arrivare, passando perlopiù dal Sinai, a diffondersi e insediarsi in tutte (ma proprio tutte) le terre emerse del pianeta. In questa nuova «diaspora» extra-africana i nostri eroi incontrano altre umanità — probabilmente distinte a livello di specie, ma con le quali è ancora possibile qualche occasionale incrocio — e lasciano a noi come retaggio brandelli di Dna dei Neanderthal, degli ancora in parte misteriosi Denisoviani e forse anche briciole di genoma degli ultimi Homo erectus dell’Indonesia. Barbujani e Brunelli si spingono poi oltre, quando nel mondo di Homo sapiens (non ci sono più altre specie umane in giro) il fenomeno delle migrazioni diventa un intreccio di percorsi e il popolamento di certe aree avviene più e più volte da parte di popoli differenti: in Africa, in Eurasia, in Australia e nelle Americhe. Formidabile (e probabilmente a molti ben nota) la diffusione dei primi agricoltori e allevatori del Neolitico, della cui ricerca è stato pioniere indiscusso il grande genetista italiano di Stanford, Luigi Luca Cavalli Sforza, proprio uno dei maestri di Barbujani.
Insomma, la tendenza a diffondersi geograficamente è connaturata a noi umani sin dai tempi dei primi Homo e poi da parte della nostra specie, Homo sapiens . Sul tema si sono confrontati molti autori e, al di là della letteratura propriamente scientifica, in quella a carattere divulgativo fra gli italiani vanno ricordati lo stesso Barbujani, in Europei senza se e senza ma (Bompiani, 2010) e Gli africani siamo noi (Laterza, 2016), o Guido Chelazzi nel suo Inquietudine migratoria (Carocci, 2016). Non stupisce allora che in un sito come quello israeliano della Misliya Cave si possa trovare il resto fossile di un possibile Homo sapiens in un’epoca tanto precoce come quella indicata dalla datazione, intorno a 185 mila anni fa. Può sembrare, in effetti, molto vicina all’epoca della comparsa di Homo sapiens sulla scena evolutiva, fissata a circa 200 mila anni fa dalle ricerche degli ultimi decenni, sia quelle basate sull’evidenza fossile sia quelle a carattere paleogenetico (orologio molecolare). Si tratterebbe allora di concludere che una prima uscita di Homo sapiens dall’Africa fu parecchio più antica di quanto fino a oggi pensavamo, poiché i 185 mila anni fa (circa) del mascellare di Misliya Cave sono molto più remoti delle datazioni di altri siti con resti umani anatomicamente «moderni» della stessa area, come i 120 mila anni di Es Skhul (altra grotta del Monte Carmelo) o i 90 mila anni di Qafzeh (una caverna presso Nazareth).
Ma il problema che emerge da quest’ultima notizia e dai commenti fra gli addetti ai lavori è anche un altro e, come dicevamo, intercetta un problema cruciale per la comprensione del nostro passato e della nostra natura: «quando», ma soprattutto «come» siamo diventati Homo sapiens ? Siamo comparsi come specie più gradualmente di quanto alcuni (me compreso) credono e, comunque, prima di quando la letteratura precedente suggeriva? Hanno forse ragione coloro che pensano di spostare le origini di Homo sapiens da 200 a 300 mila anni fa, magari sulla base dei risultati emersi l’anno scorso dal sito di Jebel Irhoud in Marocco? Io ritengo di no, ma staremo a vedere.

Corriere La Lettura 11.2.18
L’uomo è meno intelligente di quello che crede
Steven Sloman è uno scienziato cognitivo che da oltre 25 anni studia la mente
di Alessia Rastelli


Pensiamo di capire come funzionano gli oggetti, la politica, la medicina, più di quanto ne capiamo realmente. Sappiamo meno di quanto crediamo di sapere. E la nostra intelligenza individuale è sopravvalutata. È un potente bagno di umiltà il saggio, già popolare negli Stati Uniti, L’illusione della conoscenza , che uscirà in Italia il 15 febbraio per Raffaello Cortina. Lo firmano Steven Sloman, professore di Scienza cognitiva alla Brown University, da oltre 25 anni studioso della mente, e l’allievo Philip Fernbach, docente all’università del Colorado. Il loro libro non fornisce l’antidoto definitivo all’ignoranza, ma un’utile presa di coscienza dei meccanismi con cui ragioniamo, rivedendo il concetto stesso d’intelligenza. Sloman parla a «la Lettura» dalla sua casa di Providence, nel Rhode Island.
Cos’è l’«illusione della conoscenza»?
«È il pensare di conoscere molto più di quello che realmente conosciamo. La mente umana ha dei limiti. Usando l’unità di misura dei computer, la nostra memoria è di circa mezzo gigabyte, almeno 3-400 volte inferiore a quella del pc. D’altra parte, il pensiero non si è evoluto per accumulare dettagli ma per scegliere le azioni complesse con cui operiamo nel mondo, cogliendo ciò che è più utile e tralasciando il resto. La mente però attinge anche fuori dalle nostre teste. Dall’ambiente, e pensando con le altre persone. Quando facciamo riferimento a qualcosa, ad esempio, non sempre sappiamo in profondità di che cosa stiamo parlando, ma presupponiamo una conoscenza che ci arriva da altri. A tutti è familiare la bicicletta, ma se ci viene chiesto di disegnarla nei suoi componenti, telaio, catena, pedali, non sempre ci riusciamo. Mentre sa farlo chi l’ha costruita. L’uomo inoltre è l’unico animale in grado di condividere intenzionalità con i suoi simili, motivo per cui non credo che l’intelligenza artificiale, che ne è incapace, sarà mai in grado di dominarci. Io e lei che mi sta intervistando stiamo cercando di raggiungere qualcosa di comune, indipendentemente dal fatto che la mente sia mia o sua. In questo meccanismo, tuttavia, di per sé non negativo, si annida l’illusione della conoscenza: perché non percepiamo il confine tra il nostro sapere e quello che riceviamo dagli altri, e crediamo di conoscere più di quanto conosciamo».
Questo comporta dei rischi?
«Molti errori medici o incidenti che hanno coinvolto treni e aerei sono nati così. Nel 1954, nell’ambito del test Castle Bravo, bombe termonucleari furono fatte esplodere nel Pacifico anche se non si era pienamente consapevoli del loro funzionamento. La presunzione di sapere è contagiosa. Milioni di persone possono pensare di aver capito solo perché il vicino pensa di aver capito e questo, a sua volta, si è affidato al vicino... È così che nasce l’ideologia: già all’origine di diverse guerre nel passato, ora sta disgregando l’Occidente, dove cresce la polarizzazione. Singole comunità si allontanano, ciascuna con i suoi leader, i suoi valori, la sua certezza di capire basata sul nulla».
La radicalizzazione delle posizioni rischia di diventare più forte oggi che i social network ci chiudono nella bolla degli amici che la pensano come noi?
«Sì, soprattutto perché la cosiddetta echo chamber — la condizione in cui le informazioni si rafforzano in quanto ribadite dentro un sistema definito — non riguarda solo un gruppo di vicini di casa ma città, nazioni. Attraverso internet o i satelliti con cui riceviamo notizie da tutto il pianeta. Io stesso ho colleghi con i quali dialogo di politica e mi isolo dagli altri. Dati americani mostrano tuttavia che a favorire la polarizzazione non sono tanto i social. Solo il 14% dei votanti negli Stati Uniti li usa per informarsi; la maggior parte apprende le notizie dalla tv. Ed è questo gruppo, formato dai più anziani, ad avere posizioni più radicali. La polarizzazione non dipende solo dalla rete».
Quali sono le altre cause?
«La globalizzazione, la crisi economica. Negli Stati Uniti tutto è iniziato negli anni Novanta, quando i repubblicani lanciarono il cosiddetto “Contratto con l’America”, creando un’ideologia che si è autorinforzata, separandosi sempre più dai liberal . In precedenza le comunità erano dominate dal buon senso, riunite attorno a figure ritenute autorevoli come i religiosi o gli intellettuali. Poi è avvenuta la disgregazione dietro a singoli maître à penser che parlano senza appoggiarsi a dati oggettivi, ma convinti di sapere».
Viviamo una crisi della competenza?
«Sì, ed è pericolosissima. I vertici politici non hanno rispetto per la preparazione. Un leader forte invece è chi, consapevole di non sapere tutto, ascolta gli esperti. L’intelligenza non è solo la quantità di informazioni che immagazziniamo o la velocità con cui lo facciamo. Alla luce del nostro pensiero collettivo, l’intelligenza è quanto un individuo contribuisce alla comunità. Spesso i colloqui di lavoro sono inefficaci perché valutano le capacità individuali e non il potenziale contributo al ragionamento comune per la risoluzione dei problemi. Bisognerebbe valorizzare abilità come l’empatia e l’ascolto».
Nel libro sembrano essere messe in discussione la capacità di giudizio degli elettori e la stessa democrazia.
«Disse Winston Churchill che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre. Dal punto di vista psicologico penso che le persone non siano fatte per la democrazia ma dal punto di vista morale la sostengo. Anche se mi aspetto dei problemi. Di sicuro sono contrario ai referendum, voi europei ne sapete qualcosa con la Brexit. Non tutti possono prendere decisioni su temi difficili, deve farlo chi è competente».
Come spiega l’elezione di Trump?
«Illusione della conoscenza e polarizzazione si sono innescate, ma solo in parte dell’elettorato. Altri hanno votato in maniera ragionata. C’è chi lo ha fatto per i suoi interessi o chi, impoveritosi sotto i democratici, li ha ritenuti responsabili».
Abbiamo una mente che ragiona in modo collettivo e oggi la tecnologia favorisce la condivisione. L’illusione della conoscenza è anche un’opportunità?
«Dipende dagli ambiti. A me che studio e scrivo libri, pensare di sapere più di quanto so aiuta a rischiare e sviluppare una visione. Diverso sarebbe se guidassi un aereo. Dell’illusione della conoscenza bisogna comunque essere consapevoli: sapere di non sapere, come diceva Socrate. Che aggiungeva: “Conosci te stesso”. Ossia l’animale limitato e ignorante che sei. Se riconosco i miei limiti, mi affido a chi sa più di me. Nel libro propongo di pungolare le persone invitandole a spiegare il perché di una decisione. Spesso, dettagliando, si rendono conto che la loro posizione è superficiale. Ma non sempre si può fare né gli individui amano sentirsi ignoranti. Su larga scala sarà importante creare una società in cui sia ritenuto giusto testare le persone, verificare che le loro fonti siano affidabili. Il concetto di fiducia è centrale. Devono riguadagnarla per prime le istituzioni».
Crede sia possibile?
«Io mi occupo di descrivere la mente. Altri sostengono che la conoscenza a nostra disposizione abbia fatto la differenza e che il mondo sia diventato migliore, con meno povertà, guerre, malattie. Di sicuro però in questa fase ci sono forze che agiscono in opposizione. C’è da sperare che siano temporanee».

Corriere 11.2.18
Che cos’è davvero l’intelligenza
Da un paio di secoli ci si chiede da che cosa dipendano le capacità mentali. Un tempo si pensava fosse soprattutto questione di ereditarietà, oggi si ritiene conti soprattutto la capacità di essere flessibili e creativi. E il «tradizionale» pensiero logico matematico non è affatto l’unico
Una «bella testa » è fluida e sa fare associazioni
di Elena Meli


Trovare sempre la soluzione ai problemi, prendere buoni voti a scuola, avere successo nel lavoro. Ma anche saper comprendere gli altri o avere il senso della musica: ci sono tanti modi per essere intelligenti e innumerevoli teorie che hanno cercato di spiegare che cosa sia l’intelligenza.
Psicologi e neuroscienziati fanno ipotesi da un paio di secoli, passando dal considerarla un tratto ereditario come molti altri (si veda sopra) al ritenerla il risultato del lavoro di una specifica area del cervello o al massimo di una rete di neuroni, fino al pensarla come l’effetto di cellule cerebrali più efficienti del normale nello sfruttare le risorse energetiche. Oggi si comincia a pensare che essere intelligenti significhi soprattutto essere flessibili. A sostenerlo con convinzione è uno studio su Trends in Cognitive Neuroscience che sottolinea come non esista un’area cerebrale dell’intelligenza perché tutto il cervello concorre sempre all’elaborazione di qualsiasi informazione, anche la più semplice, e tanto più sono le interazioni fra le varie parti, quanto più saremo capaci di creare nuove associazioni mentali, di adattarci alle situazioni, di essere duttili e «smart».
Secondo lo psicologo Aron Barbey dell’Università dell’Illinois, a Urbana-Champaign, dobbiamo immaginare il cervello come se fosse a moduli, di mattoncini dedicati ciascuno a una funzione, che però acquisiscono senso solo quando si assemblano in una rete. «Questi network si accendono a seconda delle attività cognitive in cui ci impegniamo e sono sostenuti da due diversi tipi di connessioni nervose — dice Barbey —. Ci sono vie robuste , che derivano da mesi e anni di continuo traffico di informazioni: sono quelle dell’intelligenza cristallizzata , che racchiude esperienze e nozioni ben assimilate nel tempo. Ci sono però anche vie più deboli e transitorie, che si formano quando il cervello si impegna su problemi unici o insoliti: sono le vie dell’intelligenza fluida , l’abilità di ragionare adattandosi alle richieste dell’esterno trovando nuove soluzioni. Il cervello infatti non forma connessioni permanenti, ma aggiorna di continuo le conoscenze precedenti formando nuove strade di comunicazione fra neuroni. Quanto più è elastico e veloce nel farlo, in risposta ai nuovi bisogni, tanto meglio lavora».
Gli studi di neuroscienze suggeriscono, secondo l’esperto americano, che l’intelligenza generale richieda allo stesso tempo solidità e fluidità, ma di fatto è più intelligente chi salta con maggior facilità fra i diversi network di comunicazione fra aree cerebrali.
«L’intelligenza implica sicuramente la capacità di adattarsi e cambiare: una flessibilità che è il diretto risultato della plasticità del cervello, che si modifica per rispondere a esigenze sempre nuove e diverse — conferma Amelia Gangemi, docente di Psicologia generale all’Università di Messina — . Detto ciò, l’intelligenza è una qualità trasversale ad altre capacità: è ragionamento, abilità nel risolvere i problemi, ma anche memoria, introspezione, competenza linguistica. Per questo è molto difficile definirla».
Al punto che accanto alle teorie quantitative, per cui di intelligenza ce n’è una e si può misurare con un test (ormai assai discusso, si veda a lato), si diffondono sempre più quelle qualitative, secondo cui esistono vari tipi di intelligenza e ciascuno di noi può essere più forte nell’una o nell’altra. «Anche la teoria delle intelligenze multiple dello psicologo americano Howard Gardner ha un solido fondamento nelle neuroscienze — sottolinea Gangemi — . Le diverse abilità sono infatti collegate a differenti aree cerebrali specializzate».
Così accanto all’intelligenza logico-matematica e a quella linguistica, che sono alla base dei test per misurare il quoziente intellettivo e correlano con l’attività dei lobi parietali, del lobo frontale sinistro del cervello e dell’area di Broca, c’è per esempio l’intelligenza musicale, principalmente localizzata nell’emisfero destro, o quella corporeo-cinestesica, che dipende dall’attività di cervelletto, talamo, gangli della base e regala una maggior padronanza del corpo e dei movimenti. Ma c’è anche l’intelligenza visuo-spaziale, che ci rende abilissimi a ricordare immagini e percorsi e correla con un’attività maggiore nell’emisfero destro, o quella personale che si localizza nei lobi frontali e consente di entrare in maggior contatto emotivo con se stessi e con gli altri. In sostanza si può dire che siamo tutti un po’ intelligenti, ciascuno a modo proprio. «Esiste anche un test, messo a punto da Gardner , per individuare il tipo di intelligenza prevalente in ognuno — specifica Gangemi —. Questa poi, una volta identificata, andrebbe utilizzata come una sorta di grimaldello per aumentare l’intelligenza e le prestazioni in generale, perché presentare la realtà attraverso il canale che ci è più congeniale a capirla può fare la differenza. E renderci di fatto più intelligenti».

Corriere 11.2.18
Abbiamo sette talenti naturali (ma c’è chi pensa siano nove)
di E.M.


I veri geni, secondo gli esperti, non eccellono soltanto in un tipo di intelligenza, ma sono «fluidi», ne posseggono più di una.
La cosiddetta successful intelligence , l’intelligenza di successo che davvero porta lontano nella vita, sarebbe un mix fra capacità di adattarsi alle richieste dell’ambiente, abilità nell’elaborare in modo creativo le soluzioni e apertura mentale.
Dall’intelligenza-monolite del ragionamento logico del secolo scorso di strada ne è stata fatta, quindi, e le «intelligenze» sono sempre di più. Il loro teorico, lo psicologo Howard Gardner, alle due già note fin dall’inizio del ‘900 (logico-matematica e verbale) negli anni 80 ne aggiunse inizialmente cinque (spaziale, musicale, corporale-cinestesica, interpersonale, intrapersonale); negli anni 90 il numero è cresciuto ancora perché lo stesso Gardner ha proposto l’esistenza di un’intelligenza «naturalistica», che consente di individuare, catalogare e trovare relazioni fra gli oggetti naturali, e una «esistenziale», tipica di teorici e filosofi in grado di ragionare sull’esistenza per mezzo di categorie concettuali astratte.
C’è chi contesta tutto questo moltiplicarsi di intelligenze, ma forse perfino nove non bastano. Di recente è stata proposta anche l’esistenza di un’intelligenza «digitale», una capacità tutta appannaggio dei millennials (i giovani nati fra i primi anni Ottanta e l’inizio degli anni Duemila) che li rende abilissimi nello sfruttare la tecnologia.ù

Corriere 11.2.18
Non è mai troppo tardi per allenare Il cervello
di E.M.


L’intelligenza è difficile da definire, per cui certo non stupisce che sia complicata anche da misurare. Prendiamo il quoziente di intelligenza: ci sono vari test per quantificarlo ma tutti di fatto valutano le abilità verbali e quelle logico-matematiche, due soltanto fra le molte forme in cui si esplica l’intelletto. Il suo valore oggi è molto ridimensionato, come spiega Amelia Gangemi, docente di psicologia generale all’Università di Messina e autrice insieme a Silvana Miceli del libro «Psicologia dell’intelligenza (Ed. Laterza)»: «Il quoziente intellettivo dice solo come ci collochiamo rispetto alla media della popolazione occidentale, sulla quale sono tarati i test. Le differenze culturali hanno un notevole impatto: chi vive in Europa o negli Stati Uniti sollecita abilità diverse, rispetto a chi nasce e cresce in Nord Africa. I test di intelligenza oggi vengono ritenuti utili quasi solo per inquadrare i bambini con un ritardo mentale, per capire come si collocano e pensare a programmi d’insegnamento specifici; non predicono affatto, per esempio, il successo scolastico o sul lavoro. Un “nerd” con un alto QI e una mente logico-matematica sopraffina potrebbe non avere un rendimento lavorativo adeguato perché sprovvisto di intelligenza emotiva e incapace di avere relazioni soddisfacenti con i colleghi. Einstein aveva un QI molto alto (160 quando la media è attorno a 100, ndr ) ma a scuola e nelle relazioni non brillava; è stato un genio perché ha avuto un’intelligenza flessibile e creativa, perché ha saputo mettere assieme teorie note in un quadro del tutto nuovo». Sottoporsi ai test può essere divertente ma non bisogna identificarsi con il risultato, perché l’intelligenza è un mix di tante qualità. Che per fortuna si possono allenare, come puntualizza Gangemi. «Diventare più intelligenti è possibile esercitando il cervello, stimolandolo con progetti, interessi, attività: più si usa la mente, più migliora le sue prestazioni, a qualsiasi età. Un cervello sollecitato produce nuovi neuroni e connessioni; inoltre, per prendersi cura dell’intelligenza servono una dieta sana (un’alimentazione ricca di antiossidanti pare aumentare le capacità di apprendimento e l’attenzione spaziale, ndr ) e l’esercizio fisico, che migliora la circolazione cerebrale favorendo la cognitività e opponendosi al calo di volume del cervello a cui si assiste durante l’invecchiamento».
Oltre all’allenamento generico, poi, servirebbe una stimolazione specifica: Howard Gardner, il teorico delle intelligenze multiple, spiega che sfruttare l’intelligenza prevalente in ciascuno di noi, aiuta a migliorare anche le altre. Se per esempio un ragazzino ha una spiccata intelligenza musicale, svilupparla e veicolare con l’aiuto delle note anche le altre conoscenze potrebbe migliorare non poco la sua performance.
«Negli Stati Uniti esistono programmi didattici tagliati su misura per i diversi tipi di intelligenza, in Italia la scuola non è sensibile a questo tema — ammette la psicologa —. Da noi l’obiettivo è trasmettere nozioni e considerare gli alunni uguali: tutti devono arrivare a un traguardo prestabilito e non c’è interesse a scoprire le peculiarità di ciascuno. La scuola va a nozze coi ragazzini con un alto QI e spiccate doti logiche, ma non è capace di insegnare a questi studenti l’intelligenza nelle relazioni sociali. Capire che tipo di intelligenza ha un bimbo, significa individuare il suo talento, la sua chiave per il successo; se non riesce ad arrivare a tanto, la scuola dovrebbe almeno stimolare le capacità critiche, che sono alla base della creatività. Questa sì predice il successo sul lavoro e nella vita, non il QI».

Corriere La Lettura 11.2.18
La curatrice del museo di Manchester
Queste opere vi scandalizzano?
Il problema, spiega lo psicologo, è che sono saltati i confini: non c’è più differenza tra la Venere di Milo e una modella seminuda
di Roberta Scorranese


Ila e le ninfe, dipinto del preraffaellita John William Waterhouse del 1896, coglie un momento ipnotico: l’attimo che precede la fine, conseguenza di una seduzione fatale. Il ragazzo, circondato da ninfe pubescenti, sta per affogare nell’estasi e nell’acqua in una dolce perdizione (ricca di cultura classica) alle pareti della Manchester Art Gallery. A gennaio però la curatrice della galleria, Clare Gannaway, ha fatto rimuovere temporaneamente il dipinto, che è stato da poco rimesso al suo posto. Spiegando che oggi la rappresentazione di ragazze discinte richiede una riflessione: è giusto proporre ancora questa immagine della donna?
Al posto del quadro, uno spazio destinato ai post-it del pubblico con commenti — si va dal «Rimettetelo a posto!» al «Perché non ne avete rimossi altri?». Ora, nei Preraffaelliti la donna è quasi sempre fatale, un po’ ninfa e un po’ dimonia : che si fa, si chiedono i critici, li rimuoviamo tutti? E giacché ci siamo, ironizza il «Guardian», perché non censuriamo anche Picasso? Già fatto: tre anni fa la Fox mandò in onda una riproduzione di Les Femmes d’Alger oscurandone i seni. E potremmo arrivare fino a noi, in Italia, magari blindando le pitture erotiche di Pompei. O coprendo le statue delle dee nei Musei Capitolini di Roma... Alt, già fatto anche questo: due anni fa in occasione della visita del presidente iraniano Rouhani. Così come è notizia del novembre scorso la raccolta di firme (quasi 12 mila) per invitare il Metropolitan di New York a mandare in soffitta Thérèse Dreaming , la bambina sognante (e scosciata) di Balthus. Ma da dove nasce questo apparente neo-bigottismo, filiazione inattesa di un tempo dominato dal desiderio come motore del mercato, dei consumi, dei sentimenti? E perché statue e dipinti sono capaci di scandalizzarci dopo secoli di onorata immortalità?
Paolo Legrenzi, docente di psicologia cognitiva nell’università Ca’ Foscari di Venezia e autore di Regole e caso (un volume su Pollock per Il Mulino), è molto preciso: «Perché sono saltati i confini: una volta l’opera d’arte la si ammirava nei musei o con calma in qualche casa privata. Era circoscritta in uno spazio preciso che le conferiva un’aura sacrale e pertanto le nudità erano, appunto, artistiche . Significavano eredità classica e valori neoplatonici altissimi. Oggi, in tv o su uno smartphone, riserviamo all’immagine della Venere di Milo la stessa attenzione che, pochi secondi dopo, dedichiamo a una foto di una modella seminuda». Magari mettendo a entrambe un like o il medesimo commento. In sintesi, arte e cronaca sono finite sullo stesso piano.
E così i seni di una dea greca diventano un paio di seni nudi e basta, così come i corpi delle ninfe di Waterhouse perdono ogni senso storico e letterario (dietro c’è l’intera sensibilità dell’epoca vittoriana) e sono quelli di semplici ragazze tentatrici assimilabili alla polemica del movimento «Me Too». Ecco perché molti social network censurano opere d’arte in modo indiscriminato: dipinti come L’origine du monde di Courbet si trasformano in bersaglio delle segnalazioni degli utenti che non ne colgono più il valore, ma ne vedono solo la componente anatomica. «Resta la mera biologia: in fondo il metro con il quale oggi valutiamo tutto», dice lo psicologo. Uno degli artisti più geniali, Maurizio Cattelan, l’ha capito: il suo dito medio esposto a Milano è la decontestualizzazione provocatoria della mano di Costantino, parte della statua colossale dei Musei Capitolini di Roma.
Ma nell’arte che scandalizza c’è qualcosa d’altro. Per esempio, molti casi clamorosi di censura sono avvenuti a distanza di secoli. Alla coppia Adamo ed Eva di Masaccio (affresco nella cappella Brancacci di Santa Maria del Carmine, a Firenze) le foglie di fico coprenti vennero aggiunte a metà del Seicento, con oltre 200 anni di ritardo. Mentre i panneggi, francamente ridicoli, messi a foderare la bellissima e cinquecentesca Venere del Ghirlandaio arriveranno nell’Ottocento. Insomma, spesso nell’arte la censura compare o in epoca di Controriforma (dopo il Concilio di Trento) o in tempo di predominanza piccolo borghese. I mutandoni sulle nudità di Michelangelo nella Cappella Sistina non sono che un esempio di pruderie post conciliare. E pensare che è proprio nel nudo artistico che risiede parte del «cuore» della cultura occidentale: basta guardare piazza della Signoria a Firenze, dove ci sono quasi solo statue nude e tutte dall’alto valore politico, a partire dalla copia del michelangiolesco David, emblema della vittoria contro la tirannia.
«È assurdo coprire le statue di nudo: la nostra sensibilità moderna nasce lì, dall’intuizione, anche leonardesca, che l’uomo è al centro di tutto, che è un microcosmo bastante a sé stesso senza sovrastrutture», commenta lo storico dell’arte Carlo Falciani, studioso del Cinquecento. Curatore, assieme ad Antonio Natali, di una mostra appena conclusa a Palazzo Strozzi sull’arte della Controriforma, Falciani trova un parallelismo tra i «mutandoni» che venivano aggiunti a fine Cinquecento e le censure di oggi: «A quel tempo, poco alla volta, la facoltà di giudizio passò da una ristretta élite di intendenti a una massa più allargata — spiega —. Così molte opere vennero giudicate impudiche dall’oggi al domani. Oggi avviene una cosa simile: il giudizio dei più, veicolato dalla rete, porta a reazioni di pudore offeso».
E può succedere allora che uno stesso dipinto venga censurato sia alla sua prima apparizione che cento anni dopo. È accaduto a Nudo sdraiato di Modigliani: esposto nel 1918 alla galleria Berthe Weill di Parigi, dovette essere ritirato per le accuse di oscenità. Ma quando, tre anni fa, i media ne mostrarono la riproduzione (in quanto il dipinto venne venduto all’asta al prezzo record di 170 milioni di dollari), Bloomberg ritenne opportuno sfumarne i seni e il «Financial Times» addirittura ci appiccicò sopra due fascette nere. Una delle dimostrazioni che lo scandalo non risiede nell’opera, ma negli occhi di chi la osserva. E nel tempo che la ospita.
Un po’ quello che avvenne alla Venere Rokeby di Diego Velázquez, uno dei pochissimi — insieme alla Maja Desnuda di Francisco Goya — dipinti spagnoli rimasti con una nudità a tal punto evidente: sopravvissuto a un cattolicesimo così intransigente da bruciare migliaia di opere d’arte giudicate oscene, finì alla National Gallery di Londra nei primi del Novecento. Nel 1914 la suffragetta Mary Richardson s’avventò con una lama sulla Venere nuda e le sfregiò la schiena: lo fece per protestare contro una certa immagine lasciva della donna, mentre poche ore prima era stata arrestata l’attivista britannica Emmeline Pankhurst. In confronto, alla Maja di Goya andò meglio: scampata all’Inquisizione, non venne esposta fino ai primi del secolo scorso e oggi si trova al Prado.
C’è poi una reazione offesa che non nasce dal mero nudo, ma dalla rappresentazione dell’imperfezione o della malattia. Nel 1972 lo scandalo esplose alla Biennale di Venezia, quando Gino De Dominicis fece sedere un giovane affetto dalla sindrome di Down in una stanza. Secoli prima, nel 1553, il Bronzino aveva dipinto un nano, Braccio di Bartolo, detto Morgante, nudo e con simboli sconci (l’uccello, un bastone in mano). Nell’Ottocento il ritratto del nano, considerato sconveniente, venne trasformato in un innocuo (e stavolta davvero ridicolo) Bacco. Eppure anche questa rappresentazione della materia non idealizzata è parte della nostra cultura. Come lo è la ricerca del «vero» di Caravaggio, che per la Morte della Vergine volle come modella una prostituta annegata. Scandalo enorme, ma oggi questa «verità caravaggesca» trova la rivincita nei numeri da record nelle mostre, come quella appena conclusa a Milano.
Eppure, l’oscenità oggi più bizzarra resta quella che nei secoli ha censurato una certa rappresentazione del reale. A cominciare da Le déjeuner sur l’herbe di Manet, del 1863: non offendeva tanto la signora nuda in primo piano, quanto il fatto che fosse una donna reale e molto riconoscibile (specie dai mariti delle parigine dell’epoca!). E ancora oggi c’è chi storce il naso ricordando quando Tracey Emin presentò a metà anni Novanta l’installazione Everyone I Have Ever Slept With 1963–1995 (una tenda dove l’artista scrisse i nomi di tutti quelli con cui aveva dormito almeno una volta). Un pudore che pare surreale nel tempo della vita privata che non c’è più.
Che sia nostalgia di qualcosa perso per sempre?

Corriere La Lettura 11.2.18
Il prof ritratto da Munch: l’inno alla vita di un suicida
Ora quel dipinto fa parte dei tesori del Van Gogh Museumdi Amsterdam, e racconta il dramma del Novecento
di Annachiara Sacchi


L’uomo guarda dritto verso il pittore, gli occhi sorridono, nei salotti tedeschi la sua ironia è nota, come la preparazione accademica, la passione per la musica. Stringe tra le dita un sigaro, sembra compiaciuto, sicuro di sé, rilassato. Del resto davanti non c’è un estraneo, i due si conoscono, li ha presentati (dicono gli studiosi) il poeta Richard Dehmel, o il critico d’arte Julius Meier-Graefe, o forse Henry van de Velde, maestro dello Jugendstil . Basta una sessione di posa per il ritratto: protagonista e artista sono subito soddisfatti del risultato. Uno è Felix Auerbach (1856-1933), fisico, intellettuale, docente all’università di Jena, esponente dell’élite culturale tedesca. L’altro, l’autore del quadro, è Edvard Munch (1863-1944). Quella tela, datata 1906 e firmata dal suo autore — nell’angolo inferiore destro — è da poco entrata nella collezione del Van Gogh Museum di Amsterdam.
Sfondo rosso fiammante per il ritratto di un uomo speciale: nato a Breslavia, figlio del fisico Leopold Auerbach e della talentuosa Arabella Hess, Felix è il maggiore di sei fratelli. Studia a Breslavia, poi a Heidelberg e a Berlino; dal 1889 è professore di Fisica a Jena (la sua non è propriamente una cattedra, Auerbach è ebreo, dovrà aspettare il 1923 per ottenerla in via ufficiale). Ed è proprio nella città della Turingia che Felix, istrionico, carismatico, studioso di magnetismo e idrodinamica, raffinato musicologo sposato con l’altrettanto seducente Anna Silbergleit, battagliera sostenitrice dei diritti e del voto delle donne, dà vita a un simposio culturale.
Ricchi, colti, mondani, impegnati. Gli Auerbach sostengono la scena artistica e musicale di Jena; a casa loro si fermano romanzieri, compositori, personaggi come il pittore espressionista Erich Kuithan, il drammaturgo Reinhard Sorge, il filosofo Eberhard Grisebach, il compositore Max Bruch. Nel 1905, durante una visita al Nietzsche-Archiv di Weimar, la coppia rimane colpita dal ritratto del pensatore cui Munch sta lavorando, Felix chiede al norvegese qualcosa di simile, lo invita a Jena, gli commissiona un nuovo dipinto (lo pagherà 500 marchi, più o meno 8 mila euro di oggi; altro paragone: nel 1909 servivano 3.950 marchi per acquistare la Opel a 4 cilindri). E il risultato è questo capolavoro di rara potenza che fino allo scorso anno apparteneva a una collezione privata. Ora è accessibile a tutti.
Il quadro è stato acquistato dal Van Gogh Museum (con il sostegno di varie istituzioni, fondi e benefattori) «per una cifra non svelata». I visitatori hanno potuto ammirarlo per la prima volta il 23 gennaio scorso, a 74 anni dalla morte di Munch. «Poter arricchire la nostra collezione con questo dipinto in cui le affinità con van Gogh sono così evidenti è il coronamento di un sogno», ha affermato il direttore del museo Axel Rüger, che ha fatto sistemare il r itratto di Auerbach, con la sua cornice originaria — se non scelta da Munch, quantomeno approvata —, accanto allo Zuavo (1888) di Vincent van Gogh, volendo sottolineare le numerose somiglianze artistiche (a partire dall’uso del colore) e personali (le esistenze travagliate e segnate dalla malattia) tra i due geni coevi che quasi sicuramente non si incontrarono e ai quali il museo olandese ha dedicato nel 2015 la grande retrospettiva Munch: Van Gogh.
Torniamo a Jena. Edvard invia numerose lettere ad Auerbach. Le sue parole esprimono gratitudine per «le intense giornate insieme donatemi da lei e sua moglie», per l’amicizia, per i 500 marchi ricevuti. L’artista aggiorna Anna sulla sua salute, la invita a visitare il suo studio. Dalla Sassonia scrive al professore chiedendogli in prestito il ritratto (realizzato nel febbraio del 1906) per esporlo alla famosa Galleria Cassirer di Berlino, «un mese soltanto». Permesso accordato. Molto probabilmente, invece, i coniugi rifiutano un’altra richiesta del pittore: quella di ridipingere la mano di Felix (l’opera tra l’altro ricorda un altro lavoro di Munch, l’ Autoritratto con la sigaretta del 1895, conservato al Nasjonalmuseet di Oslo).
Il mecenate e il pittore. Auerbach continua a lavorare in università, i suoi studi sulle dimensioni delle città e la loro concentrazione sono molto apprezzati, nel 1924 Walter Gropius progetta e costruisce la sua villa. Haus Auerbach sulla Schaefferstrasse di Jena (tuttora esistente e restaurata negli anni Novanta) colpisce subito per la sua modernità. Attira non poche critiche: all’esterno sembra formata da due cubi incastrati uno nell’altro, all’interno i muri sono dipinti con 37 tinte pastello scelte dall’architetto Alfred Arndt. Qui fanno tappa Paul Klee e Wassily Kandinsky (i due artisti sembrano apprezzare le spiegazioni del «professore» a proposito della Teoria della Relatività); qui si incontrano gli innovatori del Bauhaus; qui gli Auerbach vivono gli ultimi anni della loro vita. Intensamente, come sempre.
Eppure non sono tempi lieti. L’ascesa di Hitler e il crescente antisemitismo diventano ogni giorno meno sostenibili per Anna e Felix (che nel frattempo ha avuto due infarti). Il 26 febbraio 1933 i coniugi Auerbach, che non hanno avuto figli, si suicidano. Il professore emerito lascia un biglietto, dice così: «Lasciamo la vita terrena pieni di gioia, dopo quasi cinquant’anni di beata convivenza». I suoi occhi continuano a sorridere sulla tela di Munch.

Corriere La Lettura 11.2.18
1628-2018. Uno storico militare della Oxford University rievoca il conflitto che esplose quattrocento anni fa fra gli Asburgo e i loro rivali
La Germania sembra la Siria. È la guerra dei Trent’anni
La distinzione moderna tra fede e politica non ci aiuta a capire i fatti
È molto più utile guardare al discrimine tra oltranzisti e mdoerati
Morirono quasi cinque milioni di persone di cui mezzo milione sui campi di battaglia
di Peter H. Wilson


Oggi la guerra dei Trent’anni, di cui ricorre in maggio il quattrocentesimo anniversario, viene ricordata come l’ultima e la peggiore tra le «guerre di religione» europee, originate dallo scisma permanente che seguì la Riforma protestante. I tedeschi la considerano un disastro su scala nazionale che lasciò la loro terra, un tempo fiorente, devastata e politicamente divisa. Per i cechi la guerra condannò il loro Paese a tre secoli di dominio «straniero» da parte dei tedeschi. Molti storici anglofoni ritengono che il nocciolo della questione fosse lo sforzo della Francia e di altre nazioni per impedire alla Spagna cattolica degli Asburgo di dominare l’Europa. Quasi tutti credono che la guerra sia stata condotta da bande di mercenari senza patria che combattevano solo per il saccheggio e che si sia innescata una spirale di violenza fuori controllo fino a quando nel 1648, esausti, i contendenti stipularono una pace nelle due città della Westfalia, Münster e Osnabrück.
In realtà tutte queste supposizioni comunemente diffuse sono false o perlomeno fuorvianti. Non stiamo parlando di una questione puramente accademica. In tutto l’Occidente liberale e democratico c’è la convinzione che molti dei problemi attuali derivino dal risorgere del fondamentalismo religioso, islamico in particolare. Tanti sostengono che il mondo islamico sia rimasto bloccato nella premodernità e non abbia raggiunto il suo «momento westfaliano», cioè non sia riuscito a separare la religione dalla politica e ad abbracciare un ordine mondiale moderno basato su Stati sovrani, laici e nazionali. Nel 2016 il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha proposto che la pace di Westfalia sia usata come traccia per risolvere le guerre in Medio Oriente.
Un simile sforzo potrebbe avere maggiore successo se la guerra dei Trent’anni fosse capita meglio. Perché ciò accada dobbiamo accettare che le sue cause e i modi in cui fu condotta e conclusa furono assai complessi. La maggior parte dei luoghi comuni su questa guerra nasce da un comprensibile desiderio di facilitarne la lettura, di usarne la storia per creare mitologie nazionali o per legittimare affermazioni politiche. La vicenda della guerra dei Trent’anni fornisce un utile avvertimento a chi, per qualsiasi motivo, cerca di semplificare eccessivamente i problemi attuali o non tiene in debito conto gli scopi e le esperienze delle persone che non apprezza o che considera di scarsa importanza dal punto di vista politico.
Come molti Stati islamici nell’ultimo decennio, il Sacro Romano Impero intorno al 1600 era una struttura politica relativamente debole, colpita da conflitti tra le fazioni all’interno dei suoi organi direttivi e da pesanti attacchi da parte di tutti i gruppi sociali ai tentativi di renderne stabile l’autorità legale, religiosa, economica e politica. Nessuna delle parti in competizione era abbastanza forte da far valere la propria volontà sulle altre. Tutti si appellavano all’aiuto di sostenitori esterni. Una volta innescato, nel 1618, il conflitto fu costantemente riacceso da interventi finanziari, militari e diplomatici stranieri. E, come nel Medio Oriente di oggi, le potenze che intervenivano nella guerra dei Trent’anni si trovarono presto impantanate in una complessa lotta tra più attori che non erano in grado di controllare.
Elemento ancora più importante, la guerra che travolse l’Impero dopo il 1618 non fu del tutto legata alla religione. Secondo la vulgata corrente, fu la conseguenza inevitabile della pace di Augusta del 1555, viziata all’origine, che garantiva uguali diritti legali e politici ai governanti dei numerosi principati, contee e città che formavano l’Impero, indipendentemente dal fatto che avessero adottato il luteranesimo o che fossero rimasti cattolici. Secondo la stessa vulgata, dal 1608 i disaccordi si fecero così aspri che protestanti e cattolici a malapena riuscivano a mantenere aperto il dialogo. Quando i protestanti formarono l’Unione evangelica, i cattolici risposero, un anno dopo, nel 1609, con la creazione della Lega cattolica. Da quel momento l’Impero fu pronto per la guerra, la cui miccia fu accesa quando un gruppo di nobili protestanti gettò tre funzionari cattolici asburgici da una finestra — la famosa Defenestrazione di Praga — il 23 maggio 1618. Ci vollero quasi due decenni perché il fuoco delle passioni religiose si esaurisse. L’intervento della Francia cattolica a sostegno della Svezia protestante nel 1635 di solito viene interpretato come uno spostamento verso una più riconoscibile politica di potenza laica e moderna, che aprì la strada alla pace di Westfalia e, si suppone, alla separazione della religione dalla sfera politica.
Tutto ciò si basa su una proiezione anacronistica della distinzione moderna tra religione e politica. Gli europei del XVII secolo, come molti popoli del Medio Oriente odierno, non facevano tale distinzione. Era l’intreccio di questioni religiose, politiche, personali e familiari a rendere i problemi dell’Impero così ingestibili. Anziché distinguere tra prospettiva «religiosa» e «laica», è più utile identificare gli oltranzisti e i moderati. Gli appartenenti a entrambi i gruppi erano comunque religiosi, nel senso che consideravano la fede fondamentale per la loro persona, per le loro azioni e per il modo in cui lo Stato e la società dovevano operare. Tutti credevano che esistesse una sola verità religiosa e volevano riunificare i cristiani secondo le proprie credenze. La differenza risiedeva nel modo in cui si proponevano di arrivare a questo obiettivo e nella misura in cui si sentivano vicini a raggiungere lo scopo.
Gli oltranzisti tendevano a sentirsi personalmente chiamati da Dio e consideravano la tolleranza verso altre fedi come una concessione ai servitori del diavolo. Erano pronti a giustificare la violenza e consideravano le difficoltà e gli ostacoli come banchi di prova per la saldezza della loro fede anziché segnali del fatto che le loro ambizioni erano irrealistiche e destinate alla sconfitta. Pochi tra i personaggi più potenti erano veri oltranzisti ma, sfortunatamente, quei pochi esercitarono un’influenza enorme sugli eventi. Uno era l’elettore Palatino Federico V che, accettando di diventare re di Boemia nel 1619, rese impossibile evitare che la crisi iniziale si diffondesse poi in tutta la Germania. Un altro era Gustavo Adolfo di Svezia, la cui invasione della Germania settentrionale, nel giugno del 1630, riaccese la guerra che altrimenti quasi di certo sarebbe finita, nel 1629, con il trionfo degli Asburgo sulla Danimarca. Nello schieramento opposto, Wilhelm Lamormaini, confessore gesuita dell’imperatore Ferdinando II d’Asburgo, spinse ripetutamente il suo signore a negare concessioni sufficienti ai nemici e quindi a sprecare le occasioni di pace.
In modo ancora più duraturo, gli oltranzisti hanno in gran parte determinato il modo in cui le generazioni successive hanno interpretato la guerra. Il loro punto di vista era predominante tra gli ecclesiastici che scrissero la maggior parte dei resoconti personali arrivati sino a noi. Gli oltranzisti producevano inoltre il grosso della propaganda e tendevano a vedere le cose in termini netti e semplici, cioè come una lotta tra il bene e il male.
I moderati erano la maggioranza, anche se spesso facevano sentire poco la loro voce. Rifiutavano l’idea della divina Provvidenza in quanto teologicamente infondata e temevano che un inutile spargimento di sangue sarebbe costato loro il favore divino, mettendo in pericolo sia le loro anime sia le loro ambizioni mortali. Erano scettici riguardo all’idea che i problemi altrui li riguardassero automaticamente solo perché coinvolgevano la religione. Soprattutto riconoscevano che la riunificazione della cristianità non poteva essere raggiunta tramite la violenza e che sarebbe stato meglio ottenere la pace con onore che non averne alcuna.
Queste considerazioni ci portano a un altro punto fondamentale che riecheggia negli eventi contemporanei. La guerra dei Trent’anni non fu una lotta di tutti contro tutti che a un certo punto degenerò. Fu spaventosa sin dall’inizio. Nel 1619 i sudditi di Ferdinando II accusarono i soldati dell’imperatore di aver «posto donne incinte sul fuoco fino a che gli uomini non vedevano i feti nei loro corpi, e così madre e figlio morivano insieme». Nondimeno rimase una guerra, nel senso che le operazioni militari erano subordinate a una direzione politica e venivano condotte con uno scopo. Nonostante l’iniziale rifiuto degli Asburgo di trattare con i boemi fino a quando non avessero deposto le armi — l’equivalente del XVII secolo all’attuale rifiuto di negoziare con i terroristi — per tutta la durata del conflitto ogni parte mantenne aperto il dialogo con le altre, direttamente o tramite intermediari. Lo scopo delle operazioni militari non era annientare i nemici o estirparne la fede, ma costringerli a giungere a patti più ragionevoli.
La violenza fu sconvolgente. A causa della guerra morirono circa 5 milioni di persone, tra cui circa mezzo milione sul campo di battaglia. La popolazione dell’Impero fu ridotta di un quinto e non tornò al livello prebellico per altri sessant’anni. Al culmine dello scontro, nel 1632, nell’Impero c’erano 250 mila soldati, e nel 1648 gli eserciti rivali riuscirono a riunirne ancora 180 mila. Dato che nel 1618 la popolazione dell’Impero ammontava solo a 23 milioni circa di persone, ciò rappresentava un onere gravoso. Parliamo di una società preindustriale, in cui non era possibile sostituire con le macchine la forza lavoro umana che andava perduta, e in cui anche negli anni migliori la produttività era bassa e la maggior parte delle persone viveva al di sotto dei livelli di sussistenza.
Indipendentemente dalla fede, tutti i governanti credevano che la guerra dovesse essere combattuta da soldati professionisti. Non vi fu una chiamata alla guerra santa. Di fronte all’imminente sconfitta del 1620, i capi boemi respinsero la proposta di armare i contadini e negoziarono invece con il sultano ottomano, nella speranza che potesse inviare loro truppe regolari. Il predicatore di corte di Federico V scoprì, e sfruttò, dei parallelismi tra il calvinismo e l’islam, così da far sembrare teologicamente valida questa politica poco ortodossa sul piano religioso. Non ebbe successo e i boemi furono schiacciati, in sole due ore, da un esercito imperiale alleato a quello della Lega cattolica nella Battaglia della Montagna Bianca, vicino a Praga, l’8 novembre 1620.
Tra le numerose giustificazioni che addusse per la sua sconfitta, il generale di Federico V si lamentò soprattutto perché il suo esercito non era stato pagato per mesi. Ciò ci conduce a un terzo aspetto cruciale per comprendere la guerra e la sua durata. E per approfondirlo dobbiamo considerare che si trattò di una doppia guerra civile: tra l’imperatore e la maggior parte della nobiltà delle terre degli Asburgo come la Boemia, da una parte; tra l’imperatore e i principi irrequieti del resto dell’Impero, dall’altra. In gioco c’erano, in ultima istanza, le anime immortali dei partecipanti ma, nell’immediato, i loro interessi politici e personali.
Fin dagli anni Settanta del XVI secolo i nobili protestanti sotto la sovranità degli Asburgo avevano sfruttato la debolezza della famiglia regnante per estorcere privilegi, incluso il diritto di imporre la religione riformata ai loro sudditi. Gli Asburgo avevano cominciato a riconquistare autorità riservando ai cattolici le nomine militari e di corte. Nel 1618 questa politica stava dando i suoi frutti, e diversi nobili di spicco si erano convertiti al cattolicesimo per dimostrare la loro lealtà e far avanzare la propria carriera. Molti dei principali istigatori della Defenestrazione avevano perso redditizi incarichi ufficiali e volevano perciò cercare di spingere la maggioranza moderata dei protestanti boemi ad abbandonare l’atteggiamento passivo e unirsi a loro nell’opposizione agli Asburgo.
Intanto in Germania la debolezza degli Asburgo aveva creato un vuoto politico che venne occupato dai due rami rivali, uno cattolico e l’altro protestante, della seconda famiglia dell’Impero, i Wittelsbach. L’Unione evangelica e la Lega cattolica erano, in realtà, strumenti per le ambizioni rispettivamente dei Wittelsbach del Palatinato (protestanti) e di quelli della Baviera (fedeli alla Chiesa di Roma). In palio c’erano molte terre ecclesiastiche che i cattolici sostenevano fossero state riservate loro dalla pace di Augusta del 1555 e che erano state a lungo appannaggio esclusivo delle famiglie principesche e aristocratiche dell’Impero, le quali le consideravano una comoda sistemazione per i figli più giovani e le figlie nubili. I cosiddetti «casi religiosi» che intasavano la corte suprema dell’Impero erano in verità controversie su chi dovesse esercitare la giurisdizione politica ed ecclesiastica associata a queste terre.
Come in ogni guerra civile, l’autorità centrale stessa era messa in discussione. Era impossibile aumentare la tassazione con mezzi normali, e le dimensioni degli eserciti superarono in fretta le capacità dei mantenerli attraverso le disponibilità finanziarie regolari. Ferdinando II prese di conseguenza la fatidica decisione di espropriare i ribelli boemi e austriaci dopo la battaglia della Montagna Bianca e distribuì le loro terre ai nobili che gli erano stati fedeli e agli ufficiali che non poteva pagare. La Baviera fu ricompensata con il Palatinato nel 1623, quando Federico V fu definitivamente sconfitto. Questa pratica si estese alla Germania settentrionale in seguito alla sconfitta della Danimarca e alla rapida crescita dell’esercito imperiale sotto il generale Albrecht von Wallenstein. La Svezia portò avanti una politica analoga dopo il 1631, distribuendo le terre della Chiesa cattolica conquistate con le armi ai principi tedeschi che la sostenevano con truppe aggiuntive.
Emerse una contraddizione fatale. Tutte le parti riconoscevano che la pace poteva essere assicurata solo attraverso concessioni, eppure non erano in grado di restituire le terre conquistate senza alienarsi i propri sostenitori, dei quali avevano bisogno per continuare a combattere. Intanto gli ufficiali, sapendo che presto avrebbero potuto perdere i loro nuovi possedimenti, li sfruttavano spietatamente, sia per guadagno personale sia per mantenere le truppe sotto il loro comando. Alla fine Francia e Svezia riuscirono a costringere un numero sufficiente di prìncipi sostenitori dell’imperatore a proclamarsi neutrali, minando la sua capacità di continuare il conflitto. Ciononostante, le forze asburgiche rimasero piuttosto potenti e spinsero la Francia e la Svezia ad abbandonare al loro destino gli esuli boemi e austriaci per concludere la pace nel 1648. Gli Asburgo nei loro territori ne emersero più forti poiché poterono fondare il loro potere su una stretta alleanza con le famiglie che avevano tratto beneficio dall’averli appoggiati durante la guerra. Se i problemi del Medio Oriente d’oggi possono davvero essere risolti pacificamente, è probabile che ciò avvenga attraverso un processo altrettanto difficile, costoso, complesso.
(traduzione di Matteo Battarra)

Corriere La Lettura 11.2.18
La guerra innovatrice di Odisseo e Diomede
La cultura classica vedeva nell’attività bellica un fenomeno dinamico dai due volti: l’eroismo e la razionalità
di Giovanni Brizzi


A cinquant’anni esatti dalla prima edizione (e a ben 54 dal convegno in Sorbona che ne aveva anticipato i temi…) esce in italiano la raccolta di saggi a cura di Jean-Pierre Vernant La guerra nella Grecia antica (Raffaello Cortina). Riparazione dovuta, se pur tardiva, verso un curatore e una raccolta che hanno coperto ogni fase cronologica (micenea ed omerica, arcaica, classica, ellenistica) e ogni aspetto (mitologia e politica, società, tecnica, diritto) del campo d’indagine prescelto; e che ne hanno affidato la trattazione ad alcuni tra i migliori studiosi, non solo francesi, di quell’epoca.
Tutto invecchia; ma gran parte dell’opera possiede ancora una straordinaria forza di pensiero, come sottolinea nella sua mirabile introduzione Umberto Curi, che arriva infine a rimpiangere funzioni e sostanziale innocenza della guerra antica. Già, perché Vernant — giovane e brillantissimo agrégé del 1937 divenuto poi il leggendario «colonel Berthier» a capo delle Ffi (Forze francesi dell’interno), la resistenza interna ai nazisti nel Sud Ovest della Francia, lo studioso sollecitato da Georges Dumézil a entrare nell’ École pratique des hautes études e qui salito alla testa di una sezione dedicata alle scienze religiose, il leader carismatico di una «scuola» che annoverava figure come Marcel Detienne e Pierre Vidal- Naquet — era altresì l’«eretico» irriducibile a ogni schema, il marxista capace, prima ancora di uscire dal Partito comunista francese, di criticare un’ideologia per lui «senza più alcuna relazione con l’economia e la politica odierne» e di liberarsi di qualunque assunto preconcetto, a cominciare da quel pacifismo di maniera che, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tanto aveva nuociuto alla corretta interpretazione della storia.
Della storia antica, in particolare: «La guerra era al centro della cultura classica… Nei mondi greco e romano — ha scritto lo storico Harry Sidebottom — quasi ogni cosa si possa leggere, ascoltare o guardare potrebbe evocare la guerra». E Vernant lo sapeva. « Pólemos è padre e re di tutte le cose», disse Eraclito; e il nostro autore ritiene che in Grecia sia la guerra la matrice di ogni mutamento; sicché, con siffatte premesse, «rovescia di fatto le modalità con le quali… è concepito il rapporto guerra-pace. È il primo termine del binomio, e non il secondo, a introdurci alla comprensione delle forme di organizzazione e funzionamento delle società antiche», osserva Curi.
La storia militare diviene così, per lui, ciò che dovrebbe essere sempre: un’insostituibile chiave di lettura. Governato da questa concezione, il volume offre una ricca serie di spunti, vitali ancor oggi, dei quali chi scrive è debitore di persona. Due temi, fra tanti.
Aprendo il fondamentale lavoro di quattro anni prima ( La fonction guerrière dans la Grèce ancienne ) che prelude al volume collettivo di cui stiamo parlando, Vernant non si limita a sottolineare come la forza della falange oplitica risieda nella coesione dei ranghi serrati; ricorda che «la città rimodella i valori antichi. Ciò che conta nella guerra è la padronanza di sé, il senso dell’azione collettiva». Tra l’eroismo individuale di Aristodemo, che a Platea contro i Persiani si slancia «come un forsennato fuori dallo schieramento», e il valore cosciente di Posidonio, il quale rimane al suo posto in nome dell’ eutaxía , della disciplina che fa degli opliti un mondo di uguali, gli Spartani scelgono senza esitare il secondo. Checché si voglia pensare del formalismo oplitico e del reale funzionamento della falange sul campo, l’idea di base è comunque feconda.
Recensendo mesi fa proprio su queste pagine il bel volume di Paola Angeli Bernardini Il soldato e l’atleta (il Mulino, 2016), mi sono chiesto per esempio se la fortuna degli agoni sportivi, che comincia a imporsi appieno nel momento in cui la guerra piega verso l’oplitismo, non sia una forma surrogata, da collegarsi alla svolta, sociale più ancora che tattica, e all’istituzione della pólis ; e se non sia per questo che il mondo greco finisce coll’ignorare nello sport ogni «gioco» di squadra, riservandone la pratica alla guerra e riconoscendo al gesto del singolo la gloria, certo prestigiosa in tutta l’Ellade, dei trionfi panellenici, ma limitandola di norma a quei Giochi che, durante il loro svolgersi, sospendono ogni conflitto.
Ricorda infine Vian, nel ricchissimo saggio su La funzione guerriera nella mitologia greca incluso in questo volume, come Esiodo ( Le opere e i giorni, 143-173) distingua due stirpi di combattenti — la Stirpe del Bronzo, cui «le gesta di Ares stavano a cuore, piene di pianto, e le opere della tracotanza»; e i «più giusti e migliori» — e due concezioni diverse della guerra, che si richiamano all’opposizione tra Ares e Atena. Atena, già Vian lo ricorda, prevale in Omero su Ares di cui pure ha amato uno dei discepoli: quel Tideo al quale, sotto le mura di Tebe, ha rinunciato a dare l’immortalità solo perché l’ha visto, ferito, divorare il cervello del nemico. Dopo di lui ne amerà il figlio, Diomede, da lei prediletto, suo assistente ad Argo e a Salamina Cipria. Ma c’è di più: ciò che Vian sembra non aver colto è il fatto che Diomede non è solo il beniamino della dea, ne diviene figura in certo qual modo complementare, sancendo una ricomposizione tra due opposte forme di guerra che è evidentemente affermata già in Omero. Non è Afrodite soltanto a esser ferita da Diomede, ma lo stesso Ares; sicché, accettando Vian, si potrebbe dire che il Tidìde ripudia così la sua stessa figura di riferimento. Il dio del ménos , della furia cieca, soccombe sul campo di fronte a un mortale che, in condizioni normali, avrebbe ben poco da opporgli; ma a guidarlo è Atena, che — come ha detto altrove proprio Vernant — «nell’Olimpo divino è l’intelligenza incarnata», figlia e simbolo di quella mêtis alla quale già nei poemi omerici viene assegnata una preminenza assoluta.
Altro mi pare dunque il modello: è la guerra razionale che modera quella istintiva. Un’ulteriore figura vi è infatti che, vicaria rispetto alla dea, in assenza di questa accompagna Diomede in tutte le sue gesta più brillanti, il polytropon (versatile), il polymêtis (ingegnoso) per eccellenza, che di Atena è la proiezione terrena, davvero «maggior corno», come ha intuito Dante (Inferno XXVI, v. 85), rispetto al compagno che protegge e guida: Odisseo.
Già nell’età di Omero, dunque, le due anime, di Ares e di Atena, sono riconciliate; e il combattente greco esibisce una natura duplice, vorrei dire «duale». Il riferimento non è Achille, il quale — è ancora Vernant che parla — riassume «tutte le contraddizioni dell’ideale eroico…», ma resta un «essere marginale» colpevole di hybris (superbia) perché chiuso «nell’altera solitudine del suo sdegno»; sono Odisseo e Diomede, doppia, indissolubile figura sinergica che incarna in archetipi eterni le due anime della guerra, eroismo e razionalità.

La Stampa 11.2.18
Torna visibile la Madonna di Giotto
danneggiata dalla bomba ai Georgofili


Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze espone, per la prima volta, la Madonna di San Giorgio alla Costa di Giotto (Nella foto un particolare) in prestito temporaneo dal Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte, da tempo chiuso al pubblico, e a 25 anni dall’attentato di via dei Georgofili a Firenze che l’aveva danneggiata e di cui sono ancora visibili le lesioni causate da una scheggia nella veste dell’angelo a sinistra. La presentazione del prestito è avvenuta ieri al Museo dell’Opera del Duomo alla presenza dell’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, del presidente dell’Opera di Santa Maria del Fiore, Luca Bagnoli, e del direttore del Museo, Timothy Verdon. Si tratta di uno dei dipinti più emblematici del rinnovamento assoluto del linguaggio artistico attuato da Giotto sul finire del XIII secolo. Ritenuta per lungo tempo perduta, dagli anni 1930 alcuni studiosi identificarono questa Madonna col Bambino con la tavola menzionata dal Ghiberti e dal Vasari come opera di Giotto per la chiesa di San Giorgio alla Costa.

Corriere 11.2.18
E Meloni twitta la foto sbagliata


La presidente di Fratel-li d’Italia Giorgia Meloni bacchetta il Pd di Orvieto per aver patrocinato un incontro che nega la verità delle foibe. Ma la foto ( sopra ) che posta non ritrae le vittime dei titini, ma sloveni fucilati da italiani nel 1942.