lunedì 12 febbraio 2018

ALCUNI SETTIMANALI

l’espresso 11.2.18
Disuguaglianze
Rabbia sociale guerra tra poveri fascismo
di Alessandro Gilioli


Ci sono molti modi di fare politica. Uno è quello di sgomitare per un posto in Parlamento, candidarsi in un listino bloccato e poi passare cinque anni schiacciando bottoni. Un altro è quello di fare ricerca su una questione sociale, fornire gli strumenti per affrontarla, quindi provare a influenzare l’opinione pubblica e il Palazzo affinché le proprie proposte vengano messe in pratica. Questa seconda strada - spesso indicata con il termine inglese “advocacy” - è quella scelta da otto diverse associazioni italiane per aggredire con lo studio e l’attivismo il grande Moloch contemporaneo, quello che sta mettendo a rischio le società e le democrazie in mezzo mondo: le disuguaglianze. O meglio l’eccesso di disuguaglianze, cioè l’allargamento estremo della forbice sociale, che oltre una certa soglia danneggia la crescita, destabilizza i sistemi e provoca reazioni autoritarie. È sulla base di queste considerazioni che è nato il Forum Disuguaglianze Diversità, una singolare alleanza di organizzazioni di diversa provenienza politica e culturale (si va dai laici di ActionAid ai cattolici della Caritas, dalla Fondazione Lelio Basso a Cittadinanzattiva, da Legambiente alla cooperativa sociale Dedalus) che si sono messe insieme per un progetto ambizioso: primo, lo studio delle disuguaglianze e dei loro effetti sulla collettività; secondo, l’elaborazione di proposte concrete per fare politiche di controtendenza; terzo, la sperimentazione di progetti per la riduzione del divario sociale, su base territoriale locale; quarto, le campagne mediatiche e l’attivismo per creare coinvolgimento sui temi e sulle proposte, rovesciando il pensiero unico che dura da trent’anni e che a questi eccessi ha portato. Il tutto per «disegnare politiche pubbliche e azioni collettive», ma anche per influenzare i partiti e i decisori, quindi la politica vera e propria, costringendola a uscire dalla sua bolla di proposte demagogiche e ad affrontare concretamente quella che è diventata la questione più drammatica del presente. Tra i promotori del Forum ci sono economisti e docenti universitari (da Andrea Brandolini a Maurizio Franzini, rabbia sociale guerra tra poveri fascismo da Vito Peragine a Elena Granaglia) insieme ad attivisti di associazioni e onlus, (come Giovanni Moro, figlio di Aldo ma soprattutto sociologo politico e presidente di Fondaca, Fondazione per la Cittadinanza attiva; o come Flavia Terribile di Asvis, Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile).
Cuore dell’iniziativa è la Fondazione Basso, che per statuto si occupa di dare concretezza all’articolo 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». E tra i principali attori del Forum c’è Fabrizio Barca, economista e già ministro della Coesione territoriale, sempre più lontano dal Pd e sempre più convinto che si possa fare politica in altro modo.
Il progetto nasce da un presupposto pragmatico e disincantato: il capitalismo ha in sé il germe delle disuguaglianze perché è fatto di competizione, ed è con la competizione che si crea quella dinamica virtuosa di aumento della ricchezza che è invece mancata nel socialismo reale. Non c’è quindi nulla di ideologico nell’approccio del Forum: l’ispirazione appare piuttosto quella pragmatica dell’economista inglese Anthony Atkinson, scomparso un anno fa, e particolare del suo ultimo libro, “Disuguaglianza. Che cosa si può fare?” (edito da Raffaello Cortina) nel quale vengono avanzate quindici proposte concrete per avviare un percorso di riduzione del divario sociale. Nel nome del Forum c’è poi la parola “diversità”, a indicare come «il perseguimento di una maggiore uguaglianza sociale non ha come obiettivo l’appiattimento delle persone», spiega Barca, «ma al contrario l’esaltazione della libertà di ciascuno di vivere come vuole, quando viene messo in condizione di farlo». Troppa iniquità, sostiene la Dichiarazione d’intenti del Forum, finisce per devastare le società, provocando tutte le reazioni tipiche dell’esclusione sociale: guerra tra poveri, nazionalismo e domanda di autoritarismo, cioè desiderio di un capo autocratico che “sistemi le cose”. Insomma, porta dritti al fascismo: «Una parte crescente della popolazione avverte una minaccia alle prospettive di reddito per sé e per i propri figli, tende a identificarne la causa in cambiamenti fuori dal nostro controllo, dalla tecnologia all’immigrazione e volge contro di essi il proprio risentimento: da questo insieme di paure deriva una dinamica autoritaria», si legge nella Dichiarazione. «Ed è a questi rancorosi, a questi “cattivi” che vogliamo parlare», dice Andrea Mormiroli di Dedalus. Non c’è soltanto un alato etico alla base del progetto Forum, ma soprattutto considerazioni pratiche che alla fine riguardano la vita di tutti, anche di quelli che non sono stati (ancora?) ingoiati dal gorgo di impoverimento e rabbia creato dal turbocapitalismo e dalla sua crisi.
Del resto, il rapporto tra eccesso di disuguaglianze e qualità della vita di tutti è stato dimostrato da tempo e ha trovato già all’inizio di questo decennio la sua sintesi in un saggio di Richard Wilkinson e Kate Pickett, “La misura dell’anima” (Feltrinelli) dove si dimostra - sulla base di dati e ricerche - come il maggiore divario tra redditi sia connesso con la maggiore diffusione di malattie, criminalità e droghe, oltre che con il peggioramento della salute fisica dei cittadini. Diverse sono le forme di disuguaglianza nel mirino del Forum: quella economica, naturalmente, cioè di reddito e di ricchezza; ma anche quella sociale, cioè il diverso accesso a servizi pubblici come sanità, scuola, mobilità e ambiente; fino alle “disuguaglianze di riconoscimento” (cioè il disprezzo verso i perdenti o verso chi sta appena un gradino più giù) e alle “disuguaglianze di partecipazione” nelle decisioni sulla cosa pubblica. I dati da cui muove i suoi primi passi il Forum partono comunque dalla tendenza economica degli ultimi decenni e sono semplici, eclatanti, come quelli dei grafici di queste pagine. A cui si aggiungono altre evidenze: come il fatto che il 10 per cento di italiani più poveri nel 2014 ha avuto a disposizione un reddito inferiore di un quarto rispetto al 2008, quindi la loro condizione è ulteriormente peggiorata - e non di poco - in soli sei anni. Ma il proposito del Forum è di andare anche oltre, approfondendo la ricerca sul gap (di redditi, di patrimonio, di accesso etc) tra i centri delle città e le periferie, tra le metropoli e la provincia, tra le aree urbane e le zone rurali.
Il tutto da affrontare sempre con la formula “ricerca-azione”, cioè evitando di restare uno sterile think tank e promuovendo invece attivismo, impegno, iniziative. E questo sia su istanze specifiche, verticali o locali, sia per arrivare a un’inversione delle politiche pubbliche a livello nazionale. I promotori del Forum combattono l’idea diffusa secondo la quale la forbice sociale sempre più larga è ineluttabile, causata cioè da fattori “fuori controllo”. Questo, dicono, è solo un alibi per la politica che ha rinunciato al suo ruolo regolatore, alla governance dei cambiamenti tecnologici ed economici. Per smuovere i decisori del Palazzo, bisogna «migliorare la base informativa, realizzare ricerca originale, diffondere pratiche efficaci di azione e formulare proposte concrete attorno alle quali costruire consenso». Perché non si può affrontare il Moloch delle iniquità se prima non si cambia il “sentiment” diffuso, la convinzione che contro l’eccesso di disuguaglianze non si possa far niente e comunque i propri problemi derivino da altro: immigrati, zingari, stranieri in genere, Europa eccetera. Per arrivare alla battaglia politica serve insomma un rovesciamento di egemonia culturale. Ed è questo a cui punta il Forum. Un’impresa ciclopica, in un Paese dove in dai tempi della peste a Milano «il buon senso c’è ma se ne sta nascosto per paura del senso comune». Ed è quindi sul senso comune che occorre lavorare, perché si avvicini un po’ di più al buon senso. Il Forum verrà presentato venerdì 16 febbraio alle 11, alla Fondazione Basso, a Roma. Lo stesso giorno sarà on line il sito, www.forumdisuguaglianzediversita.org.

l’espresso 11.2.18
Maledetta Terza via
Il blairismo ha fallito. E ora resta la rabbia. Parla il filosofo che ispirò il dopo-Pci
colloquio con Salvatore Veca di Francesco Postorino


Nell’epoca dominata dalle agende populiste, dal problema del multiculturalismo e dalla psicopolitica, la terza via dei Giddens, Blair, Prodi e Veltroni non ha retto la sfida del nuovo millennio, finendo per assecondare involontariamente la rivoluzione neoliberale avviata verso la fine degli anni Settanta. Salvatore Veca prende le distanze dalla Third Way. Il filosofo che insieme a Michele Salvati propose al Pci il cambiamento del nome in Pds e più tardi sostenne la nascita del Pd con occhio vigile e «migliorista», è oggi del parere che l’esperienza ventennale del New Labour abbia tradito il fine della sinistra, cioè l’idea della giustizia come equità. Occorre ripartire dai principi.
Cos’è una società giusta?
«Una società le cui istituzioni, norme e pratiche siano giustificabili in modo equo e imparziale nei confronti di tutti. Nel caso delle forme di vita democratiche, più o meno brillanti, il principio di giustificazione chiama in causa la dimensione della cittadinanza, ove ciascuna persona ha uguale dignità, come ci ha insegnato il compianto Stefano Rodotà e come ci suggeriscono i fondamentali costituzionali».
Come si risponde alle circostanze dell’ingiustizia?
«Premetto che il fatto dell’ingiustizia consiste nell’impiego di uomini e donne come mezzi e non come fini. A tal proposito, ritengo che una buona risposta filosofica e politica sia rinvenibile nella prospettiva della giustizia sociale come equità, inaugurata dal classico lavoro di John Rawls. La giustizia sociale come equità si basa sulla priorità dell’uguale sistema delle libertà fondamentali di cittadinanza e sul principio distributivo di differenza.
Quest’ultimo ci dice che le sole disuguaglianze giustificabili in termini di accesso o di titolo sui beni sociali primari sono quelle che vanno a vantaggio di chi è più svantaggiato».
Nella realtà non è proprio così.
«Mi rendo conto che la distanza fra la teoria della giustizia come equità e il contesto empirico può sembrare abissale. Ma ciò non riduce l’importanza dei fini di giustizia sociale che la teoria ci indica. Al contrario, offre ragioni e motivazioni per ridurre, nelle scelte pubbliche e nell’azione collettiva, la distanza intollerabile. Devo aggiungere che la giustizia come equità, cui sono da lungo tempo affezionato, è solo una fra le concezioni di giustizia che rendono conto del senso dell’espressione “società giusta”».
Per Rawls, infatti, uno è il concetto di giustizia, ma diverse le sue interpretazioni.
«Sì. Basta pensare al programma dell’utilitarismo vecchio e nuovo, contro cui Rawls ha costruito la sua prospettiva, o ancora alla famiglia delle teorie del comunitarismo e, soprattutto, alle teorie libertarie della giustizia le quali hanno dominato il campo delle idee e delle credenze negli ultimi decenni. Dopo la lunga fase di egemonia della “giustizia neoliberista” torna al centro della controversia filosofica, civile e politica l’idea alternativa di giustizia, quella imperniata sull’equa distribuzione di costi e benefici».
Un suo motto è “non possiamo non dirci cosmopolitici”.  Come tradurlo sul piano politico in un Paese e in un’Europa che sembrano andare in senso contrario ?
«La mia è una convinzione etica che chiede ed è in cerca di politica. Piaccia o meno, non possiamo non guardare al mondo interconnesso e conteso, che condividiamo con alcuni miliardi di coinquilini del pianeta, se non con “gli occhi del resto dell’umanità”. L’obiettivo irrinunciabile e difficilissimo resta quello della giustizia globale. Un’idea di equità senza frontiere».
Per molti è un’utopia.
«Lo so bene. Vorrei ricordare che il grande Max Weber ci ha insegnato, ai tempi della barbarie europea della prima guerra mondiale, che è perfettamente esatto, e confermato dalla storia, che se non si tentasse sempre di nuovo l’impossibile, non si conseguirebbe mai il possibile. Quindi, con Albert Camus e Che Guevara possiamo evocare la classica massima per la condotta: siamo realisti, chiediamo l’impossibile».
Parafrasando il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, siamo immersi nell’impazzito “capitalismo dei like”. Il virtuale avanza spedito e a farne le spese sono le narrazioni di lungo respiro. Come si può riscrivere la trama della giustizia nell’era dei social network?
«L’agorà informatica è ricca di bellezza e di orrore. La libertà di accesso è in tensione con il potere di controllo sulle nostre menti e sulle nostre biografie. Non credo che le narrazioni di “lungo respiro”, come dice lei, siano rese vane o fatue dai social network. Penso piuttosto che l’enorme asimmetria fra i poteri sociali, fra cui quelli della finanza e della comunicazione, e i poteri politici (e quelli dello spazio pubblico di cittadinanza), generi un effetto che ho definito: “la dittatura del presente”».
Ci spieghi.
«L’ossessione sul breve termine contrae e riduce l’ombra del futuro sul presente. Al tempo stesso, la dittatura del presente erode il senso del passato come repertorio o archivio di possibilità alternative. Senza passato e senza futuro, i varchi per le visioni di lungo termine si fanno sempre più stretti. I varchi della speranza politica e civile come le piccole porte da cui poteva entrare il Messia di cui parlava Walter Benjamin. La rete è ineludibile. Nella tensione fra libertà e potere teniamo d’occhio i varchi e le piccole porte in giro per il mondo e diamoci da fare per scrivere e delineare insieme modi di convivenza più decenti. Dal Siam alla California, come concludeva nel diciottesimo secolo la sua preghiera laica Voltaire, nello straordinario “Trattato sulla tolleranza”».
Il modello New Labour di Blair e Giddens continua a suscitare ammirazione in alcuni ambienti riformisti. Tuttavia, sono in molti ad annunciarne il fallimento ideologico e politico. In che stato di salute versa la Third Way?
«I sostenitori della Third Way hanno preso le mosse dalla ragionevole considerazione che il paesaggio sociale, nella costellazione nazionale e postnazionale, subiva mutamenti a volte drastici e improvvisi, a volte lenti e sotto pelle. Di qui, l’esigenza in un mondo mutato di mettere mano a un paniere di mezzi e di politiche innovative, ma leali ai fini ereditati dalle tradizioni plurali dei movimenti e dei partiti socialisti o laburisti o socialdemocratici».
Qualcosa è andato storto.
«Il paradosso consiste nel fatto che, passo dopo passo, i mezzi si sono mangiati i fini. E mentre i processi di globalizzazione avanzavano con luci e ombre, le culture e le politiche della sinistra nei regimi democratici europei (senza considerare l’esperienza dell’amministrazione Clinton) finivano per disperdere e dissipare i loro fini specifici e distintivi, generando sfiducia e apatia o rabbia e indignazione in ampie frazioni di popolazione. Alla fine, “de nobis fabula narratur”».
L’impressione è che i protagonisti della cultura liberal non vogliano tener fede all’imperativo del “tu devi”, trascurando così quel manuale progressista fondato sul bisogno di correggere la realtà in una direzione egualitaria.
«Una seria prospettiva progressista deve porre al primo posto il fine della giustizia sociale come equità. Justice, first. Per l’uguale dignità di chiunque, ovunque gli o le sia accaduto di avere una vita da vivere sull’unico pianeta di cui sinora almeno disponiamo, come ci ha ricordato Stephen Hawking dalla cattedra che fu di Newton».
Intanto la forbice sociale continua ad allargarsi.
«A fronte delle ineguaglianze crescenti e intollerabili che affollano il pianeta, proprio Hawking ha sostenuto: “Possediamo la tecnologia per distruggere il pianeta su cui viviamo, ma non abbiamo ancora sviluppato la tecnologia per sfuggire da questo pianeta. In questo momento condividiamo un solo pianeta, e dobbiamo lavorare insieme per proteggerlo. Per farlo è necessario abbattere le barriere interne ed esterne alle nazioni, non costruirle. Se vogliamo avere una possibilità di riuscirci, è necessario che i leader mondiali riconoscano che hanno fallito e che stanno tradendo le aspettative della maggior parte delle persone. Con le risorse concentrate nelle mani di pochi, dovremo imparare a condividere molto più di quanto facciamo adesso”»

l’espresso 11.2.18
Voci dal palazzo
di Susanna Turco
La parità può attendere


L’alternanza uomo-donna nelle liste c’è, la parità in Parlamento può attendere. Pazienza. Perché va bene le quote rosa, ma al seggio - come al cuore - non si comanda. Così, stavolta, capiterà che, per una donna eletta, ci siano anche quattro o cinque uomini che conquistano il seggio: sulla carta potrebbe accadere così, per strano che sembri, persino nel caso di una paladina dell’uguaglianza come Laura Boldrini. Come è potuto succedere? La faccenda è dovuta ai meccanismi infernali di una legge elettorale che fra l’altro contiene il diabolico mix per cui i partiti possono candidare lo stesso nome in più collegi, ma devono sempre rispettare l’alternanza uomo-donna in ciascun listino. In pratica, tra bramosie incrociate di posti blindati, è finita (trasversalmente) che le donne avessero pluricandidature più degli uomini. Nel Pd si porta l’esempio di Maria Elena Boschi, ma anche di Marianna Madia, che collezionano sei e cinque collegi. Nella Lega, giusto a intendere la trasversalità, ci sono i casi di Giulia Bongiorno (cinque), come di Barbara Saltamartini (quattro più l’uninominale). Costoro, come le altre, potranno logicamente alla fine occupare solo uno di questi scranni. Per gli altri, è fatale, lasceranno il posto all’uomo che le segue in lista. Stesso discorso, persino più chiaro, per Boldrini, che oltre all’uninominale corre da capolista in quattro collegi della Lombardia. Dovesse Leu fare l’ein plein, lei si tirerebbe dietro alla Camera almeno tre uomini. Paradossale forse, ma conveniente: per tutti e tutte, come usa dire.

l’espresso 11.2.18
Alla ricerca dell’italiano perduto
La lingua letteraria diventa sempre più povera. Semplificata dagli editor. Snellita dagli scrittori. Standardizzata dal mercato
di Elvira Seminara

Scusate se inizio così, ma c’è una parola che muore mentre leggete questo pezzo. Ogni mattina, in qualche parte del mondo, c’è uno scrittore che insegue una parola, l’ha solo intravista ma ne possiede il suono, la fiuta la bracca e infine l’afferra. Mentre la scrive, come faceva la Dickinson, la guarda brillare. Ma ogni mattina, nel mondo c’è un editor che la spazza via. È una parola poco ordinaria - ti spiega - inconsueta (stavo per dire desueta, ma anche questa è da evitare), astrusa (forse anche astratta, se non astrale) insomma poco riconoscibile, poco reale, non familiare, addirittura poetica. A questo punto, a fugare qualche risibile resistenza, se non sei Borges o Saramago e nemmeno una prolifica-provvida penna di milioni di copie, l’editor sgomento accusa: è una scrittura letteraria! Sottotesto: non si venderà. Postilla: occorre tradurla in una lingua basica. E non si tratta di un manuale di istruzioni per lavatrice. Credevate forse che in letteratura sia praticabile una lingua letteraria? Siete fermi a Croce, voi autori in cerca di farfalle? Ogni giorno c’è un autore o un’autrice che fa le esequie a una parola “diversa” - che dopo quest’ultima espulsione sarà ancor più irrecuperabile ed estranea al lessico comune - perché non omologata, eccentrica, scardinata, fuori dai registri, troppo nuova o troppo antica, perché inventata o abbinata a un termine in modo bizzarro, persino inquietante - sì, anche. Il lettore non va turbato, ma confortato (tranne in caso di thriller, massimo genere di conforto per l’editoria). Ogni infrazione alla lingua minima è consentita (anzi incoraggiata) dall’industria editoriale se fa ridere, sorridere, distrarre, digerire - cose a tutti gradite peraltro, purché ci sia varietà di scelta. Ogni giorno, come la collina di pattume a Leonia, una delle “Città invisibili” di Calvino, ai confini dei nostri bisbigli cresce e si allarga la discarica delle parole reiette, quelle bandite dai testi, disabilitate, perché non rientrano fra le 2000 parole del lessico fondamentale raccolto dai linguisti, quelle che gli italiani usano e riconoscono. (Forse persino una stima generosa, se il wikizionario, il dizionario libero e multilingue, conta 1000 parole sufficienti nella lista italiana). Un gruzzolo davvero ingrato e striminzito, appena l’1,6 per cento delle parole disponibili nella nostra lingua, visto che i vocabolari più noti ne contengono 120 mila. Ed è nella stessa urlante discarica che languono i congiuntivi (forse colpevoli di esprimere ipotesi e dubbi, cioè roba molesta e destabilizzante), sotto nugoli di figure retoriche, visto che metafore e similitudini allentano l’azione e possono dilatarla oltre la pagina e i muri di casa: volete forse sfiancare quel povero lettore sopravvissuto allo sterminio di parole e all’invasione di titoli - quest’anno persino il 3,7 per cento più dell’anno scorso, a (confortante) dispetto della crisi del libro? Volete voi, cacciatori di farfalle, che quel temerario misterioso lettore (perduto tra il 40 per cento degli italiani che leggono, ultimi dati Istat) che ha preso in mano l’unico testo che leggerà quest’anno, si imbatta in una parola o un’immagine non familiare, o in un indugio narrativo, una digressione che gli facciano chiudere il libro? Siete Proust, che impiega 30 pagine a rigirarsi nel letto prima di entrare nel vivo? Ecco il punto. Nessun editore oggi pubblicherebbe un Proust, se non a prezzo di un sanguinoso editing, ma neanche, temo, Perec Cortázar Gadda o Manganelli, né lo stesso Calvino, il più acuto preconizzatore, essendo anche editore, di questa epocalisse - giacché tutti in odore di cerebralità e difficoltà di accesso. Cioè troppo letterari. E coscienti - peggio, orgogliosi - di esserlo. La glaciazione della lingua è qui, oggi. Ma quale lingua produciamo noi scrittori, più o meno consapevoli, ribelli, complici o asserviti? Siamo davvero senza colpa? Quanto siamo condizionati, già al momento della scrittura, dal terrore di essere letterari, distanti, impegnativi? Quante volte leggiamo libri instupiditi, di autrici e autori molto più intelligenti e arguti dei loro libri? Quanto crediamo in una lingua personale e non addomesticata, che contravvenga e sorprenda, anziché rassicurare, che incontri il lettore non nei suoi luoghi comuni ma in quelli inesplorati, dove di rado ti porta la vita o la tv? Una lingua immaginifica, non plastificabile, portatrice di biodiversità, riserva genetica del pensiero, bosco lussureggiante, per dirla con Umberto Eco? «Non si era mai visto, a casa mia, un autunno così smodato». Era l’inizio del mio primo romanzo, “L’indecenza”, pubblicato con Mondadori nel 2008, una frase che generò un furioso dibattito. L’editor mi chiese di sostituire l’aggettivo “smodato”, effettivamente mai associato a una stagione, con “particolare”. L’incipit sarebbe stato dunque «Non si era mai visto a casa mia un autunno così particolare», francamente grossolano e per me inaccettabile. “Smodato” rendeva esattamente la mia idea di un autunno irregolare, imprevisto, perturbato, e direi sgraziato nelle sue esternazioni. Concetti peraltro manifesti nelle due pagine successive. Non avevo proprio intenzione di correggerlo. Io allora lavoravo ancora in redazione (ho scritto di cronaca per vent’anni nel quotidiano La Sicilia, ottimo laboratorio espressivo) e sapevo cosa si intendeva per linguaggio diretto e denotativo, specialmente quando il morto ammazzato cadeva a mezzanotte, c’erano due morti a settimana, e la tipografia chiudeva all’una. Pochissimo tempo per andare a vederlo (solitamente in periferia), informarsi, tornare e scrivere il pezzo. Guai a perdere tempo e spazio per un aggettivo superfluo, o un vezzo verbale. Dovevi essere esatta, e insieme rapida. Linguaggio tecnico, anche, ma comprensibile a tutti. Per questo sapevo bene cosa facevo in quel romanzo, trasferendo aggettivi e parole da un ambito all’altro - delocalizzandoli diremmo oggi - per reinverginarli e dargli un nuovo territorio, altro senso. Non era una lingua di informazione, ma una lingua di deformazione, visionaria, per raccontare una relazione ossificata. Una lingua ridondante e scorticata, come i capitelli barocchi e neri di Catania divorati dalla salsedine e dal tempo. Mi fu assegnato un altro editor. Il dibattito fu ricco e bello, e senza amputazioni. Senza saperlo, avevo fatto come prescrive Deleuze: accostarsi alla lingua madre da straniero, come se tutto il mondo fosse nuovo. O come un matto. Cito sempre quell’autunno smodato, nei corsi di scrittura, a ribadire la soglia tra i linguaggi. Ma gli allievi mi guardano straniti e diffidenti, come avessi in mano una farfalla agonizzante: dov’è quella soglia? Che differenza resiste tra la lingua dei social e quella dei romanzi? Nessuna. Anzi in tutto il mondo gli youtuber più seguiti sono inseguiti dagli editori. Proprio perché si esprimono in una lingua comoda e senza pretese come una felpa nera, universale e neutra. E spesso involuta e automatica come le loro storie. D’altro canto, come diceva il sovversivo Wittgenstein, i confini della nostra lingua creano quelli del nostro mondo personale, e se le parole sono poche e grezze lo saranno anche i nostri contenuti. Possiamo esprimere solo i sentimenti che sappiamo nominare. Ridurre o inquinare il parco linguistico di un paese, sottraendogli l’irrorazione della lingua letteraria, cioè la lingua dell’immaginazione, è anche per questo un sopruso, oltre che una deplorevole e offensiva sottovalutazione dei gusti del pubblico e dei suoi diritti di “sconfinamento”. Ma siamo coscienti - autori lettori editori librai bibliotecari studiosi - di questo scempio inflitto in nome del mercato alla lingua romanzesca, ormai ridotta a lingua basica, una lingua omologata e standard, poverissima sul piano lessicale ed elementare nella struttura, una lingua paratattica e sostanzialmente modellata su quella televisiva di basso intrattenimento? Una lingua di scambio, insomma, funzionale e mimetica, assimilata a una struttura che punta sul ritmo per legarti al divano, sulla riconoscibilità di situazioni per idelizzare, su fraseggi per farne tormentoni, su personaggi- tipo per serializzare. Per farne storie simili e riproducibili, farcite di stereotipi e luoghi comuni/accomunanti, da identificare facilmente sul banco. Quanti romanzi italiani degli ultimi anni, e quanti fra quelli premiati da pubblico o riconoscimenti - presentano una lingua altra, e un costrutto diverso, autoriale? Perché non parlano, si fanno avanti, i critici e gli storici della letteratura? La gran parte dichiara di non leggere i romanzi contemporanei, per mancanza di tempo e di interesse - come del resto i loro allievi nelle facoltà di Lettere del Paese. E non hanno più spazio nelle pagine culturali nei giornali, peraltro vistosamente ridotte. Forse perché coi critici e studiosi si rischia una vera critica, e dunque di non far vendere il libro? «Non c’è nulla che non possa essere tradotto», urlava James Joyce di fronte alle resistenze di Nino Frank, primo traduttore in italiano del Finnegans Wake. Un’impresa così titanica che chi ci ha provato da ultimo, Enrico Terrinone e Fabio Pedone, autori di un’edizione pubblicata lo scorso anno da Mondadori, ha confessato di aver impiegato cinque ore di lavoro al giorno per tre anni, per tradurre solo una settantina di pagine. Ma Joyce utilizzava un inglese impastato ad altre lingue: un gergo sorprendente, babelicamente ibridato, sublime e ostico, eppure in grado di scalare le classifiche: come nel 1939, quando il libro uscì, attesissimo dopo l’Ulysses. Oggi il romanzo prediletto dal mercato parla una lingua ben più semplice, standardizzata e scarnificata: destinata a un pubblico abituato al ritmo delle serie tv e patito di storie on demand (letteralmente: come i distributori analogici di racconti brevi che spopolano in Francia). Una lingua “onesta” e “accessibile”, l’ha definita la poetessa Rebecca Watts, in un articolo pubblicato su PN Review “(The Cult of the Noble Amateur”) e ripreso, tra le polemiche, dal Guardian: critica feroce contro il culto del nobile dilettante, con tanto di nome e cognome: Kate Tempest, Rupi Kaur, Hollie McNish, per citarne qualcuno. Autrici molto amate e molto celebrate (solo in Gran Bretagna hanno venduto quasi 300 mila libri; McNish e Tempest hanno anche vinto il premio Ted Hughes per la poesia), che devono notorietà e lodi, incluse quelle dell’establishment poetico, ai social network. «Il lettore è morto», commenta Watts: anziché liberare il linguaggio dai cliché, i social media hanno fatto prevalere contenuti guidati da consumatori e premiato la gratificazione istantanea: «I nuovi poeti sono prodotti di un culto della personalità che esige solo onestà e accessibilità, dove per onestà si intende l’espressione costante di ciò che si sente, e l’accessibilità significa il rifiuto totale della complessità, della sottigliezza, dell’eloquenza e dell’aspirazione a fare qualsiasi cosa al massimo». Il mondo anglosassone si divide. E che il tema sia sentito lo dimostrano colti saggi in circolazione. «Le storie riflettono il presente. E le parole per raccontarlo pure», sostiene Martin Puchner, in “The Written World: colloquio con Adam Kirsch di Sabina Minardi La tentazione del romanzo globale Forse perché spesso essendo amici o colleghi degli autori risultano troppo clementi, dunque inattendibili per i lettori? Scrivono in modo ostico e criptico? Lo spazio di commento e analisi si raddensa nei terreni più friabili dei blog, più democratici, dove chiunque può dare giudizi senza bisogno di aver letto Tolstoj e Musil, e coinvolgere i lettori in un clima disteso e divertente, fluido. C’è più qualcuno che ha in cuore una stella danzante? Che parli ancora, da quella valle degli scarti, di canoni e correnti, di ascendenze e rimandi, di filoni e dialogo fra autori lontani? Qualcuno che indaghi in modo non solitario sulle forme dell’io narrante? Non ce ne siamo accorti, eravamo distratti, ma di letteratura non parliamo più. Parliamo di libri, dappertutto, fra saloni e fiere, saghe e premi - è tutto un festival. Ma non parliamo di letteratura, di lingua. Ci imbarazza. Non è divertente, non raccoglie masse. Temiamo di essere bolsi, malmostosi, fuori dal mercato. In realtà, abbandonati su quella discarica di parole, stralunati e soli come le marionette in quel film di Pasolini, forse ci siamo anche noi autori. Cosa sono le nuvole - era il film. Nuvole o farfalle, è così. La soppressione di noi scrittori, narcisi, ciarlieri e presuntuosi nonché spesso improduttivi sul mercato, è già in atto. Basterà sostituirci con lo Script Generator, un dispositivo automatico per produrre testi, come ha previsto quindici anni fa nel suo bel fantasy Philippe Vasset, scrittore poco noto che a me ricorda Arthur Clarke. Se il campo delle storie è sempre quello, riproducibile con infinite variazioni, vuol dire che il racconto è ormai diventato materia prima. E che dunque la sua raffinazione può essere meccanizzata, miscelando e assemblando le strutture essenziali delle trame prodotte in Duemila anni (e immesse nella banca dati del congegno) per generare testi, capaci anche di autoriprodursi in forma di film, serie, romanzi, cartoni, videogiochi e programmi tv, tutti intercambiabili. «È assurdo destinare soldi e tempo alla creazione, quando questo segmento produttivo può essere vantaggiosamente rimpiazzato da un riciclaggio intelligente e sistematico. Il fattore umano è sopravvalutato e anacronistico. Il prodotto base utilizzato dal dispositivo non è naturalmente il linguaggio», cito Vasset, «ma la storia». Appunto. Gli autori, prosegue, saranno impersonati da attori fotogenici capaci di identificarsi col loro personaggio, e di portarlo in scena o sul set, con salutari guadagni e giubilo dei lettori. Ma non mi piace chiudere in modo sinistro. Mentre leggevate questo pezzo, un paio di termini dismessi sono tornati in vita. E ci sono 9 miliardi, scriveva Clarke in un prodigioso racconto, di nomi di Dio. Eppure non l’abbiamo mai visto.

l’espresso 11.2.18
Siamo nati nel Seicento
Guerre di religione. Europa a pezzi. Il contagio delle false notizie. Uno scrittore tedesco riscopre il secolo più violento. Simile al caos di oggi
colloquio con Daniel Kehlmann di Stefano Vastano


Dallo studio sui tetti di Berlino si scorge il Berliner Ensemble, il teatro che fu di Bertolt Brecht. Accanto alla scrivania, a sinistra un bel cembalo, a destra una statua color amaranto di Goethe, il padre della letteratura tedesca, come ci insegnano a scuola. «In realtà, la nostra cultura e società nasce dall’immane catastrofe della Guerra dei trent’anni», inizia a dire Daniel Kehlmann accogliendoci nel suo studio. Simpaticissimo, 42 anni, Kehlmann è il più letto degli scrittori tedeschi di oggi: solo de “La misura del mondo”, il suo bestseller del 2005, sono andate vendute oltre 6 milioni di copie (in Italia è pubblicato da Feltrinelli). Da poco è uscito “Tyll”, un romanzo centrato sulle guerre di religione che, dal 1618 sino alla Pace di Vestfalia del 1648, devastarono la Germania. Un incubo lungo tre decenni, all’origine per l’appunto della storia non solo tedesca, ma anche europea. «In quegli anni oscuri», continua Kehlmann, «nacque il moderno romanzo e una cultura - il Barocco - che ha diverse affinità con il caos politico e culturale che stiamo vivendo oggi». E in questa intervista esclusiva con “L’Espresso” lo scrittore tedesco ridisegna i lati negativi ma anche positivi di un’era, il Seicento, spesso dimenticata
Come le è venuto in mente di scrivere un romanzo sulla Guerra dei trent’anni?
«L’ispirazione mi è venuta leggendo “Il declino della violenza” di Steven Pinker, che mi ha colpito con i suoi dati sulla storia della violenza in Occidente. Uno dei picchi dell’orrore furono, per l’appunto, le guerre di religione nella Germania del Seicento, un mondo a quei tempi decisamente più violento del nostro».
Furono solo i conflitti fra cattolici e protestanti nel Sacro romano impero germanico a scatenare quelle violenze?
«Non solo, anche la prassi istituzionale era impregnata allora di violenza. Scopo del sistema giuridico era impedire in modo drastico l’auto-giustizia e il linciaggio della gente, per questo le pene erano tormenti in pubblico, dalle torture alle amputazioni sino allo squartamento del reo».
Oltre al macabro sistema delle pene, la Guerra dei trent’anni fu un massacro non solo per i soldati, ma anche per i civili.
 «Non abbiamo sicuri dati demografici, ma le statistiche dicono che in alcune regioni della Germania perirono, in conseguenza di quel conflitto, anche la metà  dei civili, in media un terzo della popolazione».
Cosa rendeva le guerre di quel periodo così cruente?
«La Guerra dei trent’ anni è stata tanto violenta perché gli eserciti erano basati su condottieri e mercenari, non su strutture statali. I principi e i Signori della guerra reclutavano cavalieri e moschettieri in tutta Europa, ma paga, vitto e alloggio delle truppe li fornivano i malcapitati contadini, oppure il saccheggio e l’incendio delle città. E tutto ciò concentrato per decenni in un Paese solo, la Germania del Seicento!»
Perché nel romanzo ha fatto raccontare questa catastrofe proprio a Tyll, un giullare molto cinico?
«Una cosa è calarsi nei panni di Voltaire o di Federico il Grande, precise figure storiche, un’altra in un giullare come Tyll Eulenspiegel che nella tradizione tedesca è la fonte di barzellette più o meno volgari. Il giullare in ogni caso era l’unica figura con libertà di movimento: quella del Barocco infatti è una società irrigidita in regole e ceti e l’unico che parla sia a principi che a contadini è lui, un folle come Tyll».
Una società premoderna, divisa nelle tre sfere stagne dell’aristocrazia, clero e contadini. Quali affinità vede tra l’era del Barocco e il nostro periodo?
«Ogni novità tecnologica e mediatica crea profonde incertezze nella società: oggi è internet a creare disagio cambiando le nostre abitudini, ma ai tempi che dalla Riforma di Lutero vanno al Barocco fu l’invenzione della stampa a rivoluzionare, nel bene come nel male, la storia d’Europa».
La conseguenza positiva della “Galassia Gutenberg” fu che, dal chiuso di monasteri e chiese, libri e sapere si diffusero nella società. E quella negativa?
«Il fatto che l’Europa fu inondata da un mare di opuscoli  che seminarono ovunque l’odio tra le due confessioni cattoliche e protestanti. È il momento in cui nasce in Europa il veleno della Propaganda, che alimenta il fanatismo religioso e scatenerà una guerra che, anche per motivi ideologici appunto, si è prolungata per decenni. Oggi è internet lo strumento mediatico che sparge quelle notizie infondate e confuse tipiche non solo della nostra epoca, ma già quattro secoli or sono del Barocco». 
Cosa spinse la gente a credere allora ad opuscoli e fanatismi religiosi? E la stessa cosa vale oggi per le “fake news”?
«La stampa concesse a intellettuali come Erasmo di diffondere con i libri la ragione, ma solo lentamente si sviluppò un sistema editoriale e nuove autorità culturali. Nel frattempo la gente credeva alle dicerie più astruse che trovava stampate negli opuscoli di propaganda religiosa come succede oggi, con un clic e senza nessun filtro, sul web. C’era in quegli anni lo stesso fatale mix di propaganda, fake news e ignoranza che ha portato, negli Usa, all’elezione del nuovo presidente».    
Secondo lo storico Herfried Münkler anche le guerre asimmetriche di oggi ricordano quelle del Seicento…
«In particolare il conflitto in Siria ha molte analogie  con la Guerra dei trent’anni perché è un conflitto civile, oltre che religioso, ed è combattuto da diversi attori internazionali. Certo, non saprei se anche le guerre asimmetriche, internazionali e caotiche di oggi si risolveranno come quella. Nel 1648 la pace di Westfalia si fondò su perdono ed amnistia generali, mentre la cultura politica di oggi, con le nostre idee del diritto e i Tribunali internazionali, avrebbe qualche difficoltà a concordare una nuova Pax Westfalica».
Quanto ha inciso il trauma di una guerra di tre decenni sulla coscienza e sulla memoria collettiva dei tedeschi?
«Quel trauma fu gravissimo, pensi che la metà dei soldati moriva per malattie entro il primo mese di reclutamento. Ma sinceramente non so bene se esista una coscienza o memoria collettiva, né se agiscano in modo deterministico sulla storia di un Paese».
Per Joachim Fest, il biografo di Hitler, non si può capire la deriva del nazismo se non si risale a quel trauma…
«Per l’altro storico, Alexander Kluge, la vera catastrofe della storia tedesca sono state, invece, le rivolte contadine guidate nel 1525 da Homas Müntzer, e poi tradite da  Lutero. La storia però non è solo un gabinetto degli orrori né una catena monocausale di eventi: per tutto il sedicesimo secolo anche la Francia si consumò in guerre di religione, però nessuno oggi ne parla come del trauma originario nella storia francese».     
Nel “Dramma barocco tedesco”, Walter Benjamin vedeva nella malinconia e nel carattere saturnino la categoria centrale di quell’epoca.
«La melanconia come certezza della morte e vanità delle cose è una scoperta del Barocco. Ma proprio questo pomposo, svenevole senso della finitezza è quel che oggi ci infastidisce in quell’epoca. Io almeno ho sempre percepito una forte resistenza, persino paura rispetto all’arte e letteratura del Seicento».
E quando l’ha superata, questa fobia del Barocco, tanto da decidere di scrivere questo romanzo?
«Quando ho capito che per i grandi scrittori tedeschi il rapporto con quest’epoca premoderna è sempre stata una grande sorgente creativa: il Faust di Goethe, il Wallenstein di Schiller o “Madre Coraggio” di Brecht nascono a contatto con questa immensa fucina culturale del Seicento. Se oggi avvertiamo un certo fastidio nel Barocco è perché dietro quelle orrende guerre di religione intuiamo l’origine oscura della nostra modernità».
Il primo grande romanzo tedesco s’intitola “Simplicissimus” e lo scrive Grimmelshausen nel 1668. Nella copertina dell’opera compare un satiro, mezzo asino, un po’ pesce e un po’ uccello, con delle maschere ai piedi. È questo gioco delle Identità, l’ambiguità della vita la lezione del Barocco, e la ragione della sua attualità?
«“Simplicissimus” è il “Don Chisciotte” tedesco. Anche il mio giullare Tyll è una figura liquida che incarna la capacità di essere uno, nessuno e centomila sapendo che il mondo è una giungla pericolosa e che ogni nostra esperienza è sempre limitata. Eppure, altro paradosso del Barocco, i suoi eclettici eruditi - come il gesuita storico, egittologo, medico e museologo tedesco Athanasius Kircher -  avevano la pretesa di costruire un sapere universale».
Pure Don Ferrante, nei “Promessi sposi” di Manzoni è - come il papà di Tyll nel suo romanzo - il classico dotto del Seicento, in cui la metafisica più astrusa si mescola all’astrologia, l’alchimia o la credenza nei draghi…
 «Don Ferrante o Kircher sono figure ibride, e anfibie sono scienza e letteratura in un periodo in cui il razionalismo dei Lumi non era ancora nato. È nel Seicento che con la stampa sorge anche, in mezzo a ondate di follie superstiziose, il genere del romanzo che abitua il lettore a una dose di empatia, anche se il romanzo non è certo in sé veicolo dell’illuminismo. Grimmelshausen e il suo Simplicissimus sono per la persecuzione delle streghe, e il mio giullare Tyll non è affatto un moderno pacifista!».
Nell’era virtuale delle “fake news” non ci stiamo riavvicinando a quel tipo di “sapere diffuso” così oscuro?
 «Certo che nel web non circolano solo puri dati empirici e teorie razionali, così come nel Barocco le fantasmagorie dei dotti erano immuni al test dell’esperienza. Oggi come allora viviamo immersi in una sorta di razionalità sognante. È da qui che sorge il nostro timore del Seicento: siamo talmente educati alle norme razionalistiche dell’Illuminismo che ci  spaventa quell’era in cui scienza e magia, alchimia e religione, tecnica e guerra si mischiano tra loro. Il grande Keplero ha fatto oroscopi per il condottiero Wallenstein, e nel mio romanzo i sapienti di corte, mentre condannano gli eretici, sono alla ricerca di draghi. Non è facile essere razionali, più semplice lasciarsi andare a quel mix di tecniche, fantasticherie e ignoranza che ci sommerge oggi nel web». 
Lei abita spesso a New York. Come ha vissuto l’elezione di Donald Trump? Non crede che il presidente americano ricordi, sia per l’aspetto che per il modo di pensare e parlare, un giullare, quasi una versione politica del suo Tyll?
«Vivo a New York, ma non sono per niente sicuro che sopravviverò a Trump! Il mio Tyll è molto più intelligente del presidente e persino lui, il giullare, ha più empatia di un Trump, che non è un buffone, ma un pericolosissimo idiota, o meglio, un clown horror con valigetta atomica. È questo angosciante delirio militare, ennesima malefica eco della Guerra dei trent’anni, che oggi mi inquieta davvero, non tanto il futuro della democrazia negli Stati Uniti».
Il motto del politico più sagace del Seicento, il cardinale Richelieu, era “Simulare e dissimulare”. Nello scenario geopolitico così confuso di oggi sarebbe Putin il nuovo Richelieu?
«Non ci sono dubbi, come il cardinale francese entrò in guerra ma a favore dei protestanti, così Putin, che non segue alcun principio morale ma solo mire espansionistiche, è una volpe nell’arte barocca della disinformazione. E come Richelieu e la Francia nella Guerra dei trent’anni, così anche Putin riesce oggi a insinuarsi in ogni teatro di guerra, non solo in Siria, ma tenendo la Russia fuori dai conflitti e lasciando che le sue truppe ed armi devastino altri Paesi».  
E nell’era dei Trump e Putin, come vede la figura della cancelliera Merkel e il ruolo della Germania nella crisi d’identità che sta oggi dilaniando l’Europa?
«In America oggi tutti amano la Germania e guardano alla Merkel, in contrasto a Trump e Putin, come all’ultima e quasi messianica speranza di razionalità in un mondo che rischia di ripiombare nel caos e nella catastrofe globale. Forse si esagera l’importanza e la razionalità della Kanzlerin, ma - ironia della storia! - come tedesco oggi approfitto della nomea che la Germania gode negli Usa e nel mondo».  
Merkel continua a predicare la “Stabilità” della sua politica. Ma il messaggio che ci viene dal Barocco non è la vanità di ogni principio e l’aleatorietà di ogni evento?
«Quella del Seicento è una società piramidale, gerarchica e, per quanto concerne i costumi, feticista e pomposa. La Guerra dei trent’anni, però, attraversa questo mondo fatto di allegorie, etichette e finzioni, ed è questa vena anarcoide che ci rende oggi più simpatico il Barocco. E ci fa guardare con occhi più scettici alla stabilità predicata dalla Merkel, perché - non dimentichiamolo - quello era il periodo in cui la Germania era la Siria di oggi e noi europei venivamo massacrati senza pietà in nome di un Dio o di una fede».

internazionale 10.2.2018
Il capro espiatorio della destra
Le Monde, Francia


Quando viene commesso un reato non è mai buon segno vedere una parte dell’opinione pubblica che si accanisce sulle vittime. Questo è lo spettacolo desolante offerto dall’Italia dopo l’attentato compiuto il 3 febbraio a Macerata da Luca Traini, che ha ferito sei africani a colpi di pistola. Se fosse stato solo il gesto di un folle, l’attacco sarebbe stato condannato senza esitazione. Ma l’attentatore era un militante della Lega nord, con cui si era candidato alle amministrative del 2017. Traini – che si è avvolto nella bandiera tricolore, ha fatto il saluto fascista e ha gridato “Viva l’Italia!” – ha chiaramente voluto dare una dimensione politica al suo gesto di vendetta: pochi giorni prima un nigeriano era stato fermato per l’orribile omicidio di una diciottenne italiana. A meno di un mese dalle elezioni del 4 marzo, Traini ha avuto successo oltre ogni aspettativa. Tutta la destra italiana si è subito lanciata in un’inquietante gioco al rialzo. Dopo aver denunciato frettolosamente il gesto di uno “squilibrato”, i suoi leader se la sono presa con il governo di centrosinistra, accusandolo di aver favorito negli ultimi anni un’invasione di stranieri. Il leader della Lega Matteo Salvini si è detto impaziente di andare al governo per “riportare sicurezza, giustizia sociale e serenità” in Italia, mentre Silvio Berlusconi ha promesso di espellere 600mila immigrati irregolari, che secondo lui sono tutti “pronti” a commettere reati. “Grazie” a Traini, dunque, la fragile coalizione tra Berlusconi, i postfascisti e la Lega, che da mesi fatica a nascondere le sue divisioni sulle politiche economiche e sull’Europa, si è improvvisamente compattata contro un facile capro espiatorio. Di fronte a questa deriva gli appelli alla ragione del presidente del consiglio Paolo Gentiloni sembrano inutili. Bisogna anche dire che gli attacchi del ministro dell’interno Marco Minniti alle ong hanno contribuito ad alimentare l’ostilità verso i richiedenti asilo. L’Unione europea, poi, non può evitare di farsi un esame di coscienza: lasciando l’Italia ad affrontare da sola la crisi migratoria, ha contribuito ad alimentare una rabbia di cui si sono nutriti la Lega e il Movimento 5 stelle. Berlusconi sembra volersi allineare a Salvini per controllarlo meglio, ma in questo modo potrebbe vanificare la campagna con cui ha cercato di recuperare credibilità in Europa. Ora sembra più improbabile che dopo le elezioni si costituisca una “grande coalizione” tra il centrosinistra e la destra moderata, ultima speranza di chi vorrebbe evitare gli scossoni che dopo il 4 marzo rischiano di far vacillare l’Europa intera.

internazionale 10.2.2018
L’Italia dopo Macerata
Lorenzo Tondo, The Guardian, Regno Unito
L’attentato del 3 febbraio è solo l’ultimo episodio di una serie di violenze di matrice neofascista. Ma le autorità italiane sembrano sottovalutare il problema


Più di settant’anni dopo la morte di Benito Mussolini, migliaia di italiani stanno aderendo a gruppi che si definiscono fascisti. Tra i motivi, sostengono le organizzazioni antifasciste, ci sono il modo in cui viene raccontata la crisi dei migranti, l’aumento di notizie false e l’incapacità del paese di fare i conti con il passato. L’attacco che il 3 febbraio a Macerata ha provocato il ferimento di sei africani è solo l’ultima di una serie di aggressioni compiute da individui legati all’estrema destra. Secondo il collettivo antifascista di Bologna Infoantifa Ecn, dal 2014 gli attacchi neofascisti in Italia sono stati 142. Mentre Luca Traini, l’aggressore di Macerata, veniva interrogato, quattro nordafricani di Pavia hanno dichiarato alla polizia di essere stati picchiati durante la notte da un gruppo di 25 skinhead. Il 13 gennaio a Napoli decine di neofascisti del partito Forza nuova hanno fatto irruzione in un bar dove era in corso un incontro sulla cultura rom, danneggiando il locale e ferendo un’organizzatrice dell’evento.
Nel 2001 Forza nuova aveva 1.500 iscritti. Oggi ne ha più di 13mila e la sua pagina Facebook ha più di 241mila follower, circa 20mila in più del Partito democratico (Pd). L’organizzazione d’ispirazione fascista CasaPound ne ha quasi 234mila. Alle elezioni del 4 marzo ha candidato alla presidenza del consiglio il suo segretario, Simone Di Stefano. “Siamo cresciuti da soli, senza l’aiuto dei mezzi d’informazione”, afferma Adriano Da Pozzo, uno dei leader di Forza nuova. “Gli altri partiti vogliono promuovere i loro candidati, noi vogliamo promuovere le nostre idee”. Il gruppo di estrema destra ha offerto assistenza legale a Traini. L’odio in rete Le organizzazioni antifasciste sostengono che l’espansione dei partiti e dei gruppi di estrema destra dipende anche dalla riluttanza delle istituzioni a prendere provvedimenti. La proposta di legge presentata nel 2017 alla camera dal deputato del Pd Emanuele Fiano per proibire la propaganda fascista prevede pene detentive fino a due anni per chi vende souvenir fascisti o fa il saluto romano, considerato un reato sia in Austria sia in Germania. A causa dell’opposizione di Forza Italia e della Lega, il provvedimento è stato bloccato al senato. “Siamo molto preoccupati”, dice Carla Nespolo, presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi). “Questi nuovi fascisti attaccano i nostri uffici. Sembra che non ci sia la volontà di fermarli. Abbiamo chiesto al governo d’impedire la partecipazione dei partiti d’ispirazione fascista alle elezioni, poiché sono incostituzionali, ma non abbiamo mai ricevuto risposta”. La costituzione italiana prevede sanzioni per “chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità” del partito fascista. Le autorità, tuttavia, non sono mai intervenute contro CasaPound e Forza nuova, i cui iscritti esibiscono svastiche e bandiere fasciste durante le manifestazioni. Lo scorso anno l’Anpi ha stilato una lista di cinquecento siti internet che esaltano il fascismo in Italia, chiedendo che fossero chiusi. Non è stato fatto niente. “Sono siti che diffondono l’odio, specialmente contro i migranti”, spiega Nespolo. “E lo fanno dando spazio, soprattutto sui social network, a notizie false sui profughi”. Falsi resoconti di stupri compiuti da richiedenti asilo sono condivisi migliaia di volte su Facebook e Twitter. “Le notizie false hanno avuto un ruolo fondamentale nella propaganda dell’estrema destra”, spiega Francesco Pira, sociologo della comunicazione all’università di Messina. “Non sembra esserci nessuna vigilanza in materia. Il problema non riguarda solo le notizie totalmente false, ma anche quelle dove il termine ‘clandestini’ è usato per descrivere i migranti, marchiando i richiedenti asilo come criminali, uno dei miti più usati dalla propaganda della destra”. La presidente della camera Laura Boldrini, spesso bersaglio di attacchi sul web, ha proposto l’introduzione di multe e pene detentive per chi diffonde notizie false. Ex portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, Boldrini è nota per le sue posizioni di apertura sull’accoglienza dei migranti. Subito dopo l’attacco di Macerata, in rete è apparsa un’immagine della sua testa tagliata, accompagnata dalla scritta: “Sgozzata da un nigeriano inferocito. Questa è la fine che deve fare così per apprezzare le usanze dei suoi amici”. L’aggressione di Macerata è avvenuta alcuni giorni dopo l’arresto di un uomo nigeriano in relazione alla morte di una ragazza italiana, Pamela Mastropietro, 18 anni, il cui corpo fatto a pezzi è stato ritrovato nascosto in due valigie nei pressi della città marchigiana. La destra ha sfruttato la morte della ragazza per promuovere il suo messaggio contro gli immigrati. Mentre la destra raccoglie consensi, la figura di Mussolini è protagonista anche sugli schermi dei cinema italiani nel film satirico Sono tornato, che immagina il ritorno del dittatore nell’Italia del 2018. “Gli italiani, a differenza dei tedeschi, non hanno mai fatto i conti con Mussolini, non l’hanno mai rimosso”, ha detto il regista Luca Miniero. “Osservando quello che succede oggi in Italia, sono convinto che, se Mussolini tornasse, vincerebbe le elezioni”.

internazionale 10.2.2018
La politica dell’odio contro gli stranieri
Le reazioni dei leader della destra sono preoccupanti e pericolose. Ma lo è anche la mancanza di solidarietà mostrata da buona parte della società civile italiana
di Jamie MacKay, Krytyka Polityczna, Polonia


In Italia, un paese che nonostante l’orgoglio per la sua tradizione democratica non ha mai fatto i conti con i crimini del novecento, la piaga del nazionalismo è già difficile da arginare nei periodi tranquilli. Da alcune settimane, mentre in tutta Europa aumenta la xenofobia e gli italiani si preparano a un difficile voto nelle elezioni legislative, le forze reazionarie hanno debordato: sono emerse proposte ispirate all’eugenetica e a teorie esplicitamente fasciste. Poi è arrivato anche lo spargimento di sangue. Il 3 febbraio Luca Traini, 28 anni, in passato candidato alle elezioni comunali per la Lega nord e vicino alle organizzazioni di estrema destra Forza nuova e CasaPound, è andato in macchina per le strade di Macerata, una mano sul volante e nell’altra una pistola Glock. Ha perlustrato una zona periferica della città alla ricerca dei suoi bersagli, gli immigrati nigeriani. Il suo piano iniziale era trovare e uccidere Innocent Oseghale, uno spacciatore coinvolto nelle indagini sulla morte di Pamela Mastropietro, una ragazza italiana di 18 anni uccisa e fatta a pezzi il 31 gennaio. Ma all’ultimo minuto Traini ha cambiato idea e ha deciso di lanciarsi in una vendetta razzista contro un’intera categoria d’individui. Sei persone provenienti da alcuni paesi africani – Nigeria, Ghana, Gambia e Mali – sono state ferite. A quanto pare Traini ha scelto le sue vittime a caso, solo in base al colore della pelle, sparando da lontano. Quando la polizia è intervenuta, era già arrivato davanti a un monumento ai caduti costruito durante la dittatura fascista. Era avvolto in una bandiera italiana e stava facendo il saluto fascista. Mentre entrava nell’auto della polizia, avrebbe urlato “Viva l’Italia”. Non è stato il gesto di un folle (anche se Traini può certamente essere definito in questo modo): è stato un attentato terroristico grave come quelli compiuti dal gruppo Stato islamico in tante città. È l’ultimo di una serie di attentati in Europa che nascono dalla stessa cultura di odio e frustrazione che nel 2017 ha portato Darren Osborne a colpire la moschea di Finsbury park, a Londra, e ha causato gli scontri di strada a Cottbus, in Germania, all’inizio di quest’anno. La natura politica del gesto di Traini è confermata non solo dalla paura che ha generato in Italia nella popolazione non bianca, ma anche dalle risposte di alcuni politici. Proposte pericolose Matteo Salvini, leader della Lega, ha detto che anche se la violenza non è mai una soluzione, la colpa di quello che è successo a Macerata è delle politiche migratorie del governo, che avrebbero portato allo “scontro sociale”. Salvini non si è neanche sforzato di edulcorare le sue dichiarazioni, corteggiando platealmente la sua base di estrema destra e cercando di sfruttare un fatto di sangue per guadagnare consensi. Silvio Berlusconi, che fino a quel momento si era presentato come un moderato, sembra essersi improvvisamente trasformato in un aspirante dittatore e ha promesso che se Forza Italia vincerà le elezioni del 4 marzo chiederà l’espulsione di 600mila persone. I migranti in Italia sono “una bomba sociale”, ha aggiunto l’ex presidente del consiglio. Queste dichiarazioni, nel migliore dei casi irresponsabili, non hanno diritto di cittadinanza in una società democratica. Dietro i gesti dei cani sciolti ci sono motivazioni complesse, ma il fatto che politici come Berlusconi e Salvini non condannino chiaramente le azioni di Traini alimenta la logica razzista che ha spinto l’attentatore ad agire. Altrettanto preoccupante è l’apparente impotenza della sinistra italiana. Sono arrivate le condanne e i gridi d’allarme di attivisti, ong e di alcuni politici, ma considerate le circostanze non si è andati oltre il minimo indispensabile. Anche se le elezioni sono alle porte, il governo sostenuto dal centrosinistra (come le forze più a sinistra) non ha una strategia per limitare le mobilitazioni dell’estrema destra, mettere al bando il razzismo e soprattutto per tradurre gli ideali in politiche progressiste di accoglienza dei profughi, non solo quando avvengono episodi come quello di Macerata. A poche settimane dal voto, non è chiaro se il gesto di Traini farà guadagnare consensi all’estrema destra o se, come auspicabile, penalizzerà formazioni come la Lega e Fratelli d’Italia, che potrebbero perdere voti tra gli indecisi e tra i cosiddetti moderati. Ma anche se dovesse succedere, un’inversione di marcia dell’ultimo minuto non cancellerebbe le responsabilità della società civile italiana. Qualsiasi cosa succederà in futuro, non ci sono scuse per la mancanza di solidarietà e per il plateale razzismo emersi in tutta la loro evidenza dopo l’attacco del 3 febbraio.

internazionale 10.2.2018
Dalla Germania
Gli estremisti avanzano


Negli ultimi anni molti elettori, anche di sinistra, si sono spostati su posizioni reazionarie in tema d’immigrazione “Fino a pochi giorni fa era definita la campagna elettorale più noiosa e meno interessante di sempre. La situazione è cambiata da un giorno all’altro, e non in meglio”, scrive Michael Braun sul settimanale tedesco Die Zeit. “All’improvviso all’ordine del giorno ci sono due temi che appassionano gli elettori: l’immigrazione e la sicurezza. La causa scatenante è l’aggressione avvenuta a Macerata il 3 febbraio, quando Luca Traini ha aperto il fuoco sugli immigrati africani. Sul movente di Traini non ci sono dubbi, visto che è stato arrestato davanti al monumento ai caduti della città con la bandiera italiana sulle spalle. Inoltre Traini nel 2017 si era candidato con la Lega nord alle elezioni comunali a Corridonia, vicino a Macerata”. “La Lega”, spiega Braun, “è uno dei pilastri della coalizione di destra costruita dall’ex premier Silvio Berlusconi. Il suo leader, Matteo Salvini, ha reagito all’attacco sostenendo che in Italia c’è un problema di sicurezza causato dall’immigrazione. Salvini può contare su un clima politico favorevole. Subito dopo l’attentato di Macerata, un sondaggio ha rivelato che il 62 per cento degli italiani intervistati dichiara che il governo ha fallito sui migranti. Già nel corso del 2017 c’era stato un cambiamento nell’opinione pubblica su questo tema, e oggi un numero crescente di elettori – anche di sinistra – considera i migranti una minaccia per la propria sicurezza e per il posto di lavoro”. In un sondaggio del settembre 2017, il 70 per cento degli intervistati ha dichiarato che i migranti sono “troppi”. In un sondaggio di novembre del 2017 il 33 per cento degli intervistati definiva i migranti un pericolo per la sicurezza interna. Su quest’ultimo punto i dati sono cambiati negli ultimi tre anni: tra gli elettori del Partito democratico quelli che considerano gli immigrati una minaccia per la sicurezza interna sono passati dal 10 al 20 per cento. Tra i sostenitori di Forza Italia sono ormai il 43 per cento. “uno dei motivi”, spiega Braun, “è che a differenza di quello che succedeva tre o quattro anni fa, oggi è aumentato il numero dei migranti che restano in Italia. Nel 2014 64mila delle 170mila persone arrivate in Italia dalla Libia attraverso il Mediterraneo hanno presentato richiesta d’asilo o di protezione umanitaria. Con l’inasprimento dei controlli in Europa la situazione è cambiata: la maggioranza dei circa 180mila migranti arrivati nel 2016 è rimasta in territorio italiano. Nel 2017 il governo di centrosinistra ha cercato di ridurre il numero delle partenze dal Nordafrica stipulando accordi con il governo libico e con i signori della guerra locali. Con il risultato che lo scorso anno sono arrivate 120mila persone. Ma la pressione sui comuni italiani che accolgono i profughi è ancora alta. Tutto questo in un paese la cui economia sta uscendo da una crisi percepita come traumatica, dove secondo i dati ufficiali ci sono tre milioni di disoccupati (sei milioni se si tiene conto di chi ha smesso di cercare lavoro), e dove il debito non lascia margini di respiro per issare nuovi obiettivi”. Secondo Braun gli effetti dell’attentato di Macerata sul clima politico italiano sono evidenti. “Avrebbe dovuto prendere meglio la mira”, ha scritto un utente sui social network. Ma anche molti maceratesi non nascondono la loro solidarietà con l’attentatore. “Di fronte a questa situazione”, conclude Braun, “Salvini parte all’attacco nonostante le condanne che arrivano dal leader del Partito democratico Matteo Renzi e dalla sinistra di Liberi e uguali. Bizzarra, infine, la posizione del Movimento 5 stelle, che dopo l’attentato di Macerata non ha avuto niente da dire. Questo silenzio si spiega con il fatto che i cinquestelle si considerano un partito né di destra né di sinistra, quindi attirano elettori dalla sinistra radicale, dal centro e dall’estrema destra”.

internazionale 10.2.2018
Offensiva olimpica
La partecipazione della Corea del Nord ai giochi invernali è parte di una strategia di Pyongyang che difficilmente porterà a una svolta
di Andrew Salmon, Asia Times, Hong Kong


Era cominciato con una dichiarazione incredibilmente conciliante del leader nordcoreano Kim Jong-un in tv il 1 gennaio 2018. Ora alcuni sudcoreani chiamano le Olimpiadi invernali di Pyeonchang, in Corea del Sud, “i giochi di Pyongyang”. Dopo l’aumento delle tensioni nel corso del 2017 e la guerra di parole tra Washington e Pyongyang, la notizia che la Corea del Nord avrebbe partecipato alle Olimpiadi invernali sudcoreane ha elettrizzato il mondo. Poi gli sviluppi sono stati rapidissimi. Gli osservatori sono divisi tra la speranza di una svolta e lo stanco cinismo che tutti abbiamo condiviso finora. Anche se in Corea del Sud circola voce che l’idea d’invitare la Corea del Nord ai giochi sia stata in realtà un’iniziativa di Seoul – durante dei colloqui segreti in Cina – è Pyongyang a occupare le prime pagine dei giornali. E sono le autorità nordcoreane che hanno definito la partecipazione del loro paese alle Olimpiadi come “un regalo di capodanno” per il popolo coreano. Ma quali sono gli obiettivi di quel regime inflessibile, isolato, ultranazionalista, socialista, dittatoriale e dotato di armi atomiche durante e dopo le Olimpiadi? Agli occhi di un mondo che ormai conosce bene la Corea del Nord attraverso i video delle parate militari, i lanci di missili e l’atteggiamento da sovrano di Kim, le capacità di cui darà mostra Pyongyang ai giochi presentano un lato insolito del paese. “Siamo tutti concentrati sull’aggressività del regime e sui test nucleari, ma è il soft power (potere di fascinazione culturale) ad attrarre maggiormente certi segmenti della società sud coreana”, dice Daniel Pinkston, esperto di relazioni internazionali della Troy university, negli Stati Uniti, lasciando intendere che lo scopo principale è in realtà conquistare l’opinione pubblica del Sud. Alcuni osservatori temono che Seoul si dimostri troppo sensibile alla seduzione di Pyongyang. “L’ideologia del Nord è affamata di propaganda, e il governo del presidente sudcoreano Moon Jae-in sta facendo il suo gioco, perché muore dalla voglia di credere alle buone intenzioni del Nord”, dice Craig Urquhart dell’università di Toronto. “Pyongyang si atteggia a vittima assediata, in questo caso fingendo di essere la vera paladina della grande nazione coreana”. I nordcoreani non hanno nessun legame con gli Stati Uniti e a differenza del Sud, che ha metropoli internazionali e zone rurali in cui vivono centinaia di migliaia di “spose ordinate per posta” dai paesi del sudest asiatico, il Nord rimane un paese etnicamente omogeneo. “La sua legittimazione ideologica si basa sul nazionalismo etnico, sull’atteggiarsi a ‘vera’ Corea incontaminata”, dice Urquhart. Ultimamente Pyongyang sta lanciando molti messaggi a “tutti i coreani”. “L’obiettivo a lungo termine di Kim è lo stesso del padre e del nonno, cioè dominare l’intera penisola”, spiega l’esperta statunitense Tara O, autrice del libro The collapse of North Korea. “Lo ha ribadito chiaramente nel suo discorso di capodanno e di nuovo il 24 gennaio, attraverso l’agenzia di stampa di stato, facendo appello in entrambi i casi ai coreani, dovunque vivano. ‘La riunificazione indipendente’ a cui accenna l’agenzia significa ‘niente Stati Uniti’”. Uno dei motivi principali per insistere sulla fratellanza tra i coreani è sottolineare la distanza etnica e geografica della Corea del Sud dagli Stati Uniti. “In termini di obiettivi strategici, penso che stiano provando a vedere se c’è qualche punto debole nel rapporto tra il presidente statunitense Donald Trump e il governo Moon da sfruttare”, dice Andray Abrahamian del Pacific forum center for strategic and international studies, un centro di ricerca di Honolulu. È una cosa su cui la Corea del Nord ha una lunga esperienza. “I leader del Nord sono pazienti, ben informati e maestri nel mettere i loro avversari gli uni contro gli altri”, dice Urquhart. A breve termine, è più probabile che l’obiettivo del governo nordcoreano sia impedire, far rimandare o ridimensionare le esercitazioni militari congiunte di primavera tra Corea del Sud e Stati Uniti, che di solito nella penisola segnano il periodo più teso dell’anno. “Dopo le Olimpiadi Pyongyang cercherà di ritardarle o di farle sospendere”, dice Chung Ku-youn dell’Istituto coreano per la riunificazione nazionale di Seoul. “Sosterrà che aggraverebbero le tensioni nella penisola e che sarebbero dannose per la riapertura del dialogo tra le due Coree”. Ma forse la leggendaria astuzia di Pyongyang è sopravvalutata. “C’è l’idea diffusa che il Nord sia un genio del male e il Sud una democrazia debole e ingenua”, dice Park So-keel della ong Liberty in North Korea (Link), che si occupa dei profughi nordcoreani. “Si tende a sottovalutare il governo e il popolo sudcoreano”. Finora l’alleanza tra Washington e Seoul è rimasta solida. Il 26 gennaio il portavoce del ministero della difesa sudcoreano ha detto che le esercitazioni congiunte si svolgeranno dopo la fine delle Paralimpiadi invernali il 18 marzo. “Moon è abbastanza intelligente da sapere che è rischioso allontanarsi troppo da Washington sulle questioni strategiche”, dice Abrahamian. Anche se alcuni sono convinti che Pyongyang stia cercando di ottenere vantaggi economici da Seoul, o di riaprire progetti di cooperazione economica tra Nord e Sud, gli esperti dubitano che sia così. “Ora la Corea del Nord è fiera di non avere più bisogno di aiuto”, dice Park, osservando che la nascita di un mercato interno ha migliorato l’efficienza economica del paese. “E la Corea del Sud è limitata dalle sanzioni economiche dell’Onu contro Pyongyang”. Nel frattempo Kim sta concentrando la sua propaganda anche su altri obiettivi. “I suoi messaggi sono diretti a pubblici diversi, compreso quello nordcoreano”, dice Pinkston della Troy university. “Anche lui, come il presidente sudcoreano, ha l’obbligo costituzionale di cercare di riunificare il paese”. E aggiunge che l’offensiva olimpica di Kim servirà anche a farsi lasciare in pace dai cinesi – Pechino approva sempre meno il programma nucleare di Pyongyang – e a promuovere un’immagine più positiva della Corea del Nord nel mondo. Ciclo continuo Nonostante il clamore del momento, non è la prima volta che le due Coree si presentano a un evento sportivo con un’unica squadra o sotto la stessa bandiera. Fu così negli anni novanta con le giovanili di calcio e di ping-pong, mentre alle Olimpiadi del 2000 e del 2004 e a quelle invernali del 2006 sfilarono alla cerimonia di apertura insieme. Dato che nessuna di queste iniziative è riuscita a colmare l’enorme divario ideologico e strategico tra i due paesi, non è chiaro fino a che punto i sudcoreani siano disposti a lasciarsi incantare. Dopotutto dieci anni di sunshine policy (la politica del disgelo) messa in atto dai governi progressisti di Seoul dal 1997 al 2008 non hanno
prodotto alcun risultato a lungo termine. “Capita a tutti di avere dei rapporti di amicizia altalenanti, in cui si litiga e ci si riconcilia”, dice Park paragonando le due Coree a una coppia di amici turbolenta. “Non è niente di eccezionale, è un ciclo continuo”. Il governo di Seoul forse tiene più dei suoi cittadini a questo rapporto. “Dai sondaggi è chiaro che la maggior parte dei sud coreani non si lascia prendere in giro, ma resta da vedere quanto è tesa o credulona l’amministrazione Moon”, dice Urquhart. “Invece di sperare ingenuamente di ammansire Kim, Moon dovrebbe tenere a mente che stringere accordi con la Corea del Nord alle sue condizioni costringe sempre chi lo fa, e mai Pyongyang, ad adattarsi”. Il governo Moon, che fino a poco tempo fa si era dimostrato capace di sentire il polso dell’opinione pubblica, potrebbe aver sbagliato strategia per la riconciliazione con il Nord. Da un sondaggio degli ultimi giorni è emerso che il tasso di approvazione verso Moon è sceso per la prima volta sotto il 60 per cento da quando è in carica. Molti hanno criticato la decisione di formare una squadra femminile congiunta di hockey sul ghiaccio, perché così le sudcoreane perderanno la possibilità di vincere una medaglia. E solo il 40 per cento dei sud coreani è favorevole al fatto che gli atleti sfilino sotto un’unica bandiera. Uno dei motivi per cui il governo di Seoul ha accelerato i tempi sulle Olimpiadi è che le sue occasioni sono limitate. “Si promuove troppo la cosa e c’è troppa speranza, sarebbe meglio ridimensionare le aspettative”, dice Park. “Il problema è che Moon ha solo cinque anni, fino alle prossime elezioni, mentre la Corea del Nord e la Cina hanno molto più tempo”. Abrahamian aggiunge: “Penso che sarà un’esperienza illuminante per chi a Pyongyang, e perino nell’amministrazione Moon, pensa che i sudcoreani siano ancora com’erano alla fine degli anni novanta. Credo che ci sia un po’ più di cinismo, e meno interesse per il Nord e per la tragedia del popolo coreano diviso”. O forse no. La settimana scorsa le tv e i giornali sudcoreani erano in subbuglio per l’arrivo della cantante pop Hyon Song-wol, una delle figure di maggior rilievo della Mansundae art troupe di Pyongyang, e anche una colonnella dell’esercito. Al suo corteo di auto è stata accordata una scorta di solito riservata ai capi di stato. E durante i giochi Pyongyang tirerà fuori tutto il suo fascino. A parte un piccolo contingente di 22 atleti, la delegazione nord coreana sembra sia stata scelta per piacere a un pubblico molto diversificato. La squadra delle cheerleader di Pyongyang, definita “l’esercito delle bellezze”, ha già colpito in passato il pubblico maschile del Sud, forse a causa della convinzione diffusa (almeno tra i maschi sudcoreani) che il Sud vanti uomini più belli del Nord ma che le nordcoreane siano più attraenti delle sud coreane. Un’orchestra darà prova della raffinatezza culturale del Nord, e una squadra di taekwondo dimostrerà la forza fisica del suo popolo. Il piano a lungo termine L’offensiva nordcoreana per affascinare il Sud potrebbe continuare, se non altro per indebolire l’alleanza militare tra Seoul e Washington. “Quando la guerra è troppo costosa e non si può avviare un’azione militare unilaterale, si punta su altre cose”, dice Pinkston. “Si ricorre al fascino, al soft power, al confronto ideologico e cose simili per dimostrare la superiorità della propria cultura”. Ma per quanta buona volontà si mostrerà durante le Olimpiadi, probabilmente i risultati non andranno oltre la riunione delle famiglie divise dalla guerra di Corea e la prosecuzione dei colloqui. E nei colloqui, i punti in comune sono pochi: nel primo incontro di alto livello di gennaio, il rappresentante di Pyongyang si è irrigidito quando la delegazione del Sud ha cautamente sollevato la questione della denuclearizzazione. “Stanno avviando il processo con obiettivi contrastanti”, conclude Pinkston. “Non c’è nessuna convergenza”. L’obiettivo finale, che tre generazioni di Kim hanno sempre messo al centro della propaganda, è la riunificazione, alle condizioni del Nord. Questo spiega l’ultimo messaggio di Pyongyang sull’obbligo costituzionale, dice Pink ston. Una domanda che non trova risposta – per la mancanza di informazioni – è se le élite nordcoreane credono davvero alla propaganda sulla riunificazione. Su questo gli studiosi sono divisi. Urquhart sostiene che il progetto di Pyongyang, possibilmente da realizzare tramite una serie di accordi per arrivare a una confederazione e a un’annessione piuttosto che con un’invasione, è rimasto invariato. “Pyongyang non accetterà mai la denuclearizzazione perché ora può fare leva sulle armi atomiche per realizzare i suoi obiettivi a lungo termine”, dice Urquhart. Se alla fine la Corea del Sud si lascerà ingannare o intimidire, Pyongyang studierà con cura le sue mosse per raggirare Seoul e convincerla ad accettare un tipo di “unificazione” che garantisca l’accesso unilaterale del Nord al sistema politico e alla ricchezza del Sud. Abrahamian è scettico: “Penso che i leader di Pyongyang si rendano conto che cercare di annettere Seoul comporterebbe più rischi per il loro sistema che per quello del Sud. Credo che molti politici abbiano capito che per loro sarebbe impossibile mantenere i privilegi di cui godono, e quindi, nonostante la retorica sull’unificazione, non stiano facendo molto per realizzarla”.

Da sapere
Distensione temporanea
Dal 9 al 25 febbraio 2018 a Pyeonchang, in Corea del Sud, si svolgeranno le Olimpiadi invernali. La Corea del Nord manderà una delegazione di 280 persone che include, tra gli altri, il ministro dello sport Kim Il-guk, 229 cheerleader, 26 atleti di taekwondo e 21 giornalisti. Al Sud andranno anche i 140 elementi dell’orchestra Samjiyon, guidata da Hyon Song-wol, leader della girl band Moranbong, e una delegazione di alto livello di 22 persone capeggiata dal presidente del parlamento Kim Yong-nam. Kim, 90 anni, pur ricoprendo una carica simbolica, è il delegato più alto in grado in visita al Sud dal 2014. Incontrerà il presidente sudcoreano Moon Jae-in. Alla cerimonia di apertura parteciperà anche Kim Yo-jong, sorella minore di Kim Jongun e membro del Politburo. u Gli Stati Uniti e la Corea del Sud hanno deciso di rimandare le esercitazioni militari congiunte, che Pyongyang considera una provocazione, a dopo la fine delle Paralimpiadi, il 18 marzo. u Il 2 febbraio la mancata nomina di Victor Cha, contrario all’opzione militare contro Pyongyang, come ambasciatore statunitense a Seoul è stata un segnale preoccupante. Secondo alcune indiscrezioni Washington starebbe pensando a un attacco mirato contro la Corea del Nord dopo il 18 marzo. Un gruppo di senatori democratici statunitensi ha scritto al presidente Donald Trump per avvertire che un eventuale attacco violerebbe la costituzione. “Nel suo primo anno al governo Trump ha capovolto la strategia di Washington sulle armi nucleari”, scrive Time. Mentre i suoi predecessori si erano impegnati a ridurre l’arsenale atomico e a trovare accordi di non proliferazione con altri paesi, per Trump il modo migliore per ridurre i rischi di un attacco è espandere gli arsenali e insistere sulla capacità di distruggere i nemici. Per questo a dicembre ha ordinato al dipartimento della difesa di prepararsi, per la prima volta dal 1992, a condurre un test atomico in Nevada. Inoltre il presidente ha stanziato 1,2 miliardi di dollari per rinnovare l’arsenale nucleare, ha autorizzato lo sviluppo di una nuova testata (non succedeva da 34 anni) e ha deciso di finanziare programmi di ricerca su missili a medio raggio.

internazionale 10.2.2018
L’esclusione di Washington
Seoul ha trattato con Pyongyang senza consultare gli Stati Uniti, e questo ha provocato tensioni con l’amministrazione Trump. Era uno degli obiettivi della tattica nordcoreana
di J. Cheng e M. Gordon, The Wall Street Journal, Stati Uniti

Quando il dittatore nordcoreano Kim Jong-un a capodanno ha suggerito che il suo paese avrebbe potuto partecipare alle Olimpiadi invernali, il presidente sudcoreano Moon Jae-in e i suoi collaboratori si sono riuniti immediatamente per elaborare una risposta amichevole. I funzionari statunitensi non sono stati inclusi nelle consultazioni e sono stati avvertiti solo poche ore prima che Seoul annunciasse la sua proposta di negoziati a Pyongyang. La mossa a sorpresa della Corea del Nord e l’apertura di Seoul hanno creato tensione tra la Corea del Sud e gli Stati Uniti, nonostante le dichiarazioni di pieno accordo. Le differenze sono emerse pubblicamente quando il presidente statunitense Donald Trump, nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione, ha invocato sanzioni più dure contro la Corea del Nord, senza fare alcun riferimento al dialogo in corso tra le due Coree e al suo risultato più evidente: il 9 febbraio, all’inaugurazione delle Olimpiadi invernali di Pyeonchang, gli atleti dei due paesi sfileranno sotto un’unica bandiera. Diplomatici e funzionari di Washington e Seoul stanno cercando di gestire il complesso rapporto tra il governo di Moon, favorevole a un’apertura verso la Corea del Nord, e l’amministrazione Trump, che vuole privare Pyongyang delle sue armi nucleari isolandola e ha avvertito che potrebbe intraprendere un’azione militare se la Corea del Nord non dovesse rinunciare al nucleare. I due alleati hanno tratto conclusioni molto diverse dal discorso di capodanno di Kim. Alla Casa Bianca i funzionari sono rimasti colpiti dalla retorica bellicosa di Kim, che ha ordinato la produzione in massa di testate e missili balistici nucleari e ha invocato la riunificazione della penisola coreana, dichiarando di voler perseguire “la vittoria finale della rivoluzione”. Invece alla Casa blu, sede della presidenza sudcoreana, Moon e i suoi consiglieri sono stati incoraggiati dalla disponibilità di Kim a partecipare alle Olimpiadi e hanno liquidato il resto come le solite espressioni forti della retorica nordcoreana. Un’alleanza da proteggere Stati Uniti e Corea del Sud hanno fatto dei passi avanti per proteggere la loro alleanza. Il 4 gennaio Trump e Moon hanno deciso di rinviare le esercitazioni militari congiunte fino alla fine delle Paralimpiadi, il 18 marzo. I funzionari statunitensi, però, erano ancora irritati perché a dicembre Moon aveva presentato l’idea del rinvio come una richiesta sudcoreana in attesa dell’approvazione statunitense. Temendo che la frattura si aggravasse, il 10 gennaio Moon ha ammesso qualche divergenza con Washington e ha cercato di allentare la tensione riconoscendo a Trump il merito di aver creato l’apertura necessaria al dialogo tra le due Coree. Poi, durante un incontro a metà gennaio a San Francisco, il generale H.r. McMaster, consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, ha ribadito ai colleghi sudcoreano e giapponese l’importanza di mantenere alta la pressione sulla Corea del Nord. Secondo McMaster era necessario procedere con le esercitazioni militari e rispondere uniti ai tentativi di Pyongyang di creare una frattura tra gli Stati Uniti e i loro alleati in Asia. Cercando di mantenere i rapporti sul binario giusto, gli Stati Uniti hanno cancellato lo scalo in Corea del Sud del sottomarino d’attacco Uss Texas, previsto per febbraio. Washington, inoltre, all’ultimo minuto ha concesso a Seoul un esonero dalle sanzioni in vigore contro Pyongyang per permettere agli atleti del Sud di allenarsi in un impianto sciistico nordcoreano insieme agli atleti del Nord, come previsto dagli accordi sulle Olimpiadi presi dalle due Coree. Per allentare le preoccupazioni statunitensi, Seoul ha concordato con Washington di procedere con le esercitazioni militari dopo le Paralimpiadi, come previsto in origine. La geografia è una delle principali ragioni della distanza tra le linee di Seoul e Washington. Mentre Trump ha detto che non permetterà alla Corea del Nord di sviluppare un missile che possa colpire il suolo statunitense con una testata nucleare, la Corea del Sud vive da tempo all’ombra dell’esercito nordcoreano, forte di un milione e centomila soldati. Qualsiasi azione militare americana rischierebbe di trasformare Seoul in un campo di battaglia. Le voci sulla possibilità che Washington sferri un attacco circoscritto contro la Corea del Nord dopo le Olimpiadi, insieme alla mancata nomina, il 2 febbraio, di Victor Cha come ambasciatore statunitense a Seoul, hanno provocato ulteriore confusione e frustrazione nel governo di Seoul. È da un anno che Washington è senza ambasciatore in Corea del Sud e su Cha c’era un consenso unanime. Cha, però, si è dichiarato contrario all’idea di un attacco preventivo. Joseph Yun, un funzionario del dipartimento di stato americano che si occupa della questione, ha escluso un’azione militare statunitense imminente. Ma poco dopo Trump ha inviato un messaggio più duro, ricevendo nello studio ovale otto profughi nordcoreani e sottolineando la questione delle violazioni dei diritti umani in Corea del Nord. Anche la politica interna sudcoreana ha giocato un ruolo importante nell’aumento delle tensioni. Moon, che era stato capo dello staff presidenziale durante il periodo di distensione tra le due Coree, è entrato in carica a maggio con l’impegno di migliorare i rapporti con Pyongyang. Nell’ultimo anno più volte Trump ha attaccato il governo sudcoreano, definendo in un tweet arrendevole la politica di Seoul e scrivendo in un altro tweet che anni di aiuti inviati alla Corea del Nord “non hanno funzionato”. Le divisioni interne ai due governi non hanno aiutato. Secondo i diplomatici statunitensi il ministero degli esteri sudcoreano è spesso stato tagliato fuori dalle decisioni di Moon sulla Corea del Nord, e a Washington un’opzione militare contemplata da McMaster non trova il sostegno del segretario della difesa Jim Mattis e del segretario di stato Rex Tillerson, più propensi a lasciare spazio alla diplomazia.

internazionale 10.2.2018
Le opinioni
Il movimento #MeToo è lontano dall’Africa
di Leïla Slimani


Com’erano belle con i loro abiti neri, i pugni alzati, il sorriso trionfante! Alla premiazione dei Golden globe le più grandi star del cinema mondiale si sono fatte portavoce della causa delle donne. In risposta allo scandalo di Harvey Weinstein, il produttore cinematografico accusato di stupro e molestie sessuali, le attrici hollywoodiane hanno creato un fondo che ha raccolto più di tredici milioni di dollari per sostenere le donne vittime di violenze. “Time’s up!”, tempo scaduto, hanno ribadito più volte, convinte di essere all’alba di una nuova era. Nel giro di poche settimane l’hashtag #MeToo, che invita le donne a denunciare gli abusi, si è diffuso in tutto il mondo, mettendo in luce una verità troppo a lungo negata: le molestie sessuali da parte degli uomini sono un fenomeno universale, a Hollywood o sulla sponde del Mediterraneo. La Svezia, considerata uno dei paesi più egualitari del mondo, è anche quella su cui l’ondata #MeToo si è abbattuta con più violenza. Attori, intellettuali e uomini comuni sono stati denunciati dalle loro vittime e il paese ha dovuto affrontare demoni che credeva di aver seppellito. Ma il movimento #MeToo è davvero un fenomeno mondiale? In Africa le denunce o le testimonianze pubbliche sono ancora molto rare. Questo vuol dire che gli uomini del continente non hanno nulla da rimproverarsi? E che a sud del Mediterraneo non c’è nemmeno un caso Weinstein? Secondo un rapporto della Banca mondiale pubblicato nel 2016, un terzo delle donne africane ha subìto violenze o stupri. Un’africana su due accetta la violenza coniugale come una fatalità. “Le molestie sono radicate nella società, per gli uomini nigeriani sono quasi un diritto. È quasi impossibile, addirittura inimmaginabile, per una donna sporgere denuncia”, ha scritto l’imprenditrice Faustina Anyanwu su Twitter. In Marocco la giornalista Fedwa Misk ha sottolineato divertita: “Per una donna in Marocco dire #MeToo è come dire che l’acqua è bagnata”. Tra il soffrire e il denunciare la sofferenza in pubblico, però, c’è un passo che la maggior parte delle donne non riesce a fare. Per l’artista senegalese Daba Makourejah “è il tabù su tutto quello che riguarda la sessualità” a rendere difficile una mobilitazione femminile di massa, anche attraverso i social network. La pressione sociale, il timore degli sguardi degli altri, la difficoltà delle donne a dichiararsi vittime senza essere screditate ostacolano la liberazione della parola e frenano la crescita del movimento. Nonostante il mondo arabo si sia schierato dietro la sua parola d’ordine, #anaKaman, nella regione non è nato un vero dibattito pubblico per denunciare gli aggressori. Il movimento è rimasto confinato tra le classi medie e alte. E i mezzi d’informazione non hanno dato risalto al fenomeno. In Egitto, dove quasi il 90 per cento delle donne afferma di aver subìto molestie e la capitale, Il Cairo, è al primo posto nella classifica della fondazione Thomson Reuters delle città più pericolose al mondo per le donne, #MeToo non ha attecchito. Il bello della cerimonia dei Golden globe è stato l’emergere di un concetto che fa sghignazzare i maschi alfa: la sorellanza. La risposta collettiva delle donne ha demolito il vecchio mito dell’impossibile amicizia femminile, secondo il quale le donne sono gelose e dispettose. Tuttavia quella messa in scena ha alimentato anche il sarcasmo: le grandi star di Hollywood possono parlare per tutte le donne? Il femminismo che difendono è un concetto puramente occidentale? Perché le donne africane dovrebbero identificarsi con le star bianche e ricche? Il relativismo ha sempre rallentato la lotta femminista. Nel suo testo Dovremmo essere tutti femministi la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie racconta che, in occasione di una conferenza a Lagos, una professoressa le ha detto che il femminismo è una cosa per bianchi, estranea alla “cultura africana”. Secondo Adichie, nel continente africano il femminismo è considerato una questione da “donne infelici”. Come ha dimostrato l’antropologa Françoise Héritier, le donne non devono solo rispettare le tradizioni, ma anche esserne le custodi. Hérietier ha aggiunto che uno dei maggiori punti di forza del patriarcato è proprio la capacità di isolare le donne le une dalle altre e contrastare l’emergere di una loro risposta collettiva. Dire che la lotta per l’uguaglianza tra donne e uomini è una lotta universale, che trascende le religioni e le culture, significa rendere possibile questa risposta, riconoscere alle donne dei diritti inalienabili e restituirgli lo status di cittadine. A Hollywood come a Lagos, a Stoccolma come a Kinshasa, le donne devono poter rivendicare il loro diritto alla sicurezza, all’accesso alle cure mediche, all’istruzione, alla dignità. Non è ancora arrivata l’ora del femminismo universale. Per il momento i Weinstein africani possono dormire sonni tranquilli. Ma farebbero bene a stare in guardia. Le donne africane potrebbero urlare “Tempo scaduto” molto prima del previsto.

internazionale 10.2.2018
Società
Dalla parte dei trentenni
Chi è nato tra il 1980 e il 2000 fa parte della generazione più istruita di sempre, quella dei millennial, ma ha salari e opportunità peggiori dei genitori. Una condizione accettata a causa di prospettive economiche sempre più incerte
di Casper Thomas, De Groene Amsterdammer, Paesi Bassi.


Qualcosa di strano sta succedendo ai giovani nati tra il 1980 e il 2000, i cosiddetti millennial. Si tratta della generazione più istruita di sempre. Nessun’altra nella storia ha ricevuto un’istruzione di livello così alto e ha potuto vantare tanti titoli di studio. Secondo la logica dell’economia della conoscenza, questa condizione dovrebbe garantire grandi vantaggi. Per esempio, salari alti, un lavoro stabile e benessere crescente. Ma alla prova dei fatti questi giovani sono messi peggio dei genitori e dei nonni. “Ogni tipo di autorità – dalle madri ai presidenti – ha raccomandato ai millennial di accumulare più capitale umano possibile”, scrive Malcom Harris nel libro Kids these days: human capital and the making of millennials. “E noi l’abbiamo fatto. Ma il mercato non ha rispettato la sua parte dell’accordo. Cos’è successo?”. Già, cos’è successo? Com’è possibile che anche nei Paesi Bassi la produttività del lavoro continui a crescere mentre il compenso medio di un lavoratore dipendente ristagna? La questione più difficile è capire chi intasca i guadagni extra. “Il numero di contratti a tempo indeterminato diminuisce a favore di altre tipologie di lavoro”. Questa è la spiegazione del Centraal bureau voor de statistiek (Cbs), l’istituto nazionale di statistica olandese. Per “altre tipologie di lavoro” s’intendono soprattutto impieghi pagati peggio e di natura temporanea. E a formare la legione di persone che hanno contratti flessibili sono in gran parte i giovani. Quasi un terzo dei lavoratori dipendenti sotto i 34 anni ha contratti di questo tipo. Nella fascia d’età superiore si scende al 10 per cento. I millennial sono la prima generazione da molto tempo a questa parte a essere più povera di quella precedente. Rispetto a quando erano giovani i loro genitori, i ventenni e trentenni di oggi devono fare mediamente i conti con salari che crescono di meno, con una minore capacità di accumulare patrimoni e con risparmi più scarsi per la pensione. Inoltre sono più indebitati. “Unlucky millennials”: così li ha definiti la banca svizzera Credit Suisse nel suo Global wealth report 2017. Quell’unlucky (sfortunati) è ancora più fastidioso se si pensa che i millennial sono più istruiti e lavorano più duramente delle generazioni precedenti (secondo l’istituto di statistica olandese, il numero di ore lavorate nei Paesi Bassi è salito del 16 per cento negli ultimi vent’anni), ma nonostante questo rischiano di finire più in basso nella scala economica. Il marketing ci presenta i millennial come talenti digitali per i quali tutto è possibile, ma i dati economici dicono che in realtà sono uno dei gruppi più sfruttati degli ultimi tempi. Quando si sollevano questioni di questo tipo, si tirano subito in ballo i problemi con cui devono fare i conti la società e l’economia. La crisi finanziaria, la robotizzazione, una globalizzazione che ha ridotto il benessere dell’occidente a favore del resto del mondo: fenomeni importanti, che rendono difficile mantenere lo stesso livello di ricchezza per tutti. Ma per un gruppo troppo giovane per aver avuto una qualche influenza sul mondo queste sono risposte poco soddisfacenti. Inoltre così si aggira la questione della responsabilità. Un ragazzo tra i venti e i quarant’anni deve sorbirsi una disquisizione di macroeconomia quando chiede perché l’esistenza borghese dei suoi genitori per lui sia fuori portata. In sostanza si sente dire questo: noi, le generazioni precedenti alla vostra, abbiamo creato un sistema che per noi ha funzionato molto bene; c’è stata una solida crescita economica da cui tutti hanno avuto benefici, e per chi restava indietro c’era un welfare generoso. Purtroppo, in entrambi i casi la pacchia è finita. Perché questo è un altro punto che i giovani devono accettare: un welfare che per molti aspetti è meno generoso rispetto al passato. Si può discutere a lungo del dovere di badare a se stessi e di un governo che non spende per il welfare più di quanto permetta il suo bilancio. Ma tra le generazioni c’è una sproporzione. Le pensioni ne sono un buon esempio. “Un giovane paga troppi contributi per la pensione che riceverà in futuro, chi è più in là con gli anni ne paga troppo pochi”, concludeva qualche anno fa il Centraal planbureau, l’ufficio centrale di pianificazione dei Paesi Bassi. Non era una novità. Già nel 2006 il Wetenschappelijke raad voor het regeringsbeleid (Wrr), un gruppo di studio del governo olandese sugli sviluppi futuri della società, aveva avvisato che il welfare era troppo sbilanciato a favore dei cittadini più anziani. Certamente ci sono anche anziani poveri e giovani ricchi, ma il risultato è un trasferimento di ricchezza da una generazione più povera a una più ricca.
Il peso del welfare
La colpa è in parte dei cambiamenti demografici. La crescita della popolazione rallenta dagli anni cinquanta. La conseguenza è che la fascia di popolazione tra i venti e i quarant’anni è la più esigua dalla seconda guerra mondiale. A questo punto bisogna chiedersi su chi vanno fatte ricadere le conseguenze economiche negative di questo fenomeno. Non sono stati i millennial a stabilire le dimensioni della loro generazione. Forse gli sarebbe piaciuto essere più numerosi, cosa che quanto meno avrebbe aiutato a distribuire il peso del welfare su qualche paio di spalle in più. Ma i loro genitori, che invece sono numerosi, hanno pensato che una media di 1,7 figli a coppia potesse bastare. Così la società attuale ha assunto l’aspetto di una carrozza su cui viaggiano le persone che hanno vissuto il momento di massimo splendore del benessere occidentale. La carrozza è trainata a fatica da un gruppo più esile e anche meno numeroso. Chi è fortunato viene ricompensato dai genitori. Una parte della ricchezza dei cosiddetti baby boomer (le persone nate tra il 1945 e il 1964 in Nordamerica e in Europa) riesce, attraverso i legami familiari, ad arrivare alle generazioni successive sotto forma di prestiti, donazioni ed eredità. Sono gesti molto generosi, e un giovane sarebbe un matto a non accettare, ma in questo modo i millennial ereditano una società con più disuguaglianze. Mentre i baby boomer hanno sperimentato un sistema meritocratico, i loro discendenti si ritrovano in un sistema in cui il premio del merito si mescola a una cospicua ricompensa da parte di genitori benestanti. Dal finestrino della carrozza arrivano nel frattempo consigli benevoli: fai del tuo meglio a scuola, investi su te stesso per poter percorrere il sentiero verso un futuro incerto con il bagaglio di conoscenze più ampio possibile. Tutti saggi consigli. È pur sempre l’unico modo per ottenere il massimo, in presenza di prospettive sempre meno rosee. Ma l’impoverimento collettivo causa spaccature interne. Per i millennial i loro coetanei sono soprattutto dei concorrenti diretti. Il mondo in cui i trentenni sono cresciuti non è caratterizzato solo da una maggiore disuguaglianza, ma anche da una lotta interna più dura. Futuro produttivo La conseguenza è una gara che chiede di dedicare molto tempo ad accumulare conoscenze e competenze. E bisogna cominciare a farlo il prima possibile, perché chi perde tempo viene punito. Se non ci si dedica abbastanza ad accrescere le proprie possibilità nel mondo del lavoro, si lascia spazio a qualcun altro che, facendolo, si sta avvantaggiando. Chi si domanda come mai i millennial siano così morigerati (escono meno, consumano meno droghe e alcol e fanno sesso più tardi, per citare qualche studio recente) ecco un accenno di risposta: i millennial sanno che vale la pena d’investire la maggior parte possibile del loro tempo in un futuro produttivo. In un certo senso abbiamo disimparato a pensare in termini di scontri generazionali. Una generazione di genitori coinvolta come mai prima nelle gioie e nei dolori dei propri figli e che coltiva con loro un legame amichevole non è in sintonia con l’idea del vecchio che sfrutta il giovane. Un’altra cosa che abbiamo disimparato è pensare in termini di sistemi economici che tengano conto di tutti. Si tratta probabilmente di una combinazione tra la convinzione incrollabile che ogni individuo sia capace di fare qualcosa della propria vita (e il conseguente dovere morale di farlo) e una certa avversione per le tinte marxiste delle politiche perseguite negli anni sessanta e settanta. In ogni caso i risultati economici raggiunti dalla società attuale non corrispondono spesso a un modello equilibrato di produzione, accumulo e ripartizione del capitale. Per fortuna c’è un millennial in grado di dare un contributo al dibattito con un’analisi del sistema economico in cui si mette in luce la lotta silenziosa tra generazioni. Kids these days di Harris è, a quanto mi risulta, la prima indagine strutturale del tipo di capitalismo in cui sono cresciuti i millennial. Mentre nell’epoca industriale dettavano i tempi il capitale materiale e monetario, scrive Harris, oggi è determinante il capitale umano. Accumulare conoscenze e competenze e farle fruttare in modo produttivo è il modello seguito dalle persone per provvedere al loro sostentamento e allo stesso tempo è il principale pilastro dell’economia. Non è di per sé una rivelazione, ma Harris mostra come funziona questo modello per la sua generazione: i ricavi dell’accresciuto capitale umano non vanno a chi lo possiede, altrimenti tutti questi millennial ben istruiti avrebbero una prospettiva di vita più favorevole e non un salario stagnante. Si tratta di marxismo applicato all’economia della conoscenza del ventunesimo secolo. Da questa prospettiva emerge qualcosa che non va. Prendiamo lo stage, l’inevitabile rito di passaggio nella vita lavorativa. Un periodo di apprendistato non pagato è considerato una preparazione importante al lavoro. Chi fa uno stage (di solito un giovane) riceve un favore (di solito da qualcuno più anziano): lavoro in cambio di esperienza, l’accordo è questo. Potrebbe sembrare un accordo che dà vantaggi a entrambe le parti, se non fosse che una delle due ha qualche vantaggio in più dell’altra. I datori di lavoro possono pagare parte dei loro dipendenti in esperienza e tenersi i soldi in tasca. Allo stesso tempo una generazione si offre gratuitamente per un futuro lavorativo in cui continuerà a far girare l’economia e pagare contributi e tasse. Di fatto i vecchi hanno tanto bisogno dei giovani quanto i giovani dei vecchi, ma nel mercato del lavoro si crede che questa relazione di dipendenza sia unilaterale. Gli stagisti hanno ancora tanto da imparare, dicono i più grandi. Devono essere accompagnati e il lavoro che svolgono non è ancora ai livelli garantiti dai lavoratori retribuiti. Sono tutte argomentazioni vere, ma conseguenza di un rapporto in cui la forza negoziale del giovane è debole. Con lo sguardo a un futuro incerto, per i giovani è sensato firmare l’accordo. È pur sempre un modo per restare un passo avanti rispetto ai coetanei nella lotta per un lavoro ben pagato. Intanto, però, le scarse prospettive di trovare un buon posto di lavoro sono usate per convincere i giovani a offrire il loro lavoro gratuitamente. “In un mercato del lavoro in cui una lettera di raccomandazione e una voce sul curriculum valgono tanto, noi millennial siamo disposti a dare via l’unica cosa che abbiamo: il nostro tempo e la nostra energia”, scrive Harris. Ci sono anche altri modi in cui i millennial si lasciano imbrigliare economicamente perché il futuro lo richiede. A lungo l’istruzione universitaria è stata praticamente gratuita, perché si pensava che in questo modo la società si assicurasse una futura generazione di lavoratori ben istruiti. Quel modello è stato sostituito da un altro in cui la formazione è un investimento individuale che darà i suoi frutti più avanti. Come spiegare altrimenti l’enorme aumento dei debiti contratti per l’istruzione universitaria? Con l’aumento delle tasse universitarie e l’abolizione delle borse di studio il debito medio di uno studente olandese salirà, secondo le previsioni, a 24mila euro per laureato. Andando in rosso di qualche decina di migliaia di euro un universitario si compra la possibilità di guadagnare meglio in futuro. Contro questa idea hanno protestato nel 2015 gli studenti dell’università di Amsterdam e di altre città olandesi. Gli studenti che hanno occupato la Maagdenhuis, il centro amministrativo dell’università di Amsterdam, sono stati etichettati come “millennial viziati”, ma le loro proteste hanno mostrato i rischi nascosti nella “logica dell’investi-su-te-stesso”: cosa succede se i guadagni non arrivano, magari perché è difficile trovare un lavoro, com’è successo nei recenti anni di crisi, o perché gli studi scelti portano a lavori con entrate relativamente basse? Questi rischi sono sempre esistiti, ma fino a poco tempo fa erano condivisi da tutti, giovani e vecchi, di successo o meno. Oggi, invece, chi prende un certo numero di decisioni sbagliate negli investimenti su se stesso ne paga il prezzo individualmente. Il capitalismo dei millennial privatizza il rischio, mentre il profitto che deriva da una popolazione ben istruita è collettivo. Non sembra un buon affare, e infatti non lo è. E l’alternativa, quella di non studiare, è ancora più costosa. Il modello competitivo dell’economia della conoscenza è fatto in modo che la decisione di indebitarsi prima di entrare nel mercato del lavoro risulti comunque più conveniente di qualsiasi altra opzione. Le competenze necessarie In Kids these days, Harris si chiede se i giovani non si arrendano troppo facilmente. “Se rifiutassero di pagare la loro preparazione al lavoro con il tempo, la fatica e i debiti, le aziende dovrebbero usare parte dei loro profitti per fornire ai dipendenti le competenze necessarie”. Nell’economia attuale invece se la cavano riducendo gli stipendi, mentre i loro profitti aumentano. Gli arrivano gratuitamente forze fresche, pronte all’uso e con un futuro ipotecato, che lavoreranno senza lamentarsi. Chi ha un creditore che viene a bussare ogni mese, non si licenzierà per lanciarsi in un’avventura incerta. In questo modo Harris traccia il legame tra i grandi movimenti in cui si trovano imprigionati i millennial. Cercare di spremere il massimo da ogni giovane lavoratore sostenendo i costi più bassi possibili è una risposta allo stallo prodotto dall’evento che ha dato vita all’economia dei millennial: la crisi del 2008. Per crescere, il capitalismo cerca di continuo nuovi mercati ed escogita trucchi per contenere i costi e aumentare la produttività. Far lavorare duramente i giovani e assumerne pochissimi fa parte della strategia, così come limitare i loro diritti, farli indebitare o non pagarli in proporzione all’aumento della loro produttività. Sono solo l’etica e i patti sociali a impedire che altre fasce della popolazione siano trascinate dentro questo modello di mercato. Per esempio, non chiediamo a chi ha più di 67 anni di impiegare il suo tempo in modo produttivo, perché pensiamo che abbia già fatto abbastanza nel corso della sua vita. Non abbiamo pretese produttive neanche verso i bambini, perché pensiamo che essere piccoli equivalga a essere liberi dalla disciplina del lavoro. Ma il pensiero produttivo riesce comunque a farsi strada. Nel suo libro Harris cita una lettera con cui la direzione di una scuola elementare di New York informava i genitori che la recita annuale dei bambini era stata annullata. La lettera faceva riferimento alle “esigenze del ventunesimo secolo” e alla necessità che i bambini diventino “buoni lettori, scrittori e risolutori di problemi”: insomma, il tempo che sarebbe stato speso in prove era meglio dedicarlo alla grammatica e alla matematica. Non è uno scherzo. Nel 2014 la scuola ha deciso, in nome del futuro dei suoi alunni, di annullare qualcosa di improduttivo come uno spettacolo teatrale. Secondo Harris questo dimostra come un regime basato sulla produzione stia segnando le vite dei bambini. I bambini non possono lavorare, spiega, ma quello che si può fare è caricarli il più possibile di conoscenze che applicheranno una volta raggiunta l’età per lavorare. “Obbligazioni sull’infanzia”, le chiama Harris: investimenti sui giovanissimi nella speranza che siano ripagati quando saranno adulti. Certo, questo è un esempio estremo, per di più proveniente da una città ipercompetitiva come New York dove, sostiene Harris, anche quando i bambini giocano insieme i genitori si chiedono se da quell’incontro impareranno abbastanza (Harris evidenzia così la volontà nascosta di segregazione sociale: i genitori con un alto livello d’istruzione non hanno paura che i figli entrino in contatto con altre abitudini, ma temono che frequentando persone meno istruite si riducano le possibilità di riuscita economica). Eppure non è difficile cogliere in questo modo di pensare quello che succede altrove in forma ridotta. Nei Paesi Bassi il governo ha ideato il “curriculum orientato al futuro” per preparare gli studenti a una “società in cambiamento” (ci sono momenti in cui la società non cambia?). Di nuovo lo stesso schema: un futuro per definizione ignoto determina un modello a cui adattare giovani vite. Lo stesso vale per i genitori, preoccupati che i figli frequentino le scuole giuste, e per il settore sempre più ampio della cosiddetta “istruzione ombra”, che offre preparazione agli esami e aiuto nello studio. Sono tutti sviluppi con un doppio volto: sono dettati dall’interesse per il bambino, ma allo stesso tempo rivelano un’economia che cerca di spremere il più possibile da ogni cervello umano. Harris usa il concetto di “maschera pedagogica”, un termine preso in prestito dal sociologo dell’istruzione tedesco Jürgen Zinnecker. Diciamo ai bambini che vogliamo insegnargli il più possibile, ma allo stesso tempo li prepariamo a diventare lavoratori il più possibile produttivi. La domanda è quando si può cominciare a imporre il futuro a dei minorenni. L’infanzia come parametro Apro una piccola parentesi autobiografica. Scrivere sui bambini è sempre rischioso. Come tutti, anch’io tendo a prendere la mia infanzia come parametro per la situazione attuale. E una volta, lo sanno tutti, tutto era meglio. È per questo che il titolo del libro di Harris è ben scelto: Kids these days, l’espressione usata da ogni generazione di adulti parlando di chi è venuto dopo. Anche se devo dire che io non la uso spesso. Non ho figli e la maggior parte dei bambini che mi circonda è ancora troppo piccola per essere ritenuta responsabile delle proprie scelte. Resto stupito quando sento che studenti delle superiori lavorano al loro curriculum e che i genitori tengono d’occhio le prestazioni dei figli attraverso un “sistema digitale per seguire gli studenti”. Qualche altra piccola considerazione personale. Sono nato nel 1983. Secondo alcune definizioni questo mi farebbe rientrare nella categoria dei millennial. Ma se una caratteristica del millennial è vivere in condizioni economiche precarie ed essere stato inseguito in da piccolo dalla “società delle prestazioni”, allora non sono un millennial. Il primo esame che mi hanno messo sotto al naso è arrivato solo alla fine delle elementari. All’università ho studiato quello che mi piaceva e l’idea che il futuro avrebbe potuto essere economicamente più cupo del passato era un’astrazione. Questo vale, per quanto ne so, per la maggior parte dei miei coetanei. Il cambiamento, così pare, è arrivato solo con la crisi economica, e all’epoca la maggior parte di noi era già a bordo dell’ultima nave salpata da un porto sicuro. Ma forse è proprio questo il punto e, come afferma Harris, non si tratta di stabilire dei confini precisi al fenomeno millennial, per poi attribuirne tutte le caratteristiche a chi ci rientra. Sarebbe un invito al tipo di sociologia approssimativa che definisce il pensiero attuale sui millennial: una generazione che guarda a se stessa, con un ego straordinariamente vulnerabile e una dipendenza dagli smartphone. In molti casi queste conclusioni sono anche calzanti (anche per non millennial, tra l’altro), ma dicono poco sul tipo di società di cui questa generazione è il prodotto. “I millennial non sono spuntati dal nulla”, scrive Harris. “Non siamo comparsi da una crepa sullo schermo di un iPhone”. Tutto ha avuto origine da un’economia che a un certo punto ha cominciato a iperventilare, come un millennial con un attacco di panico. Il capitalismo cerca disperatamente ciò che non è ancora orientato alla massimizzazione del profitto per trasformarlo il più in fretta possibile in un mercato, scrive Harris, che è stato coinvolto nelle proteste di Occupy Wall street, scrive per la rivista di sinistra Jacobin e ha l’immagine di una falce e martello sul profilo di Twitter. “Chi ne trae profitto la chiama disruption, la sinistra parla di ‘neoliberismo’, per i millennial si tratta del ‘mondo’. E il mondo è uno schifo”. Harris è nato nel 1988 e questo dice molto. La sua generazione è la prima cresciuta completamente all’interno di un sistema in cui il mercato ha invaso quasi tutti gli aspetti della vita. Millennial non è quindi tanto una definizione leggera per la generazione dello smartphone, quanto un’indicazione delle condizioni del capitalismo nel periodo a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo. Ancora Harris: “Il carattere di un millennial è il risultato di una vita passata a investire sul proprio potenziale e a essere trattato come un prodotto finanziario rischioso”. I millennial sono una generazione “nata in cattività”, in cui ognuno viene esaminato in dall’inizio per vedere se raggiungerà a pieno il suo potenziale. E i parametri per giudicarlo sono, in mancanza di meglio, soprattutto economici. Se si va avanti così, in futuro saremo tutti millennial: vivremo in una società in cui le vite rientreranno in dall’inizio in un regime di massimo profitto con costi di produzione bassi il più possibile, mentre il dorato ventesimo secolo si farà sempre più piccolo nello specchietto retrovisore.

internazionale 10.2.2018
Kathleen Richardson
Il sesso giusto
È un’antropologa femminista convinta che il commercio dei robot del sesso peggiorerà la condizione delle donne. Per questo ha fondato un’associazione per fermarlo
di Alexander Krex, Die Zeit, Germania


Sta facendo buio a Londra. La professoressa Kathleen Richardson si ferma sul marciapiede e tira fuori un’arma immaginaria. Piega il braccio, come se impugnasse una pistola, e mira a un bersaglio invisibile. “Immagina che si stia avvicinando qualcosa di molto potente. Che fai?”, dice. Da anni la sua risposta è sempre la stessa: non indietreggiare, anche se probabilmente perderai. La battaglia che Kathleen Richardson combatte è quella contro i robot del sesso, anche se per ora ne esistono solo pochi esemplari. I suoi nemici non sono i robot, perché secondo l’antropologa le bambole di gomma con un chip in testa sono solo degli oggetti. I veri nemici sono gli uomini, come lo statunitense Matt McCullen, che con i robot del sesso spera di diventare ricco. Ma i nemici sono anche i progressisti che considerano la sessualità una questione privata. E i nerd convinti che tutto sia possibile e che rispettano solo i limiti imposti dalla tecnologia ma non quelli etici. Kathleen Richardson ha 45 anni, è una donna di bassa statura con grandi occhi verdi e i capelli neri. Può sembrare una ragazza mentre gira per Londra con un impermeabile a fiori e uno zaino sulle spalle. Quando parla, passa velocemente da un tema all’altro. Richardson è un’antropologa e insegna etica robotica e intelligenza artificiale all’università di Leicester. Ma è anche la fondatrice di Campaign against sex robots, un’associazione formata da quattro docenti universitarie che chiedono di vietare i robot del sesso. Le quattro donne sono state ascoltate anche alla camera dei lord di Londra e a Bruxelles. Per Richardson il tema è di scottante attualità. Come succede spesso con la tecnologia, la teoria non riesce a stare dietro ai fatti. Richardson si trova a Londra per partecipare a una conferenza femminista. Secondo lei la catastrofe è imminente: le persone rischiano l’alienazione totale. In Giappone, sostiene, la catastrofe è già arrivata: “I giapponesi fanno sesso sempre di meno. Invece di uscire con persone reali, hanno relazioni con personaggi dei videogiochi”. Quella che per Richardson è una distopia per altri è un’enorme opportunità. Oggi il settore delle tecnologie legate al sesso fattura circa trenta miliardi di dollari all’anno grazie ai sex toys computerizzati. E i robot del sesso, secondo gli esperti, avvieranno un nuovo boom del mercato. L’università di Duisburg-Essen ha condotto uno studio che ha coinvolto 263 uomini: il 40 per cento di loro ha ammesso di aver preso in considerazione l’idea di comprare un robot del sesso. Il potenziale bacino di clienti quindi è gigantesco. Docile e sottomessa All’inizio del 2018 sono arrivati sul mercato i primi modelli, che costano circa 15mila dollari. Sono prodotti dall’azienda californiana Abyss, leader nel settore delle bambole di silicone. Negli ultimi anni il fondatore della società, Matt McMullen, ha investito centinaia di migliaia di dollari nel tentativo di dare vita alle sue bambole. Grazie all’intelligenza artificiale sapranno reagire alle azioni di una persona e ricordare le sue preferenze. Il cliente potrà deciderne l’aspetto: colore della pelle, seno, viso, capelli. Quanto al carattere, i produttori non si sono allontanati dall’idea della donna nei ilm porno: docile e sottomessa. Prima o poi Harmony e le sue sorelle, che possono anche essere affittate, faranno concorrenza alla prostituzione? Per Richardson no. Nonostante la diffusione dei film porno le donne impiegate nell’industria del sesso non sono mai state così tante. La sera prima della conferenza, Richardson è seduta in un pub e spiega perché odia le bambole del sesso: sono donne i cui orifizi hanno una sola funzione, essere penetrati. Il cameriere ascolta per caso la nostra conversazione e non riesce a nascondere un’espressione stupita. Dal Golem medievale, passando per l’Olympia della novella L’uomo della sabbia di E. T. A. Hofmann fino a Terminator, Blade runner e Westworld, nelle nostre fantasie gli automi creati dall’uomo sono sempre stati più della somma delle loro parti. Eppure, quello che nella fantascienza degli anni ottanta sembrava un futuro lontanissimo come quello di Star trek oggi è il presente. Per Richardson i miti sulle macchine pensanti, che fanno parte dell’inconscio collettivo, sono un problema: fanno il gioco di chi vuole usarli per arricchirsi. La conferenza femminista si svolge in un’università, in centro. All’ingresso c’è un banchetto con gadget, una borsa di stoffa con la scritta “facciamo a pezzi il patriarcato”, magliette con lo slogan “le vere donne non si radono”. L’aula in cui parla Richardson è rivestita di vecchia moquette blu. Nella prima diapositiva che la professoressa proietta sulla lavagna si vedono due immagini, un set di vibratori colorati e una bambola bionda con un seno enorme e un sorriso lascivo. I vibratori, dice Richardson, sono semplici strumenti per la stimolazione, una bambola invece rappresenta una donna. Gli uomini in particolare non vogliono cogliere la differenza. “È chiaro che non ho nulla contro i vibratori, usateli”, dice l’antropologa. Dopo si comincia a fare sul serio: Richardson espone il suo argomento fondamentale, una critica di Cartesio e del suo famoso “Cogito ermo sum” (penso dunque sono). La concezione dell’uomo che ne deriva – Richardson la chiama “patriarcato egocentrico” – secondo lei è sbagliata. “Non esistiamo perché pensiamo, esistiamo perché ci sono altri che ci scaldano, ci nutrono, ci proteggono”, dice. Quello che ci rende degli individui non è un’idea, ma l’empatia. Ed è proprio quest’ultima a essere messa a rischio quando ci relazioniamo con un robot che possiamo trattare come ci pare. Il punto per l’antropologa è: la vendita di robot sessuali abbassa le inibizioni degli uomini ad andare con delle prostitute, che verrebbero trattate come dei robot. Richardson cita la pubblicità di una bambola del sesso: “Mi puoi trattare come una donna non ti permetterebbe mai di fare”. A quel punto una ragazza si alza dalle ultime file e ringrazia Richardson per le sue spiegazioni. Poi alza la voce: “Divento furiosa se penso che, attraverso i robot sessuali, gli uomini si possono sfogare sul nostro corpo”. Parte un applauso.
L’empatia in pericolo
Per Richardson al centro della questione non ci sono solo le donne. Vuole salvare anche gli uomini, anche loro vittime di una logica consumistica che trasformerebbe le relazioni in merci. Fortunatamente come antidoto c’è l’amore. La sala è d’accordo, qui Richardson gioca in casa. Di solito parla davanti a sviluppatori ed esperti di tecnologia e la maggior parte di loro non la segue su questo punto. Ai nerd abituati a ridurre i problemi a sequenze di zero e uno il discorso di Richardson suona incomprensibile. Da giovane Richardson era comunista, sognava che l’umanità potesse essere libera, grazie a una ripartizione equa del lavoro, magari con l’aiuto dei robot. “Un robot aspirapolvere che mi pulisce casa? Sarebbe utile”, dice l’antropologa. In seguito ha studiato l’intelligenza artificiale, passando mesi in un laboratorio dell’Mit, in Massachusetts. Si è occupata anche di un progetto europeo che punta a far uscire i bambini autistici dall’isolamento con i robot. Per Richardson però i robot sono una simulazione, materia morta. Punto. Dei cani sarebbero stati più salutari, dice. Alla fine del suo intervento uno dei pochi uomini nel pubblico si avvicina al palco. È un antropologo canadese di venticinque anni. Vuole sapere da Richardson cosa succederebbe se i robot sessuali venissero proibiti. Chi li compra finirebbe in carcere? È davvero convinta che gli uomini sceglierebbero di fare sesso solo con i robot? L’antropologa lo interrompe: “Non sarebbe sesso, per quello ci vogliono almeno due persone”. La sua battaglia si combatte anche sui concetti. Chi ha altre domande può fargliele via Skype, dice, ora deve partire. “Scrivetemi un’email, mi trovate online, basta cercare su Google ‘Feminazi’”. In rete spesso la chiamano così. Poi se ne va. L’antropologo canadese resta nell’aula. Richardson non crede che anche le donne potranno essere interessate ai robot sessuali, quando questi diventeranno più eloquenti? Glielo avrebbe chiesto volentieri. Non sarebbe stato il primo a farle questa domanda. Ovviamente potrebbe succedere, ha risposto Richardson in un’altra occasione. Ma lei farà tutto il possibile perché non avvenga.