giovedì 8 febbraio 2018

Corriere 8.2.18
Rosmersholm
Il protestantesimo di Ibsen nelle ambiguità di coppia
di Franco Cordelli


Rosmersholm di Ibsen nella versione di Luca Micheletti, prodotto dal teatro Franco Parenti è una sorpresa per una quantità di motivi. Prima sorpresa, Micheletti in quanto giovane regista e attore. Seconda, il suo aver messo in scena non il testo di Ibsen ma la versione che ne fece Massimo Castri nella stagione 1979-80 (con Piera Degli Esposti e Tino Schirinzi). Terza, l’aver spostato la linea della regia di Castri da un piano essenzialmente metateatrale a un piano psicanalitico. Quarta, lo spettacolo in sé, di conseguita, plausibile credibilità.
L’ultima osservazione riguarda il senso di lieve repugnanza (e incredulità) che viene dal testo di Ibsen. Osservavo qualche settimana fa, discutendo lo spettacolo da Cesare Lievi dedicato a Martin Lutero, come egli non prendesse posizione di fronte al protagonista — di cui aveva tracciato la figura. Lievi sembrava lontano tanto dalle sue radici quanto da ciò che sarebbe diventato il protestantesimo, in alcune conseguenze estreme.
Quelle conseguenze in Rosmersholm sono evidenti in specie rispetto al rapporto uomo-donna. Nell’analisi del testo Freud ebbe buon gioco: svelò senza esitazioni, o reticenze, la prima natura di colpa della protagonista Rebekka nel suo passato incestuoso. L’incesto si ripete quando Rebekka entra in casa Rosmer, dove in stato di coscienza poco più che larvale prende il posto della moglie di Rosmer, Beate: una entrata in scena che condurrà Beate al suicidio e Rebekka a prenderne il posto, a metà strada tra la condizione di governante, di amica e di figlia (a causa della differenza d’età).
Il rapporto che poco a poco, sottilmente, inconsapevolmente, si è sviluppato tra Rosmer e Rebekka è di doppia natura: quella sessuale o amorosa; quella ideale, idealizzante. Si incontrano due mondi diversi: antico quello di Rosmer, liberale se non spavaldo quello di Rebekka. I due mondi si impregnano l’uno dell’altro, l’uomo e la donna non solo si amano ma si desiderano e l’uno diventa l’altra, è come se si scambiassero i ruoli o si trasformassero in una sola persona. Il bello, ma anche lo sgradevole di Ibsen è che la sua ambiguità non si capisce fino a che punto sia ambiguità dell’arte o complicità con un mondo oscuro che mai cessa di ammantare la realtà di reticenza e irraggiungibili ideali.
A questo punto interviene Castri. Sfoltisce il dramma, lo depura, restano in scena solo i due protagonisti. Sono già morti suicidi, rievocano a sprazzi e frammenti la loro vicenda. Nello spettacolo di Micheletti li troviamo (lei è una drammatica, lacerante Federica Fracassi) distesi su un tavolo. Sono non più in un manicomio, come in Castri, ma in una camera mortuaria: candele, lampade e lumini li lasciano intravvedere nel loro gioco al massacro. Arriveranno nei sussurri, nelle rotte voci, non solo a unirsi di nuovo, come nel nodo freudiano, ma a di nuovo dissolversi come nella gora del fiume dove si erano lasciati annegare.