giovedì 8 febbraio 2018

Corriere 8.2.18
Maestri
Cinquant’anni fa moriva il direttore de «Il Mondo». La vocazione atlantica e le battaglie laiche
Mario Pannunzio aveva un sogno L’Italia Paese moderno e liberale
di Giuseppe Galasso


Il nome di Mario Pannunzio (nato a Lucca nel 1910 e morto a Roma cinquant’anni fa) è strettamente legato al settimanale, «Il Mondo», che diresse dall’inizio, nel febbraio 1949. La sua era, già allora, una personalità nota per vari aspetti. E, tuttavia, la direzione de «Il Mondo» fu quasi una rivelazione per la svolta che egli subito sembrò dare al dibattito delle idee, alla polemica politica, allo stile giornalistico.
Già operava in tal senso la molto studiata veste grafica del giornale, di un’assoluta ed elegante «pulizia» nel suo essenziale bianco e nero, di un calcolato e rigoroso equilibrio nella sua impaginazione e nello snodarsi delle sue pagine in articoli e rubriche o servizi, e sempre di un gusto impeccabile e di una efficace pertinenza nella sua ampia, ma non ridondante, illustrazione fotografica. Un giornale di classica perfezione grafica, benché l’ormai imperante tecnica della stampa in rotocalco ne attutisse fatalmente il nitore tipografico.
A loro volta, le sue idee e le sue battaglie ne determinarono ben presto una suggestione e un’influenza superiori alle prime attese. Il sentimento e il pensiero liberali del direttore vi si riflessero appieno. Era, il suo, un liberalismo che nella sua sostanza etico-politica si rifaceva appieno a Benedetto Croce, ma si traduceva poi in battaglie civili e culturali per le quali il liberismo di Luigi Einaudi, il radicalismo moralista e concretista di Gaetano Salvemini, la crociata antimonopolista di Ernesto Rossi e molte altre alte ispirazioni coeve convergevano nell’agitare i più vari problemi di apertura, modernizzazione, liberalizzazione, equilibrio, avanzamento morale e materiale della società italiana.
Vi si univano le più salde convinzioni in materia di scelta occidentale ed europeista, di opposizione a ogni compromesso o equivoco con le idee e il mondo comunista, di garanzia dell’equilibrio e della sicurezza democratica quali il centrismo degasperiano aveva impostato. Ancora più forte, se possibile, era lo slancio nella promozione e difesa della causa laica, sia per ogni verso sul piano generale della cultura moderna e della tradizione italiana, sia, più specificamente, come difesa della laicità dello Stato, e innanzitutto delle sue scuole. E l’occhio era rivolto al Risorgimento, con capofila Cavour, e ai valori «risorgimentali», visti come la realistica preconizzazione dell’«Italia civile», ossia modernamente europea, a cui si mirava.
La stella polare di questo orientamento era sempre nel criterio degli «interessi generali» del Paese. Un criterio concettualmente arduo, ma reso concreto dal principio liberale, che lo ispirava, della «libertà liberatrice». E, cioè, la libertà quale valore supremo e non negoziabile, forza innovatrice ed elevatrice se tradotta in una prassi assidua, ininterrotta, anche insoddisfacente e discutibile, perché l’esercizio costante è il primo motore del suo progresso e di una sua stabilizzazione a più alti livelli, e perché la libertà nasce e vive nella storia, e non è un’idea che venga prima e stia sopra la storia.
Questa concezione storicizzante della libertà era una grande forza del giornale nelle sue tante battaglie, ma non toglieva che Pannunzio incontrasse difficoltà a seguire gli sviluppi della politica italiana fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Egli pensava, inoltre, che il suo potesse essere non solo un grande organo di opinione, bensì anche il nucleo generatore di una nuova e più forte presenza politica liberale in Italia, insinuando una «terza forza» nel duello fra «rossi» e «neri», che paralizzava l’Italia. Perciò assecondò prima lo sviluppo degli Amici del «Mondo», con convegni, fra il 1955 e il 1959, di forte richiamo su vari problemi italiani; poi la formazione di un nuovo partito, quello radicale, che fu però, in quella fase, un insuccesso.
Avversari e critici vi videro la prova di una sua errata lettura della realtà italiana, ma, nella nuova Italia della fine degli anni Cinquanta, avviata al centrosinistra, Pannunzio stesso cominciò a capirlo più che non sembrasse o dicesse. Per effetto naturale di questo mutare, «Il Mondo», da giornale di avanguardia liberale in un’Italia in cerca di guide e di orientamento, quale fu nei suoi primi anni, divenne davvero sempre più quel giornale di ristrette élites che ad esso si imputò sempre di essere. Appariva meno proiettato verso il futuro e il nuovo, e più volto a specchiarsi nel proprio patrimonio di idee, a sognare il suo sogno dell’«Italia della ragione». Con gli anni il gruppo numeroso dei maggiori intellettuali e giornalisti italiani, e di quelli da lui stesso allevati, raccoltisi intorno a lui (il giornale, si diceva, aveva più firme che lettori) si era frammentato. Pannunzio non era uomo da non capirlo, mentre dimezzavano pure i lettori. Poi, ad appena due anni dalla chiusura del giornale nel marzo 1966, anch’egli il 10 febbraio 1968 si spense. Quasi l’allegoria di un destino annunciato. Ma anche memoria di un sogno che varrebbe ancora la pena di sognare .