Corriere 5.2.18
Diffido dell’istruzione
di Alessandro D’Avenia
«Caro
professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. Ho
visto ciò che nessuno dovrebbe vedere: camere a gas costruite da
ingegneri istruiti, bambini avvelenati da medici ben formati, lattanti
uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da
diplomati e laureati. Diffido – quindi – dell’istruzione. Aiutate i
vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai
produrre dei mostri formati, degli psicopatici qualificati, degli
Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono
importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani». Fu il
compianto dirigente della mia scuola, qualche anno fa, a condividere
questa lettera apparsa su Le Monde in un pezzo della scrittrice Annick
Cojean. L’occasione era il Giorno della Memoria, ricorrenza sterile se
non ricorda un fatto che il XX secolo ha inciso nella storia a caratteri
di sangue: non basta essere istruiti per essere umani.
Il
divorzio tra istruzione ed educazione è uno dei mali peggiori della
scuola, frutto del luogo comune secondo cui esisterebbe un’istruzione
neutra. Invece sempre si educa mentre si istruisce, perché la prima
comunicazione è quella dell’essere, e solo dopo arrivano le parole,
altrimenti non sarebbe necessaria la relazione viva con i ragazzi, ma
basterebbe caricare le lezioni sulla rete. In senso stretto non esiste
insegnamento in differita , ma solo in diretta .
Insegnare è una
branca della drammaturgia. È l’essere dell’insegnante che genera la
conoscenza, perché apre la via al desiderio dello studente, che scorge
nel docente una vita più viva e libera grazie alla cultura e al lavoro
ben fatto, e la vuole anche per sé. Lo ricordava con precisione il Nobel
Canetti nella sua autobiografia: «Ogni cosa che ho imparato dalla viva
voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me
l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine . È
questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo». Le nozioni più
raffinate da sole non rendono umani, tutto dipende da come gli
insegnanti si relazionano tra loro e con i ragazzi, perché, prima delle
nozioni, sono le relazioni a essere generative dell’io e del sapere. È
nella relazione che si impara a sentire il valore del sé come
destinatario del dono del sapere. Quali insegnanti siete tornati a
ringraziare e per cosa? Per la lezione sulle leggi della termodinamica e
su Leopardi, o per come vivevano e offrivano la termodinamica e
Leopardi proprio a voi?
Qualche tempo fa mi scriveva uno studente:
«Le racconto due esperienze. La prima: la faccia polverosa della
scuola. Un professore, che aveva esordito in prima liceo con “siete
troppi: vi ridurremo”, pochi giorni fa ha condensato l’amore per il suo
lavoro in questa frase: “Un insegnante non deve avere cuore, deve avere
un cuore di pietra... altrimenti farà preferenze”. Uno scherzo,
pensavamo. Un mio compagno ribatte: “Ma no, prof! Un insegnante deve
avere un cuore talmente grande da non fare nessuna preferenza!”. “No,
no: un cuore di pietra”. Parlava seriamente. La seconda: la faccia
luminosa della scuola. Quest’anno ho scoperto la poesia grazie al gesto
straordinario di un ordinario professore di filosofia, che un giorno ci
ha parlato della sua giovinezza e di come la poesia ai tempi occupasse
la sua vita e impegnasse la sua fantasia. Interessato anche io dal
momento che non avevo letto nessun grande poeta ho chiesto un consiglio.
Il giorno seguente lo vedo estrarre dalla sua ventiquattrore un
libricino invecchiato. Viene verso di me. “Questo è per te”. Mi ha
regalato una delle sue copie di Elegie duinesi , di R.M. Rilke, il suo
libro di poesia preferito. Il libro della sua giovinezza!».
La
differenza tra le due impostazioni è proprio quella che corre tra chi si
illude si possano separare istruzione ed educazione e chi invece le
tiene naturalmente unite. Nel primo caso si pensa che il docente sia un
distributore di nozioni, nel secondo la didattica è conseguenza della
relazione. Il primo professore educa all’insensibilità di cuore, a non
sentire l’unicità del tu, il secondo rende Rilke interessante prima di
averne letta una riga. Il nesso che tiene unite istruzione ed educazione
è nella realtà, e nessuna presa di posizione teorica le può nei fatti
separare. L’elemento che fa sì che educazione e istruzione siano in
efficace armonia è l’amore. Niente di sentimentale: l’amore è una presa
di posizione nei confronti della realtà e ne permette la conoscenza,
perché ne coglie il valore ancora potenziale da portare a compimento con
l’impegno personale. Non si può aumentare la conoscenza di qualcosa
senza che prima aumenti l’interesse nei confronti del soggetto in
questione (vale per l’amicizia come per la chimica). L’amore genera
conoscenza e la conoscenza ampliata rinnova l’amore: se il docente non
«erotizza» la materia, la materia per quanto ben conosciuta resta
inerte, come spiega Massimo Recalcati. Non esistono cose poco
«interessanti», ma uomini e donne poco «interessati», perché le emozioni
(la neurobiologia qui ci conforta) sono le guide che aprono la strada
allo sviluppo cognitivo. Solo così gli studenti diventano soggetti di
possibilità e non oggetti al peggio da ridurre o al meglio da riempire. È
questa la rivoluzione copernicana chiesta a ogni docente: non sono gli
alunni a ruotare attorno a lui ma il contrario. Un professore — il letto
da rifare oggi lo suggerisce lo studente della lettera — è chiamato ad
avere un cuore tale da non far preferenze perché preferisce tutti e
ciascuno diversamente: sfida difficilissima (quanti errori, quante
gioie...) ma decisiva.
È la stessa sfida narrata da Ovidio, nelle
sue Metamorfosi , a proposito del mito di Pigmalione. Uno scultore che,
deluso da tutte le donne, si innamora della donna ideale che ha scolpito
nel marmo. Il suo trasporto è tale che gli dei trasformano la statua in
una donna in carne e ossa. Il mito viene usato per descrivere lo
sguardo educativo, il cosiddetto effetto-Pigmalione, per il quale se un
docente (ma vale per ogni educatore) guarda un alunno convinto che farà
bene, genererà in lui una fiducia in sé tale che, nella quasi totalità
dei casi, anche a fronte di un’inadeguata disposizione iniziale, otterrà
risultati positivi. L’effetto vale anche in negativo: se sono convinto
che non vali, l’effetto sui risultati sarà coerente, anche a fronte di
buone capacità. Lo sguardo educante non è mai neutro ma sempre
profetico, nel bene e nel male. Ne abbiamo conferma quotidiana nel
bambino che, appena caduto, si volge verso i genitori: se si mostrano
allarmati ne provocano il pianto, se sorridenti il sorriso, quasi che il
dolore, pur oggettivo, venga trasformato nello e dallo sguardo.
I
ragazzi non hanno bisogno di insegnanti amiconi né aguzzini, ma di
uomini e donne capaci di guardarli come amabili soggetti di inedite
possibilità a cui non fare sconti. E non è questione di missione o di
poteri magici, ma di professionalità. Per questo l’appello è il momento
chiave della giornata scolastica: segna il tono della relazione e fa sì
che ognuno senta su di sé lo sguardo profetico che spinge a far bene
come conseguenza dell’ esser bene . Il contrario del «siete troppi, vi
ridurremo», sterile autoritarismo, è il fecondo «sei unico, ti
aumenterò». La parola autorità viene da augeo (aumentare): la esercita
non chi ha il cuore molle o sprezzante, ma chi si impegna ad aumentare
la vita che ha di fronte, per quanto fragile, difficile, resistente
possa sembrare. Questa è l’istruzione di cui non diffido, perché
ispirata da un umanesimo maturo, l’umanesimo dell’altro uomo, come lo
chiama il filosofo Lévinas, che fa del tu il cuore dell’etica e
smaschera il falso umanesimo dell’istruito incapace di sentire il tu,
tanto da distruggerlo proprio attraverso l’istruzione.
Non è
facile però essere educatore in un sistema scolastico che asfissia di
burocrazia e svilisce la dignità sociale ed economica, e in un contesto
culturale che spesso attacca dall’alto (genitori) e dal basso
(studenti). Ma questi elementi possono anche diventare scuse per non
fare ciò che è alla portata di un uomo libero: prendersi cura di chi gli
viene affidato. Soltanto così diventiamo pigmalioni di ragazzi dal
cuore caldo e la testa fredda, a fronte del dilagare, tra gli adulti
prima che tra i giovani, di teste calde e cuori freddi.