Corriere 26.2.18
La ricorrenza
Sessantotto, il mito fatuo della storia immaginaria
di Davide Giacalone
Caro
direttore, il mito del ’68 è fatuo, il reducismo spesso bugiardo, ma il
residuato fossile è fra noi. Potente e impermeabile agli eventuali
fasti del cinquantenario. Il ’68 italiano, del resto, è stato il più
duraturo e mentre altrove la pagina si chiuse in un paio d’anni, qui s’è
trascinata per lustri. Ancora dura, per certi aspetti.
I leader
di allora, i capi del movimento, sono rimasti, a vario titolo,
protagonisti della scena pubblica. I più acerrimi nemici del «sistema»
si sono dimostrati i più adattabili nell’abitarlo. Avevano capacità e le
misero a frutto, applicando a sé stessi l’avanzamento meritocratico.
Per gli altri reclamarono la fine del merito e l’omologazione al
ribasso. Esami di gruppo e voti politici hanno conseguito lo scopo di
studi universitari non selettivi, in compenso li hanno svuotati.
Cinquanta anni dopo abbiamo il più basso tasso europeo di laureati, un
eccesso di lauree inutili, idolatria del valore legale del titolo di
studio e blocco dell’ascensore sociale. A tutto danno di chi sta
indietro e a tutto vantaggio di chi nasce avanti.
La stagione più
tipicamente italiana fu la successiva, quella del ’77. Eco ancora
potente del mitico maggio, ma già indirizzata verso l’annientamento:
l’autodistruzione della droga e la distruzione del terrorismo. Si
dimentica in fretta, ma il bollettino dei morti era quotidiano, anche
senza il contributo di spacciatori nigeriani e bombaroli islamici. Fra
indiani metropolitani e P38 si poté misurare lo spessore della
disperazione e la follia ideologica. Già, ma come si può dimenticare
quell’anelito di liberazione e cambiamento? Fosse stato urlo di libertà
quel che dovrebbe ancora bruciare sulla pelle della memoria sarebbe il
fuoco che consumò Jan Palach, a Praga. Estremo atto contro la
inevitabilmente vincente invasione sovietica, che stroncò la primavera
praghese con una repressione tanto concreta quanto immaginaria quella
millantata dalle nostre parti. Ma non è così. Non è quella la memoria
che si ricorda. Piuttosto la Rivoluzione culturale cinese e il libretto
rosso, sventolato senza leggerlo. Altra pagina di macelleria, pagata dai
liberi e dai giusti, come anche dai normali, mentre i carnefici
venivano osannati da presunti militi della libertà e della giustizia.
Quel
’68 appartiene a un mondo che non c’è più, perché senza la guerra
fredda non se ne spiegherebbe nulla. La sua storia è tramandata (a
dispetto del luogo comune) non dai vincitori, ma dagli sconfitti della
storia. Riusciti, però, a essere vittoriosi nella cronaca della propria
ascesa. Il linguaggio di allora fu quello di chi detestò l’occidente
democratico e le sue fallaci, imperfette e preziose libertà. Linguaggio
tramandato fino all’odierna figliolanza, che persi i miti conserva i
riti dei chierici aizzatori, del supporre l’esistenza di dominî
finanziari occulti, del detestare le istituzioni internazionali della
pace e della cooperazione, in nome d’identità popolari immaginarie.
Certo linguaggio della presunta sinistra d’allora si ritrova,
impoverito, ove possibile, in bocca a certa destra di oggi. Sempre che
abbia un senso parlarne in questi termini.
Si volle
l’immaginazione al potere e s’ottennero potenti immaginari. Si diede
l’assalto al cielo e si espirò aria fritta. S’era realisti volendo
l’impossibile, ma mettendolo in conto ai posteri, sotto forma di debito.
Si disse che era proibito proibire, sapendo che consentendo lo
sgomitare è il debole a capitolare. Di quell’impasto resta molto
d’appiccicaticcio, fra le mani dei contemporanei. Ma è anche vero che
cinquanta anni fa c’era pure chi lavorava e studiava, come ancora oggi
c’è. Naturalmente. Non si celebra e non ha ricorrenze, ma il buon senso
esiste .