mercoledì 21 febbraio 2018

Corriere 21.2.18
La riforma che fa bene al carcere e alla società
di Luigi Ferrarella


Non solo il voto del 4 marzo: sono in realtà due le campagne elettorali — quella dei partiti e quella dei magistrati — che insidiano, dopo quasi 3 anni di commissioni di studio e iter legislativi, l’ancora incerto varo del primo dei decreti legislativi (quello sulle misure alternative e la sanità carceraria) di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975.
«Sarebbe molto preoccupante, da parte della classe politica, assecondare dinamiche elettorali che non consentissero l’approvazione di una riforma così importante», constata il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte. Vero. Ma non c’è solo la spasmodica concorrenza elettorale tra Lega, Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia e (nel penultimo passaggio in Senato) Forza Italia a chi la spara più grossa per spartirsi il dividendo della paura lucrato sulle alterate percezioni della (in)sicurezza. E nemmeno ci sono solo i timori della maggioranza di pagare dazio elettorale proprio a ridosso del 4 marzo se Palazzo Chigi mantenesse l’impegno a fare domani il penultimo passo della riforma (accogliendo i miglioramenti proposti dal parere della Commissione giustizia della Camera ma non i rilievi demolitori del Senato), e poi il passo definitivo entro i 10 giorni dell’ultimo parere.
A pesare molto nella contraerea mediatica, invece, è anche un’altra campagna elettorale in corso: quella dei magistrati per il rinnovo in estate del loro autogoverno nel Consiglio superiore della magistratura. In vista del quale non è ad esempio un caso che tra i magistrati più impegnati ad accreditare l’idea di un ennesimo svuotacarceri spicchi il pm catanese candidato al Csm Sebastiano Ardita, ex dirigente 2002-2011 del ministeriale Dipartimento penitenziario, e braccio destro del pure candidato al Csm Piercamillo Davigo nella corrente fondata dall’ex pm di Mani Pulite ed ex presidente dell’Anm con la scissione dalla corrente di destra egemonizzata invece da Cosimo Ferri, cioè dal sottosegretario berlusconiano nel governo Letta poi rimasto come «tecnico» nei governi Renzi-Gentiloni e ora candidato dal Pd in un collegio sicuro alla Camera: asserito svuotacarceri contro il quale «tutti i magistrati italiani dovrebbero mobilitarsi» perché indirettamente sfalderebbe il carcere duro 41 bis e potrebbe liberare i mafiosi.
Peccato che questo spettro — accolto dal parere del Senato, e preso per buono da tv e giornali comprensibilmente sensibili alla «griffe» di magistrati che lo agitano deformando e stravolgendo irrealistiche conseguenze di supposti incastri di norme — semplicemente non sia vero. Non solo perché la delega data nel 2017 dal Parlamento ha imposto al governo di escludere nei decreti attuativi qualsiasi modifica al regime sia del «carcere duro» sia dei reati di associazione mafiosa e terroristica. Ma soprattutto perché per i condannati a una serie di reati oggi ostativi ai benefici (ma comunque mai per quelli aggravati da finalità di mafia o terrorismo) la riforma eliminerà soltanto le rigide presunzioni legali di irrecuperabilità sociale. Non significa che diventerà automatica la concessione di misure alternative al carcere per residui di pene sotto i 4 anni (oggi 3), ma solo che si aprirà una possibilità affidata sempre alla discrezionale valutazione, caso per caso, dei magistrati di sorveglianza. Anzi, gli automatismi verranno aboliti pure nella concessione delle misure alternative: perché la riforma abrogherà la legge che sinora consente in modo quasi automatico di espiare alcune pene in detenzione domiciliare, aumenterà le verifiche per la concessione delle misure alternative al carcere e i controlli sul comportamento di chi vi venga ammesso, pretenderà dal detenuto impegni concreti a favore della vittima.
Coltiverà insomma, per dirla con il presidente della Commissione di riforma, Glauco Giostra, «l’idea che al condannato si debba dare di più e chiedere di più». Non per sdolcinato buonismo. Neppure come furbetto rimedio all’insufficiente capienza delle carceri (50.517 posti per 58.087 detenuti), come spacciano i conduttori di talk-show urlanti «la gente non ne può più delle pene alternative!». E nemmeno solo perché l’articolo 27 della Costituzione (dimenticata da quei magistrati che la sbandierano «più bella del mondo» solo quando conviene loro) stabilisce che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Ma anche, e anzi più ancora, per egoistico interesse: per la convenienza proprio di chi va seriamente cercando più sicurezza contro la criminalità. Direttori e agenti penitenziari, magistrati di sorveglianza e tutte le statistiche attestano infatti come la recidiva, cioé la propensione degli ex detenuti a tornare a delinquere, sia incomparabilmente inferiore (rispetto a quella di chi sconta l’intera pena in carcere) nei condannati che invece ne scontino una parte in serie misure alternative al carcere, specie se abbinate a un reale avviamento al lavoro (il cui relativo decreto attuativo, finalmente dotato di risorse finanziarie, domani a Palazzo Chigi dovrebbe essere rimesso in carreggiata).
Puntare su questo modello serve dunque non a «svuotare» (le carceri), ma a «riempire» (di maggior futura sicurezza) la società. Peccato ce ne si accorga poco. Se 10 detenuti devastassero il reparto di un carcere, finirebbero su tutti i tg e giornali. Ma se, a sostegno della riforma, 10.000 detenuti stanno scegliendo il metodo della non violenza, e con lo sciopero del carrello o il rifiuto della spesa in carcere aderiscono al Satyagraha (digiuno di «insistenza per la verità») della coordinatrice del Partito radicale Rita Bernardini, non valgono un trafiletto. Neppure a fianco delle paginate di pensose interviste di toghe superstar innamorate del tutto-carcere solo-carcere.