mercoledì 21 febbraio 2018

Corriere 21.2.18
Non sparate sulla democrazia
Controlli e ripartizione dei poteri per ridurre il rischio degli incompetenti al governo
La prefazione di Sabino Cassese a un saggio del filosofo politico americano Jason Brennan (Luiss University Press) che critica i sistemi rappresentativi
di Sabino Cassese


L’ipotesi di premiare i cittadini consapevoli
Docente alla Georgetown University di Washington, il filosofo americano Jason Brennan è nato nel 1979. Collocato su posizioni libertarie, è un critico delle istituzioni statali e un convinto difensore del capitalismo e delle libertà individuali. In Italia è uscito nel 2013, edito da Ibl Libri, il suo saggio Breve storia della libertà , scritto insieme a David Schmidtz (prefazione di Guido Vitiello, traduzione di Giuseppe Barile). In Contro la democrazia (Luiss University Press) Brennan propone di rimediare ai difetti dei regimi democratici con forme di epistocrazia, cioè attribuendo una maggiore influenza politica agli elettori più competenti, consapevoli e informati.

La democrazia rappresentativa è nata come forma epistocratica e tale è rimasta per lungo tempo, nell’antichità prima e poi in tutto il periodo del suffragio limitato. L’elezione era considerata ancora alla fine del XVIII secolo la scelta di chi possiede più saggezza per discernere e più virtù per perseguire il bene comune ( Federalist papers , n. 57). Il fondatore del diritto pubblico italiano, uno studioso che è stato attivo anche come uomo politico per più di trent’anni, Vittorio Emanuele Orlando, riteneva che l’elezione fosse una designazione di capacità: un gruppo ristretto di elettori indicava quelli che riteneva capaci di gestire problemi collettivi. Chi votava, sceglieva non solo kratos , ma anche aretè e epistème , non solo forza, ma anche virtù e competenza.
Questo valeva quando il suffragio era limitato per censo, o per grado di istruzione, o per esperienza nell’esercizio di funzioni pubbliche. Successivamente, il suffragio è stato allargato prima, progressivamente, alle sole persone di sesso maschile, poi anche alle donne e si è diffusa l’idea che all’eguaglianza nella titolarità dell’elettorato attivo corrispondesse eguaglianza delle capacità.
Idea, quest’ultima, molto singolare e persino smentita dalle norme. Singolare perché è palese che l’aver attribuito ai cittadini un compito tanto gravoso quanto il governo della «casa comune», in condizioni di eguaglianza, non comporta che tutti i cittadini siano egualmente edotti delle esigenze di gestione della «casa comune», capaci di scegliere tra i diversi indirizzi di gestione, abili nello scegliere le persone giuste, idonei ad assumere essi stessi funzioni di governo.
In secondo luogo, la parificazione di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale in materia politica è smentita dalla Costituzione, la quale riconosce la prima, ma prevede che la Repubblica abbia il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono l’«effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (articolo 3). Quindi, la Costituzione assume che vi siano diseguaglianze di diverso ordine che ostacolano l’effettiva partecipazione politica. Di fatto, per circa un secolo, il vuoto creato dal suffragio universale è stato riempito da un altro sistema di formazione e di selezione: gli Stati hanno delegato il compito di superare le diseguaglianze tra i cittadini, ai fini della partecipazione politica, ai partiti, che hanno svolto il compito di «palestra» per la formazione e la selezione dei candidati. Ma, a un certo punto, anche i partiti sono venuti meno.
Oggi, anche per la diffusione di istanze populistiche, molte classi dirigenti, nel nuovo millennio, hanno raggiunto — ma non in tutti i Paesi in maniera eguale — un grado di mediocrità tale da suscitare reazioni antidemocratiche. Una di queste, molto ben articolata, si trova nel volume di Brennan, programmaticamente intitolato Contro la democrazia (Luiss University Press), un’opera nella quale il punto di partenza è che l’epistocrazia (il governo di coloro che conoscono, dei competenti) condurrebbe a migliori decisioni, più giustizia, più prosperità.
La democrazia rappresentativa è criticata principalmente perché la maggior parte dell’elettorato ha bias cognitivi che lo portano a deviare sistematicamente da scelte razionali: basti pensare ai costi del terrorismo per gli Stati Uniti (3.500 persone morte negli ultimi 50 anni e 30 miliardi di dollari), comparati a quelli della guerra al terrorismo (8 mila morti, senza calcolare i circa 100-200 mila civili innocenti stranieri e una spesa oscillante tra 3 e 4 trilioni di dollari). Questi inconvenienti inducono Brennan a proporre di distribuire il potere politico in proporzione alla conoscenza o competenza.
Sono accettabili le proposte epistocratiche di Brennan?
In primo luogo, Brennan non considera come operano gli ordini giuridici democratici. Negli ordinamenti democratici, democrazia è contrapposta o integrata da democrazia: negli Stati Uniti, si vota per le Contee, per gli Stati, per il Congresso (separatamente per la Camera dei rappresentanti e per il Senato). Dunque, un popolo non competente può essere controllato, e corretto da altre istanze popolari.
Inoltre i poteri pubblici non sono tutti egualmente democratici, perché non tutto il potere è affidato a istituzioni democratico-elettive. Il potere è ripartito ed in larga misura messo nelle mani di competenti, quali sono i funzionari amministrativi e i giudici federali.
Brennan, come molti studiosi della democrazia, non presta attenzione al pluralismo, alla ripartizione del potere tra organismi diversi, agli ampi spazi nei quali operano organismi i cui meccanismi di selezione sono epistocratici o meritocratici, organismi che possono giungere persino a controllare quelli democratici in senso stretto, perché elettivi.
Il plaidoyer in favore di sistemi politici meno affidati a incompetenti è, quindi, inutile? Non credo che sia inutile, perché vi sono ancora spazi per innestare ulteriori elementi epistocratici nelle democrazie. Se all’idraulico e al medico è richiesto di conoscere un mestiere, non è opportuno richiedere a chi deve svolgere un compito tanto più socialmente importante come quello di rappresentante o di governante, un certo grado di preparazione?
Quindi, l’epistocrazia può operare come correzione della democrazia, come un suo limite, non al posto della democrazia. Oggi il suffragio universale è il meccanismo principale per dare legittimità al governo e non se ne può fare a meno. Tuttavia, requisiti ulteriori di candidabilità possono essere disposti, insieme con azioni positive che diano un contenuto al principio di eguaglianza in senso sostanziale, per rendere concreto l’art. 3 della Costituzione.

Repubblica 21.2.18
L’invasione culturale
Pechino in Africa investe nelle università “Ma studiate il cinese”
Quaranta milioni per la biblioteca di Dar es Salaam: metà all’istituto Confucio
di Raffaella Scuderi


Dopo ponti, dighe, ferrovie, strade, aeroporti e porti, la Cina conquista l’Africa con l’imposizione dei suoi modelli culturali, sociali e linguistici.
Confucio, per esempio, arriva all’università di Dar es Salaam con un team di insegnanti di lingua e cultura cinesi. Perché a fine giugno saranno ultimati i lavori di una grande biblioteca nel complesso accademico della capitale commerciale tanzaniana.
L’hanno finanziata con ben quaranta milioni di dollari i cinesi di “ Hanban”, società del ministero dell’Istruzione di Pechino. Sarà composta da due edifici: una libreria e l’Istituto di Confucio, dove gli studenti potranno apprendere la lingua e la cultura cinese.
Metà dell’investimento è destinato a studi africani, metà allo studio di Confucio e ai corsi di cinese.
Dal 2004 di questi istituti ne sono stati aperti 516 in 142 Paesi, di cui 40 in Africa.
Zimbabwe, Zambia e ora Tanzania. Il neocolonialismo cinese sta facendo passi avanti e diventa sempre più audace.
Se nel 2003 gli africani che studiavano il cinese erano duemila, nel 2015 sono diventati 50mila. La lingua è sempre stata una barriera non trascurabile nei rapporti tra il continente e Pechino. Negli ultimi venti anni la Cina è diventata il primo partner commerciale dell’Africa: commercio, investimenti, infrastrutture e aiuti. Ora la cultura.
Nei secoli passati i missionari europei contribuirono a cancellare nel continente le poche tracce — poche perché orali — dell’identità africana, con l’imposizione dei propri valori, delle lingue e dei beni considerati superiori.
Dall’inizio del XXI secolo gli affari sino- africani sono aumentati del 20 per cento annuo. A fine 2016 sul continente operavano diecimila imprese cinesi, il 90 per cento private. Africani l’ 89 per cento dei lavoratori.
Nella maggior parte dei casi, come denuncia la Human Rights Watch, i cittadini africani lavorano però in condizioni disumane: senza contratto e senza neppure ventilazione nelle miniere, causa — questa — di serie malattie polmonari.
Il 44 per cento del management è locale. Che non è poco, viste le consuetudini africane, ma non è neanche definibile un gran successo.
Nel 2001 gli investimenti cinesi in Africa ammontavano a 13 miliardi; nel 2015, 188. In Tanzania, secondo gli ultimi dati diffusi nel 2014, i cinesi hanno investito 4 miliardi.
La biblioteca tanzaniana è stata ora accolta con grande entusiasmo. Dai vertici del Paese, non dalla base. Chi non plauderà saranno sicuramente gli intellettuali africani. Primo fra tutti Ng?g? wa Thiong’o, raffinato scrittore kenyano in odore di Nobel, che da anni ripete all’Africa tutta che uno dei passi essenziali per la liberazione del continente dal giogo del debito occidentale, con il fine ultimo di ritrovare la propria identità, consiste proprio nel recupero dell’uso delle lingue africane.
A inaugurare due anni fa le fondamenta della biblioteca era stato il presidente tanzaniano, John Magufuli, l’uomo che ha messo le manette alle ragazze adolescenti rimaste incinte durante l’anno scolastico, vietando loro di continuare gli studi. Le ha lasciate a casa, in attesa di partorire i figli di abusi, stupri e altri abomini. La danza dei leoni e dei dragoni, come ebbe modo di titolare il report di luglio 2017 sui rapporti Cina-Africa, l’americana McKinsey & Company, una delle più importanti società di consulenza finanziaria e manageriale del mondo, sembra concludersi con la vittoria dei dragoni sui leoni. Altro che danza.

Repubblica 21.2.17
1848
Raoul Peck “ Il giovane Marx contro l’ignoranza”
Intervista di Arianna Finos


Sono tornate. Uscite dal baule della memoria, le grandi (e controverse) figure del Novecento sono protagoniste al cinema e in tv. Stalin, Hitler e Mussolini raccontati tra commedia e satira, Churchill celebrato nella sua ora più buia (è in sala e si avvia all’Oscar), mentre il maestro russo Aleksandr Sokurov prepara un film in cui i quattro chiacchiereranno nell’aldilà.
In quest’onda di rivisitazione storica, carica di implicazioni e rimandi al presente dell’Europa, s’inserisce Il giovane Karl Marx di Raoul Peck. Il regista haitiano confeziona un ritratto affettuoso dell’amicizia tra i ventenni Karl Marx (il perfetto August Diehl) e Friedrich Engels (Stefan Konarske), e li accompagna nella gestazione di quel Manifesto del partito comunista consegnato alla storia il 21 febbraio di 170 anni fa.
Peck, lo slogan del suo film è “La rivoluzione è giovane”. Lei ha scoperto Marx a 17 anni.
«Sì. Studente qui in Germania ho affrontato Il capitale. Allora si discuteva su come rinnovare l’approccio sull’opera evitando i dogmatismi delle rivoluzioni russa e cinese: le idee di Marx e Engels erano state sequestrate, si erano scelti i passaggi più convenienti tralasciandone altri; ad esempio che l’emancipazione di tutti deve passare attraverso quella di ciascuno, che non esiste rivoluzione senza democrazia e libertà. Ho sentito il bisogno di allontanarmi dalla barbuta statua di cera di Madame Tussauds, e tornare al giovane Karl, raccontare chi erano questi uomini e queste donne, da dove arriva il loro pensiero».
Dove avete trovato il materiale su Marx ventenne?
«Abbiamo subito scartato i libri di interpretazione del suo pensiero, le biografie. Siamo andati dritti a quello che Marx e Engels hanno scritto, e ai loro carteggi: la sceneggiatura si basa sulla corrispondenza. Il film è vicino a quei giovani ribelli che hanno lottato contro l’oppressione, la censura, la violenza a cui erano sottoposti gli ultimi nelle società europee. Ed è pensato per i ragazzi, senza dogmi o lezioni.
Segue questi due giovani che avrebbero cambiato il mondo e i coetanei di oggi li comprendono.
In rete si discute molto del film».
Marx le ha cambiato la vita?
«Ha cambiato il mio modo di pensare, mi ha insegnato a strutturare il pensiero.
Soprattutto da lui ho imparato l’analisi di una società capitalista che è la stessa in cui viviamo oggi.
La differenza è che oggi anche Russia e Cina sono diventati capitalisti e si sente il peso della disuguaglianza, della ricchezza della minoranza. Oggi i ragazzi sono bombardati da informazioni ed è difficile capire quali sono le priorità. Il pensiero di Marx può offrire ai giovani utili strumenti di comprensione, come quello dell’attivista James Baldwin ha aiutato gli afroamericani».
Il pensiero di Baldwin nel suo documentario “I am not your negro”, fresco della vittoria agli inglesi Bafta, riguardava anche Hollywood. Cosa pensa del successo di “Black Panther”?
«Una parte di quello che faccio come regista è mettere in scena le storie che vorrei vedere: così è stato per esempio nel caso del film su Lumumba. Avrei apprezzato la sua storia anche a dodici anni. Baldwin spiega quanto Hollywood sia stata poco seria nel mostrare la diversità nella storia. Critica John Wayne che spara agli indiani, ma in fondo anche noi neri eravamo un po’ come gli indiani. Per troppo tempo il cinema è stato dominio dell’America, dell’Occidente. Ora si vedono più afroamericani, latini, donne. Un film non è mai innocente, è sempre ideologico. È merchandise. Ma è colmo di messaggi anche quando finge di essere solo commerciale. Perciò ben venga Black Panther».
Un anno fa qui a Berlino nel giorno dell’insediamento di Trump lei disse: “È stato come consegnare ad Attila le chiavi del regno”. Lo pensa ancora?
«Oggi il regno brucia. Siano repubblicani o democratici, trovo rivoltante la presenza di tanti opportunisti al Congresso. Si finge di non vedere che ogni regola è saltata. Che in pochi mesi si è distrutto un patrimonio che non basteranno decenni a ricostruire. Ma non va meglio da voi in Italia e in Europa. La gente dimentica il passato, non crede nelle istituzioni. Non vota e così la minoranza decide per tutti. Nel film il giovane Marx dice “l’ignoranza non aiuta nessuno”.
Siamo qui, oggi, nel tempo dell’ignoranza, è l’ignoranza che ci sta uccidendo».
Qual è il leader che la convince?
«Non sono i leader a cambiare il mondo, ma le persone. Nel film Marx dice: “Non abbiamo bisogno di leader, abbiamo bisogno che la gente che lotta sia consapevole del perché. Seguire un capo ciecamente apre le porte al populismo».

La Stampa TuttoScienze 21.2.18
Carl Gustav Jung: dinamiche tra conscio e inconscio
La psiche si compone della parte inconscia, individuale e collettiva, e della parte conscia. La dinamica tra le due parti è considerata da Jung come ciò che permette all’individuo di affrontare un lungo percorso per realizzare la propria personalità. In questo percorso l’individuo incontra e si scontra con delle organizzazioni archetipe (inconsce) della propria personalità: solo affrontandole egli potrà dilatare maggiormente la propria coscienza

Ligi Zoja in video qui

Il Fatto 21.2.18
“Sotto quel saio sei nudo?” Le chat segrete dei preti gay
Altro che celibato
Un dossier con migliaia di pagine raccoglie le comunicazioni di 50 sacerdoti che cercano sesso a pagamento e non solo
Molti preti nel dossier parlano della propria vita sessuale come di una cosa normale
di Luigi Franco


Nel suo profilo Facebook si presenta come prete ortodosso. “Sotto il saio sei nudo?”, chiede a un certo punto della chat. “Noooo, fa freddo”, risponde il frate cappuccino. “In estate?”, insiste il primo. “Pantaloncini”, la replica. “Pensavo senza mutande”. E siamo ancora alle battute più caste del dialogo, perché un po’ più in là arriva lo scambio di foto delle parti intime e la proposta di un incontro a tre. Meglio in un eremo nella foresta, spiega il cappuccino: “Le chiavi le ho solo io”. Sono conversazioni che rischiano di fare tremare diverse diocesi, quelle contenute nel dossier che Francesco Mangiacapra, l’escort napoletano che in passato ha denunciato il caso di “Don Euro” (vedi articolo qui sotto), ha intenzione di consegnare oggi alla Curia di Napoli chiedendo che ne informi anche le altre curie interessate. Oltre mille screenshot di chat su Facebook, Whatsapp, Telegram e immagini prese da Grindr, il social network utilizzato per incontri gay, raccolte negli ultimi mesi da Mangiacapra o da alcune sue fonti che hanno avuto a che fare con quella che definisce “una lobby gay” all’interno della Chiesa. Il tutto allegato a un elenco di oltre 50 tra preti, appartenenti a ordini religiosi e seminaristi, che secondo Mangiacapra portano avanti una vita sessualmente dissoluta. Non solo le chat erotiche, ma anche sesso a pagamento, frequentazioni di locali per omosessuali, incontri di gruppo, a volte in canonica.
C’è per esempio monsignor F. (riportiamo solo le iniziali per proteggere la privacy delle persone citate nel dossier) che, secondo quanto si legge nel documento, si spaccia per un facoltoso diplomatico, viaggia con un autista privato e incontra ragazzi gay conosciuti in chat proponendo contratti di lavoro come autista o ricaricando la loro carta Postepay. Oppure don M., parroco di un paesino della Basilicata, che ha diversi profili su Grindr e il sabato sera sale in auto per raggiungere la Calabria, dove frequenta discoteche gay ubriacandosi e facendo sesso anche non protetto con sconosciuti.
Ne esce l’immagine di una Chiesa dalla doppia morale. Quella predicata, che vede il sesso come un peccato e l’omosessualità da bandire. E quella della vita vissuta da diversi suoi ministri, con il sesso come abitudine quasi quotidiana. Da condividere spesso con altri uomini di Chiesa. E i social network a fare da occasioni di incontro, prima virtuali e poi reali. A volte senza prendere nemmeno troppe informazioni sull’identità dell’interlocutore, visto che bastano poche battute per passare dal “grazie” per l’amicizia concessa su Facebook al “cosa mi fai vedere?”. E poi via con le foto o il collegamento video in diretta grazie alla cam. Magari per masturbarsi insieme, come in una chat in cui R., un seminarista che vive a Roma, si riprende sdraiato a letto. E sullo sfondo ha un comò con sopra una croce e una statua della Madonna. Sacro e profano vanno spesso insieme, tanto che anche la Messa può essere un momento per far ballare l’occhio e, magari, cogliere un’occasione. Ecco alcuni dei dialoghi scelti tra i meno spinti.
Il confine tra sacro
e profano
Lo stesso Mangiacapra è online con don M.
Mangiacapra: Un prete bono davanti a te seduto. Vicino a quello di colore.
Don M.: Ah ce ne stavano un paio. Uno mi guardava parecchio.
M.: E sì un paio. Davvero? Chi era?
Don M.: Era davanti a me un attimo a destra.
M.: Booo. Quello vicino al nero sta su fb (…)
Don M.: Lui mi ha fatto occhiolino al segno di pace.
M.: Mmmmmmm. Bono.
Agli esercizi
spirituali
Il tempo per una chat spesso si trova anche nei momenti di meditazione e preghiera. Come nel caso di M., che frequenta un seminario in Puglia, e di un ragazzo iscritto in un altro seminario.
Altro seminarista: E la sega? Quando la facciamo?
M.: Ora sono agli esercizi spirituali.
A.: E beh.
M.: Non posso.
A.: E quando?
M.: Poi vediamo un po’.
Oppure ecco il dialogo subito dopo uno scambio di foto tra don G., parroco in provincia di Matera che secondo il dossier ha la passione per i festini, e un seminarista della zona con cui aveva una relazione.
Don G. (dopo avere inviato una foto): Visto che bel regalo?
Seminarista: Il più bello. Mmmmm.
Don G.: Ci vorrebbe dal vivo.
S.: Ci vorrebbe proprio.
Don G.: Eh, se fossi solo. Ma un altro po’ di pazienza. Poi io avrò la stanza ai piani superiori, quindi puoi venire quando vuoi.
S.: Mmmmmmm. Siiiii.
Don G.: Per oggi non so come fare. Se vieni all’incontro col vescovo…
S.: Ma so’ agli esercizi.
Incontri
a tre
A volte don G. organizza incontri di gruppo. “Ho delle novità – dice al seminarista in una chat riportata nel dossier –. Giovedì pomeriggio te ne vieni con me per un’ordinazione diaconale e poi ce ne andiamo da amico prete cazzuto e porco lì vicino. E rientriamo la mattina in ora per la messa”.
Ed eccolo in un’altra conversazione.
Don G.: L’ultima volta davi segnali di piacere… mi facevi impazzire.
S.: Siiiiii.
Don G.: V. voleva scopare lunedì. Ma io sono impegnato.
S.: Lunedì. E dai rimanda.
Don G.: C’è festa in oratorio.
C’è anche spazio per dare qualche consiglio su come evitare che le tresche vengano scoperte, come quando don G. avverte: “So che in quella diocesi ci sono alcuni preti ‘pericolosi’, cioè che si sa in giro che scopano e sono ricchioni. Bisogna essere sempre prudenti”.
Di sesso si parla tra una funzione religiosa e l’altra. Don C., parroco in un paese di meno di 2000 abitanti in Calabria, è in chat con un seminarista.
Don C.: Tu hai Skype?
Seminarista: Sì.
Don C.: Se vuoi ci facciamo sega in cam che poi devo scappare che ho un funerale.
S.: Adesso?
Don C.: Sì tra 5 minuti.
S.: Ok.
Meglio nell’eremo che in convento
Padre E. è frate cappuccino in un convento in Puglia. La chat con l’interlocutore che si presenta come sacerdote di una piccola Chiesa ortodossa era iniziata con la curiosità su cosa ci sia sotto il saio del frate. Quando il prete ortodosso invia una sua foto con pene in erezione, padre E. chiede: “Quando?”.
Altro: Stamattina.
Padre E.: Intendevo quando posso scoparti.
A.: Vieni al mio paese?
Padre E.: Potrei oppure vieni tu. (…) Vieni facciamo a tre ti va?
A.: Dove scopi?
Padre E.: Abbiamo una struttura privata.
A.: Dove?
Padre E.: Un eremo nella foresta.
A.: Ah ok. Scopi pure nel convento?
Padre E.: Se non c’è nessuno. Tu sei passivo?
A.: V (versatile, ndr).
Padre E.: Ti andrebbe a tre?
A.: Certo. Chi sarebbe il terzo? Hai foto?
Padre E.: Un altro frate.
A.: Lui è passivo?
Padre E.: Vers (versatile, ndr). Ma lo vuole soprattutto.
Tra una preghiera
e l’altra
Don A. è parroco vicino a Urbino. Anche lui non disdegna le conversazioni in chat, come in questa con un seminarista.
Don A.: Vieni a trovarmi.
Seminarista: Dove?
Don A.: Da me.
S.: E che facciamo?
Don A.: Preghiamo un po’.
S.: Sì?
Don A.: Non vuoi?
S.: Solo pregare?
Don A.: No.
S.: Poi?
Don A.: Si vedrà
S.: Cioè?
Don A.: Quello che ti va. Tutto.
E come nelle migliori chat erotiche non mancano i giochi di parole, le allusioni. Come quelle di Don F., responsabile di una parrocchia nell’arcidiocesi di Salerno, che stuzzica il suo interlocutore: “Un bicchiere di vino, magari qualcosa di dolce”.
Altro: Una banana magari o no?
Don F.: Un babbà.
A.: Con crema bianca.

Il Fatto 21.2.18
Mangiacapra, il macho escort che denuncia “la doppia morale di chi predica virtù”
La campagna - Il precedente: ha fatto esplodere il caso di “don Euro” in Toscana
di Lu. Fra.


Laureato in Giurisprudenza, Francesco Mangiacapra è un escort napoletano sulla trentina che ha iniziato a prostituirsi quando ha capito questo: “È meglio vendere il corpo, piuttosto che svendere il cervello”.
Come clienti ha avuto magistrati, politici, militari. E soprattutto tanti preti. Di loro ha conosciuto i vizi e le storie spesso inventate per nascondere, durante gli incontri di sesso, la loro vita con indosso la tonaca. Come quelle che andava in giro a raccontare don Luca Morini, il sacerdote di Massa Carrara oggi conosciuto come “don Euro”, che si spacciava per importante magistrato, mangiava in ristoranti di lusso e in cambio di prestazioni sessuali prometteva posti di lavoro, grazie alle sue millantate conoscenze. Una presa in giro verso ragazzi spesso in difficoltà che a Mangiacapra non è andata giù. Così nel 2015 ha segnalato il caso prima alla Curia di Massa. Poi, visto che nulla cambiava negli atteggiamenti di don Euro, ai giornali.
Dopo un servizio delle Iene è partita un’inchiesta della Procura che lo scorso gennaio ha chiesto il rinvio a giudizio di don Euro con l’accusa di aver fatto la bella vita con i soldi delle offerte dei fedeli. E insieme al suo, il rinvio a giudizio del vescovo Giovanni Santucci, accusato tra l’altro per un passaggio di denaro dal conto della Curia a quello del parroco.
Nel frattempo Mangiacapra ha scritto un libro, Il numero uno. Confessioni di un marchettaro, in cui racconta le storie dei suoi clienti, coprendone il nome. Tra quelle righe erano già descritte anche le abitudini di don Crescenzo Abbate, il parroco della chiesa della Trasfigurazione del Santissimo Salvatore a Succivo, in provincia di Caserta, finito nello scandalo lo scorso dicembre: dopo essere stato ricattato da due giovani per un video hard, li ha denunciati facendo emergere lui stesso i suoi comportamenti non consoni alla vita di un prete. Così è stato sospeso temporaneamente dal vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo. Peccato che Mangiacapra avesse avvisato sua Eccellenza delle esuberanze di don Crescenzo già nell’aprile del 2016, senza però riuscire a convincerlo a prendere provvedimenti risolutivi.
E ora una nuova iniziativa di Mangiacapra, che ha intenzione di consegnare oggi stesso alla Curia di Napoli un dossier contenente i nomi di circa 50 sacerdoti e dieci seminaristi appartenenti a diocesi del Centro-Sud che conducono una vita sessuale opposta a quella predicata nelle omelie. Con la castità che lascia spazio a frequentazione di locali gay, sesso a pagamento, chat erotiche. Un documento che il Fatto Quotidiano ha potuto vedere, con allegati screenshot di chat e fotografie scambiate attraverso app e social network che definisce “un catalogo di mele marce” redatto “non con l’intento di gettare fango sulla Chiesa ma con quello di contribuire a estirparne il marcio che contaminerebbe tutto quanto c’è di integro”. E di spingere i vertici ecclesiastici a prendere provvedimenti: “Di solito i presuli si svegliano solo quando si montano i casi massmediatici”.
A chiedergli se non lo faccia anche per farsi pubblicità, replica: “La domanda è lecita e non mi offendo se lo pensate. Non lo faccio per fare marchette al libro. Ma per ritrovare la dignità che la prostituzione ti toglie. Per ritrovarla di fronte a quelle persone che ogni domenica puntano il dito dal pulpito contro le libertà sessuali di cui loro stessi usufruiscono, grazie anche al lavoro di persone come me”.
Per questo dice di denunciare l’ipocrisia della Chiesa: “I comportamenti dei preti segnalati sono in molti casi frutto dell’impunità a cui gli stessi vertici delle diocesi li hanno abituati: quella ingiusta tolleranza che alimenta l’idea di poter continuare a separare ciò che si esercita da ciò che si esprime, come è tipico di chi ha una doppia morale schizofrenica”.

Il Fatto 21.2.18
Francia, compagni che sbagliano: molestie a sinistra
Unef, sindacato degli studenti
Libération pubblica una inchiesta su abusi sessuali nell’incubatore dei futuri responsabili della gauche
di Luana De Micco


Molestie e aggressioni sessuali sono state denunciate in Francia all’interno dell’Unef, uno dei principali sindacati degli studenti di sinistra (Union nationale des étudiants de France) e uno degli incubatori per la futura classe dirigente della gauche francese. Ora si scopre che tra il 2007 e il 2015 l’Unef è stato una “zona di caccia per predatori sessuali”, secondo le parole di Libération che ha raccolto, e pubblicato, le testimonianze di 16 donne, ex militanti del sindacato.
Donne che per anni hanno scelto il silenzio e che ora, sulla scia dello scandalo Weinstein, hanno deciso uscire allo scoperto.
L’Unef, fondato nel 1907, è quella che comunemente si dice un’istituzione. Ha contato fino a 30 mila iscritti. È il sindacato sempre in prima linea nelle proteste studentesche e che ha anche vinto tante battaglie politiche, alcune “storiche”, come quella del 2006 contro il Contratto di primo impiego (un contratto per i giovani che prevedeva un periodo di prova di 2 anni e si poteva rompere senza motivo). Le proteste piegarono Dominique de Villepin, all’epoca primo ministro di Jacques Chirac.
Per i ranghi dell’Unef sono passate personalità come gli ex ministri socialisti Jack Lang e Lionel Jospin. Vi hanno militato Daniel Cohn Bendit, capofila del maggio ‘68 francese, e Serge July, co-fondatore di Libération. Ora è della “faccia oscura” del sindacato che si parla. Il quotidiano riporta la storia di Laurie, nome di fantasia, che all’epoca dei fatti era una giovane neo militante dell’Unef. Laurie sostiene di essere stata violentata due volte da Grégoire T., uno dei membri della direzione del sindacato. La prima nel settembre 2014, durante la Fête de l’Humanité, tradizionale ritrovo annuo dei militanti di sinistra ed estrema sinistra che si tiene alle porte di Parigi. Laurie racconta che Grégoire T. cercò di obbligarla a fare sesso orale con lei: “Lo respinsi più volte, ma lui infilò la mano nelle mie mutandine e mi costrinse a baciarlo. Volevo solo che finisse”. La seconda nel 2016, a Parigi, nella residenza per studenti dove Laurie affittava una stanza: “Cominciò a spogliarmi. Cercai di respingerlo, gli dissi che non volevo. Ma mi sentivo come una bambola, senza vita. Mi violentò. Non ho altre parole per descriverlo. Passai la giornata a piangere e feci finta di dimenticare”.
A gennaio Laurie ha sporto denuncia per stupro. Il suo caso non sarebbe il solo. Lo scorso novembre, 83 ex sindacaliste dell’Unef avevano denunciato sulle pagine di Le Monde le violenze sessiste e le molestie “sistematiche” che avevano subito all’interno dell’organizzazione: “Per tanti anni ci siamo sentite isolate. Ogni giorno – scrivevano – la mentalità sessista schiacciava i valori progressisti che difendevamo attraverso una forma di dominazione fisica e sessuale”. Denunciavano l’esistenza di un “tabellone di caccia” in cui i dirigenti del sindacato davano i voti alle performance fisiche e sessuali delle militanti.
Nell’editoriale di ieri Laurent Joffrin, direttore di Libération, parla di un vero e proprio “sistema di predazione sessuale” esistito all’interno all’Unef.
Una ex militante racconta: “I presidenti di sezione locale e i membri dell’ufficio nazionale facevano pressione per recuperare i numeri di telefono e gli indirizzi delle militanti. Sembrava di stare al supermercato”. Un’altra donna, che si fa chiamare Marine, accusa il presidente dell’Unef dell’epoca, Jean-Baptiste Prévost, con il quale aveva avuto una breve relazione: “Non aveva neanche bisogno di essere violento – ha detto – gli bastava lo statuto di presidente”.
Charlotte, presunta vittima di violenze da parte di A., aveva tentato all’epoca di rivolgersi alla polizia: “Mi avevano risposto che non era stupro, che sarebbe bastato dire di no”. Dal 2016 alla presidenza dell’Unef c’è una donna, Lilâ Le Bas, che ha aperto all’interno del sindacato una cellula per accogliere e aiutare le militanti vittime di molestie: “Basta con l’omertà”. La ministra per le Parità, Marlène Schiappa, è intervenuta ieri su France Info: “Il rischio di molestie esiste ovunque c’è potere – ha detto –. Le stesse pratiche esistono sicuramente anche in altri movimenti della vita politica francese e ogni partito e movimento dovrebbe prendersi le sue responsabilità. Bisogna creare le condizioni perché tutte le donne possano sporgere denuncia”. Un progetto di legge per combattere le molestie sessuali in Francia sarà presentato nei prossimi mesi.

Il manifesto 21.2.18
Le figurine della sinistra europea nella sfida italiana
Chi sta con chi. Tra socialisti radicali e altermondisti moderati, Liberi e Uguali e Potere al Popolo si giocano i testimonial, in qualche caso scippandoli al Pd. Tranne Tsipras, che però appoggia entrambi
di Daniela Preziosi


Il blitz londinese di Grasso è un colpo basso per il Nazareno. Che infatti si guarda bene dal commentare. Il laburista antiBlair oggi in corsa per Downing Street è un meme vivente degli errori di Renzi su scala continentale. Dopo la vittoria dell’ultimo congresso del Labour il leader Pd non gli ha neanche inviato i complimenti della buona creanza. Fino a quel momento i renziani definivano il leader laburista «una catastrofe», uno che «gode a perdere».
Grasso a sua volta ha portato a casa una foto che parla a molti. Corbyn è un’icona per la sinistra radicale, ma è considerato un modello anche da Prodi. L’ex procuratore si è ispirato a lui dallo slogan «Per molti, non per pochi» che traduce For the many not the few, giù fino alle singole proposte, come l’abolizione delle tasse universitarie, battaglia che ha conquistato la gioventù britannica.
L’abbraccio con Corbyn racconta anche del voto del 2019 per il parlamento di Bruxelles. Dove tutte le famiglie progressiste potrebbero rimescolarsi. E le sinistre europee guardano con preoccupazione alla divisione dei “compagni” italiani fra Liberi e uguale e Potere al Popolo. «Vedo con tristezza che la sinistra con cui potrei identificarmi non è in condizioni di combattere per vincere le elezioni», ha detto al Fatto Pablo Iglesias, leader spagnolo di Podemos. Iglesias si era felicitato con Nicola Fratoianni (Si) per la nascita di Leu, ma non può esplicitamente endorsarla, almeno finché a Bruxelles Mdp farà riferimento al Pse. Un tema che non tarderà ad agitare la Ditta per le europee, sempreché a quel traguardo arrivi unita.
L’allarme per le divisioni italiane, specchio di quelle di tutti, è tale che il partito della Sinistra europea, che raccoglie le sinistre d’alternativa che a Bruxelles siedono nel Gue (il gruppo delle sinistre europee), a gennaio ha inviato una nota riservata agli aderenti: «Sull’Italia non schieratevi» è la sostanza del messaggio. Se ne capisce il motivo: Rifondazione comunista, che aderisce a Se, corre con Potere al Popolo; invece Sinistra italiana, che è solo «membro osservatore», ha fondato Leu, i cui europarlamentari siedono nel gruppo dei Socialisti e democratici. Non è l’unico problema: le sinistre radicali continentali sono attraversate da confronto sui destini dell’Unione. Europeisti da una parte. Euroscettici e sovranisti dall’altra: una parte, quest’ultima, assai più affollata di gruppi di destra.
Il conflitto è emerso clamorosamente a fine gennaio quando Jean-Luc Mélenchon, leader della francese France Insoumise ha chiesto l’espulsione da Se di Tsipras, presidente della Grecia e leader di Syriza, con l’accusa di essere «servile con i diktat liberisti della Commissione europea». Tsipras gli ha replicato duramente: «Noi non siamo di sinistra solo a parole». Poi la crisi è rientrata. Ma il tema si riproporrà appena scoccherà la corsa per le europee.
Per l’intanto l’effetto è che in Italia Leu e Pap si contendono le star internazionali come una vecchia edizione di Sanremo. Mdp, che sul fronte europeo ha partner socialdemocratici e socialisti cioè tifosi del Pd, ha però incassato per Leu la benedizione di Pepe Mujica, mitico ex presidente uruguajano con un passato da Tupamaro. Con Pap si sono invece schierati la cilena Camilla Vallejos e il regista inglese Ken Loach. E Mélenchon, che lo scorso 16 febbraio è sbarcato a Napoli per studiare il modello mutualistico dell’ex Opg-Je so pazzo, il centro sociale da cui è nata la lista, ha incontrato il sindaco De Magistris: «Sono venuto a Napoli a imparare, qui fate la lotta per la rivoluzione in Europa». Sinistra italiana a sua volta ha incassato la presenza della leader della tedesca Linke Katja Kipping a un’iniziativa contro le “Groko”, le larghe intese, con Nicola Fratoianni: ma l’iniziativa era organizzata dall’Ars di Vincenzo Vita e Aldo Tortorella. A sua volta l’eurodeputata Eleonora Forenza, del Prc (ma eletta con le insegne di l’Altra Europa) ha raccolto una decina di endorsement «in tutte le lingue» per Pap: fra cui la capogruppo di capogruppo del Gue a Bruxelles Gabi Zimmer (della tedesca Linke), un irlandese dello Sinn Féinn, un portoghese del Pcp, una spagnola di Izquierda unida, un greco del Lae e un comunista basco. Non entra infine nella mischia italiana il presidente Tsipras che ha portato a casa il ciclopico traguardo di uscire dal Memorandum (a agosto), il pesante programma di tagli con cui ha portato il paese fuori dal baratro, tenendo «la società in piedi», come dice lui. Altrettanto fa Syriza. «Auguriamo la vittoria a tutta la sinistra italiana», spiega Argiris Panagopoulos, responsabile di Syriza per l’Europa del sud, «Grecia e Italia hanno fra loro un legame di sangue costituito dai morti del Mediterraneo. Siamo impegnati insieme su questo fronte e quello che non possiamo permetterci è un governo della destra razzista. Insieme noi greci abbiamo sconfitto Scheuble e gli ultraliberisti. Insieme i socialisti e i comunisti governano in Portogallo. E nonostante le critiche contro di noi, abbiamo aiutato a vincere Mélenchon in Francia. Perché non possiamo permetterci divisioni. Dobbiamo lavorare tutti insieme contro il risorgere dei nazionalismi e dei sovranismi in Europa. Quelli di destra e di sinistra».

il manifesto 21.2.18
Liberi&Labour, Grasso da Corbyn per lo scatto finale
Incontro a Londra con il capo dell’opposizione di Sua Maestà. Il leader di LeU lancia un piano per garantire a tutti una casa
di Aaron Elderman


Il Big Ben suona mezzogiorno quando a Westminster Pietro Grasso varca la soglia dell’ufficio del «leader dell’opposizione di Sua Maestà», come recita la targa sulla porta. L’incontro tra il presidente del Senato italiano e Jeremy Corbyn, destinato a segnare lo scatto in avanti nella campagna di Liberi e Uguali, è stato accuratamente preparato da due mesi di confronto tra delegazioni dei laburisti e di LeU. Fondamentale il ruolo giocato dalle attiviste e dagli attivisti italiani del «Manifesto di Londra», migranti di ultima generazione che si dividono tra l’appartenenza alle diverse forze della sinistra in Italia e la militanza nel Labour. Non la ricerca di un banale endorsement elettorale quindi, ma la paziente costruzione di un rapporto politico che guardi lontano, alla definizione di una prospettiva per la sinistra in tutta Europa, dentro e oltre la crisi delle socialdemocrazie storiche.
DOPO UN’ORA DI FITTO faccia a faccia, Grasso esce visibilmente emozionato dal Parlamento e raggiunge la sede dell’Inca Cgil di Londra, dove lo attende una rappresentanza della comunità italiana nel Regno Unito. Di fronte alla stampa, introduce così l’incontro con Corbyn: «Non ci eravamo mai visti prima, ma ci siamo subito riconosciuti come due ragazzi di sinistra». Al di là dell’evidente empatia tra i due, la sintonia è tutta politica. Per il leader di LeU: «Abbiamo moltissimo da imparare da Corbyn, che sta raccogliendo vasti consensi, in particolare tra le più giovani generazioni. È capace di un discorso semplice, diretto, che senza demagogie ricorda a tutti la grande questione del nostro tempo: le diseguaglianze sociali divenute intollerabili, che ovunque mettono a rischio le fondamenta della democrazia e aiutano le destre peggiori a farsi spazio nelle nostre società».
IL PRESIDENTE DEL SENATO ha aggiornato Corbyn sul quadro politico italiano che, anche qui, sta suscitando crescenti preoccupazioni, per il ritorno di Silvio Berlusconi accompagnato da forze esplicitamente nazionaliste e razziste. Ma la discussione tra il leader del Labour e Grasso si è concentrata sulle risposte da dare a questa situazione: «Abbiamo scoperto di condividere molte delle idee necessarie a combattere le ingiustizie e l’aggressivo ritorno delle destre. L’Europa si ricostruisce a partire dal rilancio di un nuovo Stato sociale, capace di rispondere ai bisogni della gente, dei molti dimenticati e abbandonati per gli interessi di pochi».
LAVORO E SALUTE, ISTRUZIONE e casa, con una rinnovata centralità del pubblico, come capisaldi del terreno comune d’iniziativa tra Labour e LeU. L’incontro con Corbyn è per Pietro Grasso l’occasione giusta per lanciare da Londra una proposta forte nello stagno (di idee) della campagna elettorale. «C’è un tema, tra quelli che abbiamo affrontato, di cui nel nostro Paese nessun altro sta parlando. Il Labour ha lanciato un piano per dare casa agli ottomila homeless del Regno Unito. In Italia le persone senza un tetto sopra la testa sono cinquantamila. Tra i giovani nessuno si può più permettere un’abitazione. E settecentomila famiglie non riescono più a sostenere un mutuo. Allora bisogna costringere banche e fondi d’investimento ad affittare a costi sostenibili gli immobili vuoti. E dobbiamo restituire all’uso abitativo il patrimonio pubblico inutilizzato, come le caserme dismesse nelle nostre città». Insomma un programma concreto e radicale, per l’edilizia residenziale pubblica e per governare sul serio il mercato. Andando direttamente a impattare gli interessi speculativi. Una casa per tutti a consumo di suolo zero.
ALTRETTANTO NETTE le posizioni sulla Brexit, discusse con Corbyn e presentate all’incontro con gli immigrati italiani, quelli storici e i venti-trentenni in fuga dalla crisi, precari nell’università e nella ricerca, e tanti di più nei servizi a bassa qualità della gig-economy.
Al tavolo i candidati di Liberi e Uguali in Europa: Sara Prestianni, esperta di immigrazione e attivista Arci, capolista per la Camera e Federico Varese, professore a Oxford e uno dei maggiori esperti mondiali di crimine organizzato, che guida la lista al Senato, insieme a quelli residenti nel Regno Unito. Davanti a loro Grasso s’impegna: «Non possono esistere cittadini di serie B in Europa, ci batteremo per garantire la libertà di movimento e pari diritti civili e sociali per tutti. Con l’obiettivo che nessuno sia più costretto, ma possa scegliere se spostarsi».
MA È TEMPO DI TORNARE in Italia. Corbyn fa sapere che ricambierà con una visita a Roma. Con la speranza che nel frattempo l’aria di Londra – dove i sondaggi accreditano ormai il Labour vincente con oltre il 40 per cento dei consensi – faccia bene al percorso di una sinistra capace di costruire uno spazio politico-elettorale «radicalmente riformatore», con uno spirito altrettanto maggioritario, in Italia come in tutta Europa.

Repubblica 21.2.18
Grasso gioca la carta Corbyn ma Leu è delusa dal leader
Incontro a Londra con il leader laburista, malumore tra i suoi per una campagna mai decollata Voci di scissione tra ex Pd e Si. Bersani alla minoranza dem: ricostruiamo il centrosinistra
Sotto accusa la responsabile della campagna elettorale Muroni
Il sondaggista a D’Alema: non sfondate
di Tommaso Ciriaco


ROMA Raccontano che Pierluigi Bersani e i suoi ambasciatori con la tessera Mdp in tasca abbiano ripreso da un po’ a tessere la tela.
«Sai – ha confidato l’ex segretario a diversi interlocutori di peso del Pd, che adesso faticano a mantenere il segreto - la convivenza con quelli di Sinistra Italiana difficilmente potrà durare». Il rischio è che le strade dei soci fondatori di Liberi e Uguali si dividano presto, insomma, e che contestualmente riparta un nuovo processo aggregativo nell’area progressista. «Dopo il 4 marzo cambia tutto. E noi dovremo riprendere un ragionamento insieme». Sono missioni mirate, quelle del leader di Liberi e Uguali. Rivolte a molti big dem rimasti scottati dal repulisti renziano nelle liste elettorali.
Michele Emiliano e Andrea Orlando, innanzitutto. E poi un governatore con ambizioni nazionali come Nicola Zingaretti, i prodiani e pure i cattolici delusi dal renzismo. Messaggi riservati che ufficialmente non esistono, ma che trovano risposte interessate. Perché al Nazareno cresce di ora in ora il partito di chi la vede così: «Dopo il 5 marzo diventerà prioritario ricostruire il centrosinistra».
Questa storia fatta di contatti riservati e appesa al rebus elettorale gira attorno a un nome: Piero Grasso. Se c’è un punto su cui le due anime di Liberi e Uguali concordano, è la delusione per la campagna impostata dall’ex Presidente del Senato. E la bocciatura della cosiddetta “linea Muroni”. Si tratta di Rossella Muroni, candidata alla Camera e coordinatrice della corsa elettorale di Grasso. Da settimane, per ora solo sottovoce, le imputano una gestione sbagliata della leadership. Le rinfacciano l’incapacità di imporre nell’agenda i temi di LeU. La accusano di aver sbagliato addirittura i manifesti.
Né a migliorare l’umore è bastata la missione oltremanica di Grasso, ieri a Londra per incontrare il leader laburista Jeremy Corbyn. La fusione non è riuscita, insomma. E l’obiettivo degli ex dem, una volta rientrati in Parlamento, sarà quello di tradurre in azione la tesi di Massimo D’Alema: «Bisogna far rinascere la sinistra per ricostruire il centrosinistra».
Certo, le incognite non mancano. Soltanto pochi giorni fa uno dei massimi sondaggisti italiani ha contattato D’Alema per avvertirlo: «Massimo, non state sfondando». Altro che performance a due cifre, insomma. E poi fosse davvero la Muroni, il problema. La verità è che anche sulla linea politica la divaricazione è allarmante.
Proprio D’Alema è stato il primo teorico di quel “governo del Presidente” di cui si discute in questi giorni dal Quirinale in giù.
E Bersani sa bene che difficilmente questo scenario potrà essere digerito dalle truppe di Nicola Fratoianni e Nichi Vendola. «Finiremo per dividerci», vaticinano da Mdp. È più o meno la stessa dinamica distruttiva che minaccia la tenuta del Pd.
Molti dirigenti hanno visto nella mossa di Prodi il primo passo per quella scomposizione e ricomposizione del campo progressista. Michele Emiliano non muove un dito in campagna elettorale e intanto riallaccia i contatti con i dalemiani. Andrea Orlando, mortificato dai renziani nella trattativa sulle liste, in privato si lamenta più o meno così: «Il Pd non è mai stato tanto in difficoltà. O il 5 marzo Renzi lascia spazio ad altri, come auspica Prodi, oppure saremo noi a dover riflettere su un altro approdo». Lontani dal Nazareno, se necessario.
È lo specchio dei ragionamenti di Bersani. Ed è lo stesso, amaro disincanto che coinvolge – con sfumature assai diverse – molti pesi massimi del Pd. Dario Franceschini resta in attesa degli eventi, ma intanto “chiama” proprio Leu in vista del futuro: «Dobbiamo partire da loro per formare un governo». Graziano Delrio è in freddo con Renzi, dopo lo smacco delle liste. Marco Minniti per adesso è concentrato sul regolare svolgimento delle elezioni, ma certo non ha digerito la decapitazione di uomini chiave come Nicola Latorre. Senza dimenticare Nicola Zingaretti, che sogna di costruire una leadership alternativa nel partito. E poi c’è il Professore, che ha rotto il silenzio. Tutti, ma proprio tutti, invocano Paolo Gentiloni. E proprio al fianco del premier, Walter Veltroni romperà il silenzio domenica mattina.
Renzi, che osserva le manovre, sa che soltanto con un risultato decente potrà far sopravvivere il suo progetto politico. E ogni qual volta riesce a ritagliarsi un break dal tour elettorale, rivendica la scelta di aver rinnovato brutalmente i gruppi parlamentari dem. «Se non l’avessi fatto – riflette – sarei già fuori dalla partita».

Il Fatto 21.2.18
Il triplo salto mortale di Calenda, da ministro a delegato della Fiom
di Alessandro Robecchi


Tra le magie della campagna elettorale e gli incantesimi pronta cassa della propaganda, ecco l’ultimo genio della lampada. Strofina, strofina, e voilà: il ministro dell’Industria (2 punto 0, 3 punto 0, 4 punto 0, variare a piacere) che si trasforma in delegato Fiom e chiama “gentaglia” i dirigenti della multinazionale che va a fare i compressori in Slovacchia rovinando cinquecento famiglie. Carlo Calenda si è fermato un attimo prima di andare a tirare i sassi alle finestre, ma insomma: il messaggio è chiaro, un pugno sul tavolo, basta coi padroni che se ne approfittano.
È davvero un caso di mimetismo strategico degno di animali come l’insetto-foglia o il polpo mimetico dell’Indonesia: all’avvicinarsi minaccioso delle elezioni, il fiero liberista diventa una specie di Di Vittorio, come tale salutato dai giornali, hurrà.
Che Calenda sia incazzato ci sta, non c’è niente di più sfiancante di gente (“gentaglia”) che “si siede a un tavolo” e poi fa quel che vuole. E divertente è anche l’assenza totale dal dibattito del ministro del Lavoro, uno che andava bene per truccare i dati sul Jobs act, e teorizzare il trasporto di verdura in cassette come scuola di vita, bene, grazie, il suo l’ha fatto.
Un po’ meno divertente, specie per chi ci rimane stritolato in mezzo, è il maledetto mondo reale. Di aziende che si insediano (magari rilevando qualche disastro e passando per salvatrici della patria), prendono soldi, agevolazioni e incentivi pubblici, e poi fanno quello che gli pare, è piena la storia recente del paese. Chi compra e scappa con gli impianti, chi trasferisce le produzioni dove conviene di più, chi disattende accordi e contratti. Da anni e anni i lavoratori italiani (e parliamo di quelli con un contratto, pensa gli altri!) vivono in uno stato di agitazione perenne, di allarmata insicurezza. Le crisi diventano vertenze, e diventano “tavoli”, e diventano “trattative”, e diventano “interventi” e poi, passano sei mesi, passa un anno, ecco che si riparte (quando va bene) con meno lavoratori, o salari più bassi, o condizioni di lavoro peggiorate, coi sindacati quasi sempre costretti a ingoiare rospi e a gioire per il “meno peggio” raggiunto. i dirà: è il mercato, bellezza.
Ma è anche interessante andare a vedere come nell’ultima legislatura (cinque lunghi anni) si è risposto a questa insicurezza di massa, a questo timore-tremore che si può perdere il lavoro da un momento all’altro. In buona sostanza, i lavoratori italiani sono stati irrisi costantemente e con regolare pervicacia.
Prima con la favoletta bella della disintermediazione, poi evocando il vecchiume delle battaglie sindacali (“Mettono il gettone nell’iPhone”, il più volgare schiaffo ai lavoratori mai arrivato dal giovane segretario Pd in trance agonistica).
Poi si innestò una guerra generazionale, indicando i lavoratori assunti come indecenti privilegiati. Poi fu il turno della legge sul lavoro col nome inglese, scritta a quattro mani con Confindustria (due mani di Confindustria, le altre due di Confindustria), il tutto con l’aggiunta dei ricami teorici-filosofici del sor Poletti, quello che “per trovare lavoro è meglio giocare a calcetto che mandare il curriculum”.
Lo stesso Renzi, ma sì, lo statista, incontrava il capo di Amazon e lo definiva “un genio”, ma ammetteva poi in tivù – in occasione di uno sciopero ad Amazon – di non conoscere le condizioni di quei lavoratori. Indicare ad esempio i padroni come nuovi signori rinascimentali, coprirli con miliardi di incentivi, stargli accanto quando brillano per catturare un po’ del riflesso: questo è stato fatto in questi anni (e soprattutto nei nefasti mille giorni di Renzi). E ora, a dieci giorni dalle elezioni, ecco un membro del governo sbottare come un Cobas inviperito. Che spettacolo!

il manifesto 21.2.18
Scuola, il nuovo concorso è il fallimento del renzismo
Il caso. E' riservato ai docenti in possesso di abilitazione. Notizia positiva, ma non bisogna farsi ingannare: questo è lo specchio di una gestione fallimentare che ha generato la Buona scuola
di Jacopo Rosatelli


Ieri si sono aperti i termini di iscrizione al concorso riservato ai docenti in possesso di abilitazione: migliaia di persone vedono finalmente avvicinarsi la stabilizzazione del loro lavoro nelle scuole secondarie (cioè medie e superiori). Non ci sono sbarramenti: tutti i partecipanti, in base alla valutazione ottenuta, finiranno in graduatorie regionali dalle quali verranno chiamati, nei prossimi anni, i nuovi insegnanti di ruolo. Una buona notizia, impossibile negarlo. Di quelle che un governo può trasformare facilmente in argomento propagandistico per mostrare le proprie virtù nell’amministrare un settore, quello dell’istruzione pubblica, funestato dalla piaga del precariato. Ma non bisogna farsi ingannare: il concorso a venire è semmai lo specchio di una gestione fallimentare, quella che ha generato la Buona scuola, che ha avuto in Matteo Renzi l’ispiratore e nelle ministre Giannini e Fedeli le zelanti esecutrici.
A sostenere la prova che farà da viatico all’assunzione in ruolo saranno quelle migliaia di insegnanti che erano risultati «bocciati» al concorsone imbastito nel 2016, in pieno renzismo trionfante. Riservato già quello ai soli abilitati, con oltre 60mila posti in palio, fu una mega-macchina infernale che generò infinite polemiche sull’assurdità dei quesiti e delle modalità di svolgimento, con inevitabile sequela di contenziosi. Quello che doveva essere un monumento imperituro all’ideologia della meritocrazia si rivelò un enorme pasticcio. Ma per Renzi e il suo Pd tutto era andato bene, e le migliaia di «bocciati» erano gente che non meritava di salire in cattedra. Peccato che in cattedra ci fossero già, e che ci siano saliti nei due anni successivi, da precari. Senza di loro, il sistema non andrebbe avanti. E non si tratta di abusivi, ma di professori e professoresse con un’abilitazione, cioè un titolo acquisito dopo il superamento di un precedente concorso (nel gergo scolastico Ssis o Tfa) o di un corso abilitante dopo almeno tre anni di servizio da supplenti (Pas).
Che senso ha avuto un concorso come quello del 2016, costoso e farraginoso, se due anni dopo si fanno entrare quei «bocciati» che l’allora ministra Giannini tacciava di indegni all’insegnamento? Nessuno. Come già due anni fa sostenevano sindacati, associazioni e movimenti. Inascoltati, proponevano un piano pluriennale di stabilizzazione di tutti i docenti abilitati. Da attuarsi magari dopo un concorso non selettivo che servisse solo a determinare una graduatoria. Cioè, esattamente quello che accadrà ora.
Se avesse dato retta agli odiati corpi intermedi del mondo della scuola, a quelle forme di rappresentanza ignorate in nome della «disintermediazione», il governo del Pd avrebbe fatto risparmiare alle casse pubbliche denaro irrazionalmente speso e alle nuove leve di prof ansia, inutili fatiche e umiliazioni.
Quello che si è messo in moto ieri è forse un tardivo risarcimento, ma soprattutto è l’implicita ammissione di avere sbagliato tutto.

Il Fatto 21.2.18
Turatevi il naso: la comunicazione politica di Renzi
di Peter Gomez


È il caso che qualcuno all’interno del Partito democratico si decida a regalare a Matteo Renzi un manuale di comunicazione politica. Nelle ultime settimane il segretario dei Dem appare sempre più nel pallone. Dopo essere riuscito a sbagliare il rigore a porta vuota rappresentato dal caso delle mancate restituzioni degli stipendi da parte di una decina di eletti 5stelle, Renzi insiste con una campagna elettorale ricca di dichiarazioni suicide. L’ultima è contenuta in una sua intervista rilasciata a Il Mattino di Napoli, in cui afferma testualmente: “Non faremo alleanze con gli estremisti. Questa è l’occasione per seguire il messaggio che a suo tempo diede il grande Indro Montanelli: turatevi il naso e votate Pd”.
Ammettere che il proprio partito puzza non è però una trovata che possa spingere i simpatizzanti a fare la coda ai seggi. Anche perché nel 1976 la celebre frase non fu pronunciata da un leader dello scudocrociato, ma fu appunto scritta da un maestro in giornalismo che non voleva vedere i comunisti al governo. Va detto, però, che Renzi durante l’intervista si è reso conto di averla fatta fuori dal vaso. Tanto che ha provato ad aggiustare il tiro. “In molti casi”, ha spiegato, “non c’è neanche bisogno di turarsi il naso, perché i candidati sono ottimi”. Ma anche qui il chiarimento ha finito solo per peggiorare le cose. A campagna elettorale ormai inoltrata, Renzi si sta rendendo conto di quanto cattiva sia stata l’idea di presentare un trentina di indagati e imputati, più una ventina di voltagabbana (in prevalenza usciti da Forza Italia) e molti figli e nipoti di. E per questo invita i suoi potenziali elettori a ignorarli guardando invece alle candidature buone. Peccato però che la responsabilità di aver inserito nelle liste un numero così alto di impresentabili sia solo sua.
Il segretario del Pd gioca insomma tutto sulla difensiva e nel panico per i sondaggi butta sempre più spesso la palla in tribuna. Lo dimostra un’altra sua improvvida uscita. Quando esplode nei Cinque Stelle la questione dei furbetti dei rimborsi, Renzi dagli schermi di La7, dice: “I grillini sono uguali agli altri, solo meno capaci”. Ma se per un avversario del Movimento è politicamente sensato porre l’accento sulla sua presunta inadeguatezza rispetto alle responsabilità di governo, appare surreale e controproducente che un segretario di partito sostenga l’eguaglianza dal punto di vista morale di tutte le forze politiche in campo.
Non per nulla uno che di campagne elettorali se ne intende, Silvio Berlusconi, piuttosto che dire, come fanno il segretario dem e l’uomo della strada, “è tutto un magna magna”, ricorre alla bugia. Sui cartelloni pubblicitari di Forza Italia affissi in molte città l’ex Cavaliere fa scrivere: “Onestà, esperienza, saggezza”. E quando gli chiedono della sua condanna, sostiene di essere vittima delle toghe rosse e non dice: “Vabbè, ho frodato il fisco, ma lo fanno un sacco di imprenditori”.
Renzi però è in evidente stato confusionale. Il 4 marzo, se il Pd scenderà di molto sotto quota 25%, i suoi gli faranno (politicamente parlando) la pelle. E come sempre accade in questi casi i primi a sparargli addosso saranno i parlamentari in teoria più fedeli. Noi qui ci sentiamo di dargli un solo consiglio: se proprio non vuole leggersi un manuale di comunicazione, anticipi i tempi. Visto che i dem al governo ci torneranno solo in caso di grande coalizione, vada subito ad Arcore e s’inginocchi davanti al pregiudicato Berlusconi. Un corso accelerato di propaganda elettorale glielo farà certamente lui.

Corriere 21.2.18
«Gentiloni? Prodi sbaglia È sfumatura del renzismo»
Bersani: il segretario ci accusa di aiutare Salvini, è un imbroglione
di Monica Guerzoni


ROMA «Noi siamo messi meglio di quel che si dice».
Pier Luigi Bersani, Liberi e uguali non viaggia al di sotto delle aspettative?
«No, ci sono pezzi di Italia dove i sondaggi non arrivano. Le tv oscurano la campagna di Leu, ma nelle sale c’è sempre più gente che sedie, gente normale che ha dei problemi. Registreremo un buon risultato, come al referendum».
Renzi vi accusa di favorire la vittoria di Salvini.
«È ora di smetterla, uno che fa affermazioni del genere è un imbroglione. Hanno voluto testardamente un sistema in gran parte proporzionale e adesso non possono parlare di voto utile mascherandolo da maggioritario. Non c’è aria per questi trucchetti».
Il Pd prenderà una botta?
«Sì, il grande popolo che fu del centrosinistra è largamente diviso, stiamo cercando di recuperarlo noi. Con l’aria che tira, fronteggiare la destra senza mettere in campo le energie disperse dal Pd è pura illusione».
Prodi che vota Insieme e sostiene il Gentiloni bis, è un compagno che sbaglia?
«Credo che il termometro di Romano non misuri bene la temperatura. Insieme è una sfumatura del Pd, Gentiloni è una sfumatura del renzismo. Ma non tira aria di sfumature, se si misura la temperatura del Paese».
Con Gentiloni il vostro no al dialogo cambierebbe?
«Più di mettere otto voti di fiducia sulla legge elettorale, cosa deve fare Gentiloni per testimoniare il renzismo? Non bastano i tratti di carattere. Risposte che espungono la questione sociale, come Insieme o la Bonino, lasciano un varco alle destre. È nel disagio che sta montando una destra regressiva, se non si va lì con delle proposte si apre una questione democratica».
La democrazia è a rischio?
«Se Forza Nuova entra nei consigli comunali e Casa- Pound prende l’8% a Lucca, è ora di capire che c’è un problema. Se ci sono rigurgiti fascisti o atti violenti si va in piazza tutti, come abbiamo sempre fatto. E si aggiustano le leggi. È mai possibile che gente che grida Sieg heil a braccio levato partecipi alle elezioni? Terzo, chiediamoci dove prendono i voti Forza Nuova e CasaPound. Nella rabbia, nelle periferie, in fondo alla gerarchia del lavoro. Se non ci va la sinistra, prima o poi ci va la destra. È pura illusione pensare di difendere il sistema democratico continuando a dire che i cieli sono azzurri, invece di mettere mano alla questione sociale».
E lei, pensa di fermare la destra rifiutando ogni accordo di governo col Pd?
«Il tema è più profondo. Noi adesso dobbiamo rappresentare, poi il Parlamento aggiusterà. Vogliamo costruire una grande area progressista, che si basi su una sinistra sociale di governo. Discuteremo con tutti quelli che sono disposti a parlare di lavoro vero e buono, Fisco progressivo, sanità e scuola. E non andremo con la destra, punto».
A destra si dice che Prodi lavori a larghe intese tra Pd, M5S e Leu. È così?
«Siamo alla fantapolitica».
Sosterrebbe i cinquestelle al governo, o no?
«La gente da loro non si aspetta buon governo, spera che scoppi un reset. Ma stanno chiudendosi in una monade, con le loro regole e le loro guardie e ladri. L’elettore pensa di accendere una miccia, invece mette il voto in frigo».
Ha cambiato idea?
«Parleremo anche con loro, hai visto mai che questo solipsismo cambi. Adesso non ne vedo le condizioni, ma dirò loro che si può essere per bene anche nel mondo di tutti, senza mettersi in un sopramondo come un arcangelo che sguaina la spada».
Mai al governo col Pd?
«Vedremo. Ci vorrebbe una svolta di cui adesso non si vede traccia. Siamo oltre il problema della governabilità tecnica, altri Paesi hanno avuto problemi ad allestire il governo e hanno trovato il modo. Il problema più profondo è che un pezzo di Paese non ne vuole sapere e vorrà segnalare il distacco. L’urgenza principale è rappresentare, poi ragioneremo, ma solo con quelli che condividono la necessità di ridurre la disuguaglianza».
Fa bene Gentiloni a togliere il canone Rai agli over 75?
«I soliti bonus. Sarebbe meglio pensare alla non autosufficienza».
Appoggiate Zingaretti sperando che diventi il segretario del dopo Renzi?
«Non è che noi li consideriamo tutti quanti allo stesso modo. Nelle liste di Renzi si è vista la volontà di spianare tutto quello che guarda a sinistra, mettendo dentro forze che siano poi disponibili ad altri orizzonti. Zingaretti ha una diversa disponibilità a discutere, siamo aperti e vogliamo rendere più larga una sinistra di governo».
Grasso vi ha delusi?
«Il problema non esiste. È l’idea vivente di un concetto di legalità, pulizia, serietà al governo e senso dello Stato. L’incontro con Corbyn non è una cosa estemporanea, ma la linea di una sinistra che parte dal grande tema sociale».
Molti pensano che fosse meglio Bersani. Rimpianti?
«Non esiste, Bersani fa la sua parte e basta ».

il manifesto 21.2.18
Una veglia civile per la riforma del carcere
Fuoriluogo. Siamo di fronte a un'occasione che non va perduta per rispondere alle condanne europee per trattamenti inumani e degradanti. Domani la parola al Consiglio dei ministri
di Stefano Anastasia, Franco Corleone


Il 20 dicembre scorso, proprio in questa rubrica, eravamo stati facili profeti nell’immaginare che il torbido periodo della campagna elettorale avrebbe alimentato un fuoco di fila contro la riforma dell’ordinamento penitenziario.
Si erano già levate le proteste di alcuni sindacati di polizia contro la possibilità di garantire anche in Italia il diritto alla sessualità dei detenuti. Si sono aggiunte le trite litanie dei soliti imprenditori della paura sul rischio di una nuova legge salvadelinquenti.
Grazie a improvvide audizioni, le Commissioni Giustizia hanno offerto alle forze della conservazione una tribuna per gettare veleno sulle minime ipotesi di revisione delle preclusioni in tema di benefici penitenziari e alternative al carcere. La proposta del Governo ridà ai magistrati qualche margine di maggiore responsabilità nella valutazione sui singoli casi, ma questa considerazione del ruolo della magistratura di sorveglianza fa paura ai Torquemada contemporanei, secondo i quali permessi e alternative andrebbero concessi solo a chi in carcere non dovrebbe proprio starci, mentre gli altri possono pure morirci. Ma, nonostante tutto, i pareri delle Regioni, delle Camere e, infine, del Csm sono stati complessivamente favorevoli.
Il Coordinamento dei Garanti regionali e comunali dei detenuti ha espresso al ministro Orlando il proprio apprezzamento per la conclusione dell’iter parlamentare e alcune indicazioni per chiudere positivamente questo lungo lavoro che – a partire dagli Stati generali dell’esecuzione penale – ha coinvolto tante energie della società civile. Come Garanti siamo convinti che le osservazioni migliorative possano essere accolte, mentre ogni ipotesi di restrizione della portata della riforma debba essere respinta, a partire dalla reviviscenza di inutili e vessatori impedimenti legislativi ai benefici e alle alternative al carcere. Abbiamo in particolare richiesto che venga raccolta l’indicazione pervenuta dalle Commissioni parlamentari e dalle Regioni sul rispetto del principio della territorialità e sulla qualificazione sanitaria delle sezioni penitenziarie destinate ad accogliere i detenuti con problemi di salute mentale. Per quanto riguarda la delega in materia di affettività in carcere, sollecitata nel parere del Senato, suggeriamo come un significativo passo in avanti possa essere anche il semplice riconoscimento della possibilità di svolgere colloqui non sottoposti a controllo visivo (altro che guardoni!), lasciando a una successiva revisione del Regolamento la concreta disciplina delle modalità di svolgimento di incontri riservati con familiari e terze persone.
Se il Consiglio dei Ministri – convocato per domani – butterà il cuore oltre l’ostacolo, il decreto legislativo tornerà per conoscenza alle Commissioni e dopo dieci giorni potrà essere definitivamente adottato, ancor prima dell’insediamento delle nuove Camere. Ci sono, dunque, i tempi e le condizioni per portare a termine questo primo importante passaggio di riforma. Non sappiamo se nella prossima legislatura il Governo porterà a compimento anche le deleghe ancora in sospeso, a partire da quelle sul lavoro penitenziario e sull’esecuzione penale minorile, già trasmesse dal Ministero della giustizia a Palazzo Chigi, ma siamo di fronte a una occasione che non va perduta per rispondere alle condanne europee per trattamenti inumani e degradanti.
Nelle carceri si vive con speranza e trepidazione questo momento e proprio per essere solidali con i detenuti, domani, in attesa della decisione del Consiglio dei ministri, i Garanti territoriali delle persone private della libertà si uniranno a loro in una veglia civile di digiuno per la giustizia e il diritto.

La Stampa 21.2.18
Il piano di Mattarella, evitare di tornare subito alle urne
Incarico non al primo partito, ma chi ha più chance
di Ugo Magri

qui

La Stampa 21.2.18
Dirigente di Forza Nuova picchiato a sangue in strada
Agguato a Palermo, il responsabile provinciale è stato legato mani e piedi
di Riccardo Arena


Rossi contro neri a Palermo non si vedeva da quasi una decina d’anni: ora la violenza politica torna a far parlare di sé anche nel capoluogo siciliano, col pestaggio di un esponente di Forza Nuova, avvenuto ieri sera in via Dante, pieno centro della città. Legato mani e piedi, col nastro da imballaggio, da una decina di militanti di sinistra, il responsabile provinciale Massimo Ursino è stato picchiato a sangue, riportando ferite e contusioni anche alla testa, che hanno reso necessario il suo trasporto in ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale Civico.
Nello squadrismo (di destra o di sinistra) 2.0, la scena è stata ripresa con un telefonino da una giovane, vestita di nero e mascherata con passamontagna e sciarpe scure come gli altri aggressori, per documentare l’azione e magari usarla come propaganda, riscaldando o surriscaldando ancora di più l’ambiente. Sabato infatti in città arriva Roberto Fiore, leader nazionale del movimento neofascista, identitario e fortemente contrario all’immigrazione. Motivi di ordine pubblico avevano messo in dubbio la manifestazione, ma ieri lo stesso Fiore ha confermato che non si tirerà indietro, adesso più che mai: «Siamo tutti con Massimo Ursino, io sarò a Palermo».
Le indagini della Digos si orientano verso i Centri sociali, a Palermo particolarmente irrequieti contro le forze dell’ordine. L’inedito – o quasi – è il confronto tra esponenti della sinistra più dura e pura e i movimenti neofascisti. Un precedente risale al 2011, ma si era trattato di botte dopo un incontro casuale: la questione recentemente si è chiusa con la remissione della querela da parte delle “vittime”, fra le quali c’era Francesco Vozza, dirigente di CasaPound. Quello che è accaduto ieri ha invece riportato indietro le lancette della storia, anche se le modalità sono ancora una volta adeguate ai tempi dei social: come scrivevano prima dell’aggressione di ieri, sulla loro pagina Facebook, i forzanovisti palermitani, già lunedì sera ci sarebbe stata una sorta di sit-in sotto casa di un esponente del movimento, probabilmente lo stesso Ursino, che ha una bottega artigiana in cui realizza tatuaggi. L’anno scorso gli era stata bruciata la saracinesca: ieri l’aggressione in mezzo alla gente.
Il Forum antirazzista, che riunisce una ventina di sigle, tra cui l’Anpi, aveva sollecitato prefetto e questore a non consentire a Fiore di parlare in città. Fn, già prima del pestaggio di Ursino, aveva risposto con un post che era tutto un programma: «Non vogliamo un ritorno al clima degli Anni 70-80, ma non è nostro costume tirarci indietro: l’importante è che si rispettino proporzioni numeriche onorevoli (non certo 10 contro 1) e si risparmino donne e uomini a terra». A pestaggio avvenuto, il nuovo affondo: «Dopo una campagna d’odio seminata dai media e seguita da tutta la sinistra inclusa Liberi e Uguali, si scatena l’odio comunista contro Forza Nuova» per le «botte in dieci contro uno». E poi l’invito di Fiore alla mobilitazione contro «la violenza comunista unita ai poteri forti».

Corriere 21.2.18
Saluti romani? Se chi li fa commemora non è reato
di Fulvio Fiano


Non tutti i saluti romani sono uguali. È reato quello che sottintende violenza, perché costituisce un attentato concreto all’ordine democratico. È consentito quello che ha intenti commemorativi dell’epoca fascista. Distinguerli sarà difficile e la decisione con cui la Cassazione ha ieri confermato l’assoluzione due esponenti di CasaPound, che avevano esibito braccio teso e mano dritta, apre altri possibili fronti di polemica politica in una campagna elettorale dove il ventennio mussoliniano è già un catalizzatore di scontri e tensioni. Segni e simboli dell’ideologia fascista in sé non sono vietati dalla legge, è il ragionamento dei supremi giudici. Marco Clemente e Matteo Ardolino, membri di CasaPound, durante una manifestazione organizzata a Milano nel 2014 da Fratelli d’Italia, rispondendo alla «chiamata del presente», avevano fatto il saluto romano, trovandosi così imputati per «concorso in manifestazione fascista», reato previsto all’articolo 5 della legge Scelba. Nell’autorizzare la commemorazione la questura aveva diffidato gli organizzatori dall’uso di bandiere e simboli quali le croci celtiche. Divieto disatteso, ma senza che il corteo venisse interrotto. I video avevano in seguito consentito di individuare i due imputati e altri due manifestanti, tra cui l’ex consigliere provinciale di Fdi, Roberta Capotosti, poi prosciolti nel 2016 da analoghe accuse. Già allora la Cassazione aveva sottolineato che il reato previsto dalla legge Scelba è «in pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascista in sé, attesa le libertà garantite dall’articolo 21 della Costituzione, ma soltanto ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento e all’ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi». Diverso sarebbe stato, secondo la suprema Corte, intonare ad esempio «all’armi siam fascisti», ritenuto inno all’odio e alla violenza e quindi punibile per legge.

Corriere 21.2.18
Raggi, accusa archiviata su Romeo «Cancellato un anno di schizzi di fango»
Per il tribunale nomina in linea con le scelte di altri sindaci. Nessun illecito sulle polizze vita
di Ilaria Sacchettoni


ROMA La giudice per le indagini preliminari Annalisa Marzano accoglie la richiesta della Procura e archivia l’accusa di abuso d’ufficio nei confronti di Virginia Raggi per la promozione a capo segreteria dell’ex fedelissimo Salvatore Romeo. Come altre volte, la sindaca sceglie Facebook per esultare: «Infondatezza della notizia di reato. Con queste parole il Tribunale di Roma ha cancellato più di un anno di schizzi di fango...».
Quella nomina? È impossibile, scrive la gip, provare il dolo di Virginia Raggi «con un approfondimento dibattimentale». E questo per almeno due ragioni: la prima è che la sindaca ha potuto contare su una lunga consuetudine da parte dei suoi predecessori, tutti molto propensi a nominare propri fiduciari ai vertici della macchina capitolina (anche Ignazio Marino e Gianni Alemanno, proprio come la sindaca dei Cinque Stelle, inizialmente indagati erano stati destinati all’archiviazione da parte della Procura).
La seconda ragione è che, su quella nomina, ricorda la gip, vi fu un parere positivo dell’avvocatura capitolina, visto che Romeo era già dipendente comunale e dunque poteva beneficiare di un’aspettativa non retribuita in quanto impiegato alle Partecipate e percepire uno stipendio «parametrato a quello di dirigente di III fascia» per il nuovo incarico.
Una soluzione, insomma, più indolore di altre per la pubblica amministrazione (ma per avere certezze sul danno erariale della promozione di Romeo bisogna aspettare la fine delle indagini avviate dalla Corte dei conti).
La vicenda è nota: all’indomani della vittoria grillina alle elezioni amministrative di Roma, Virginia Raggi si servì di alcuni fedelissimi esterni ai ranghi capitolini — fra cui quel Raffaele Marra oggi a processo per corruzione — per rivoluzionare l’organigramma del Comune. Fra le sue decisioni anche quella di proiettare il fratello di Marra, Renato, ai vertici dell’assessorato al Turismo. Una decisione rivendicata davanti alla responsabile dell’anticorruzione Mariarosa Turchi come personale mentre, secondo i magistrati Francesco Dall’Olio e Paolo Ielo, sarebbe stata pilotata da Raffaele Marra. Per questo episodio il 21 giugno prossimo (al riparo quindi da scadenze elettorali) la sindaca Virginia Raggi, imputata di falso, siederà di fronte al giudice.
Sulla vicenda della promozione di Romeo, politicamente imbarazzante per la sindaca, aveva pesato anche la scoperta di alcune polizze (per un totale di 130 mila euro) stipulate dallo stesso Romeo a beneficio della sindaca. Una circostanza non approfondita dal punto di vista investigativo ma lungamente dibattuta sotto il profilo dell’opportunità.
Ora la Raggi si è vista confortare dal magistrato anche su questo punto: «Francamente — scrive la gip Annalisa Marzano — appare piuttosto stravagante e comunque probatoriamente inconsistente conferire valenza illecita alle tre polizze assicurative».

Corriere 21.2.18
La riforma che fa bene al carcere e alla società
di Luigi Ferrarella


Non solo il voto del 4 marzo: sono in realtà due le campagne elettorali — quella dei partiti e quella dei magistrati — che insidiano, dopo quasi 3 anni di commissioni di studio e iter legislativi, l’ancora incerto varo del primo dei decreti legislativi (quello sulle misure alternative e la sanità carceraria) di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975.
«Sarebbe molto preoccupante, da parte della classe politica, assecondare dinamiche elettorali che non consentissero l’approvazione di una riforma così importante», constata il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte. Vero. Ma non c’è solo la spasmodica concorrenza elettorale tra Lega, Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia e (nel penultimo passaggio in Senato) Forza Italia a chi la spara più grossa per spartirsi il dividendo della paura lucrato sulle alterate percezioni della (in)sicurezza. E nemmeno ci sono solo i timori della maggioranza di pagare dazio elettorale proprio a ridosso del 4 marzo se Palazzo Chigi mantenesse l’impegno a fare domani il penultimo passo della riforma (accogliendo i miglioramenti proposti dal parere della Commissione giustizia della Camera ma non i rilievi demolitori del Senato), e poi il passo definitivo entro i 10 giorni dell’ultimo parere.
A pesare molto nella contraerea mediatica, invece, è anche un’altra campagna elettorale in corso: quella dei magistrati per il rinnovo in estate del loro autogoverno nel Consiglio superiore della magistratura. In vista del quale non è ad esempio un caso che tra i magistrati più impegnati ad accreditare l’idea di un ennesimo svuotacarceri spicchi il pm catanese candidato al Csm Sebastiano Ardita, ex dirigente 2002-2011 del ministeriale Dipartimento penitenziario, e braccio destro del pure candidato al Csm Piercamillo Davigo nella corrente fondata dall’ex pm di Mani Pulite ed ex presidente dell’Anm con la scissione dalla corrente di destra egemonizzata invece da Cosimo Ferri, cioè dal sottosegretario berlusconiano nel governo Letta poi rimasto come «tecnico» nei governi Renzi-Gentiloni e ora candidato dal Pd in un collegio sicuro alla Camera: asserito svuotacarceri contro il quale «tutti i magistrati italiani dovrebbero mobilitarsi» perché indirettamente sfalderebbe il carcere duro 41 bis e potrebbe liberare i mafiosi.
Peccato che questo spettro — accolto dal parere del Senato, e preso per buono da tv e giornali comprensibilmente sensibili alla «griffe» di magistrati che lo agitano deformando e stravolgendo irrealistiche conseguenze di supposti incastri di norme — semplicemente non sia vero. Non solo perché la delega data nel 2017 dal Parlamento ha imposto al governo di escludere nei decreti attuativi qualsiasi modifica al regime sia del «carcere duro» sia dei reati di associazione mafiosa e terroristica. Ma soprattutto perché per i condannati a una serie di reati oggi ostativi ai benefici (ma comunque mai per quelli aggravati da finalità di mafia o terrorismo) la riforma eliminerà soltanto le rigide presunzioni legali di irrecuperabilità sociale. Non significa che diventerà automatica la concessione di misure alternative al carcere per residui di pene sotto i 4 anni (oggi 3), ma solo che si aprirà una possibilità affidata sempre alla discrezionale valutazione, caso per caso, dei magistrati di sorveglianza. Anzi, gli automatismi verranno aboliti pure nella concessione delle misure alternative: perché la riforma abrogherà la legge che sinora consente in modo quasi automatico di espiare alcune pene in detenzione domiciliare, aumenterà le verifiche per la concessione delle misure alternative al carcere e i controlli sul comportamento di chi vi venga ammesso, pretenderà dal detenuto impegni concreti a favore della vittima.
Coltiverà insomma, per dirla con il presidente della Commissione di riforma, Glauco Giostra, «l’idea che al condannato si debba dare di più e chiedere di più». Non per sdolcinato buonismo. Neppure come furbetto rimedio all’insufficiente capienza delle carceri (50.517 posti per 58.087 detenuti), come spacciano i conduttori di talk-show urlanti «la gente non ne può più delle pene alternative!». E nemmeno solo perché l’articolo 27 della Costituzione (dimenticata da quei magistrati che la sbandierano «più bella del mondo» solo quando conviene loro) stabilisce che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Ma anche, e anzi più ancora, per egoistico interesse: per la convenienza proprio di chi va seriamente cercando più sicurezza contro la criminalità. Direttori e agenti penitenziari, magistrati di sorveglianza e tutte le statistiche attestano infatti come la recidiva, cioé la propensione degli ex detenuti a tornare a delinquere, sia incomparabilmente inferiore (rispetto a quella di chi sconta l’intera pena in carcere) nei condannati che invece ne scontino una parte in serie misure alternative al carcere, specie se abbinate a un reale avviamento al lavoro (il cui relativo decreto attuativo, finalmente dotato di risorse finanziarie, domani a Palazzo Chigi dovrebbe essere rimesso in carreggiata).
Puntare su questo modello serve dunque non a «svuotare» (le carceri), ma a «riempire» (di maggior futura sicurezza) la società. Peccato ce ne si accorga poco. Se 10 detenuti devastassero il reparto di un carcere, finirebbero su tutti i tg e giornali. Ma se, a sostegno della riforma, 10.000 detenuti stanno scegliendo il metodo della non violenza, e con lo sciopero del carrello o il rifiuto della spesa in carcere aderiscono al Satyagraha (digiuno di «insistenza per la verità») della coordinatrice del Partito radicale Rita Bernardini, non valgono un trafiletto. Neppure a fianco delle paginate di pensose interviste di toghe superstar innamorate del tutto-carcere solo-carcere.

il manifesto 21.2.18
Referendum Groko, iscritti Spd al voto
Germania. Alle urne per la ratifica del «contratto di coalizione» con Angela Merkel firmato a inizio mese dall’ex segretario Martin Schulz. L’esito ufficiale sarà reso pubblico due giorni dopo, in contemporanea con la chiusura dei seggi italiani
di Sebastiano Canetta


BERLINO Il destino della Groko nelle mani degli iscritti Spd. Ieri mattina è partito il referendum di ratifica del «contratto di coalizione» con Angela Merkel firmato a inizio mese dall’ex segretario Martin Schulz. Alle urne, 463.723 tesserati che potranno votare per posta fino al pomeriggio del 2 marzo. Se parteciperà almeno il 20% degli aventi-diritto, il risultato sarà vincolante per i dirigenti socialisti, anche se non per i deputati cui la Costituzione garantisce l’autonomia al Bundestag. L’esito ufficiale sarà reso pubblico due giorni dopo, in contemporanea con la chiusura dei seggi italiani.
La maxi-consultazione costerà circa un milione e mezzo di euro tra spese organizzative, kit di votazione, e riproduzione integrale delle 177 pagine dell’accordo sul numero speciale di Vorwärts (l’Avanti tedesco).
Gli iscritti residenti all’estero potranno esprimere la preferenza on-line mentre a tutti i tesserati è richiesta una dichiarazione giurata sulla paternità del voto. Tra le pre-condizioni per la partecipazione spicca l’assenza del requisito di nazionalità, mentre il registro degli ammessi è stato chiuso conteggiando le tessere registrate fino al 6 febbraio: una vittoria dei Giovani socialisti impegnati nell’arruolamento all’ultima ora dei contrari alla Groko.
Sull’elezione più attesa in Germania pende la massima incognita, al contrario di cinque anni fa quando l’ex leader Spd, Sigmar Gabriel, ottenne il 76% di voti che fece nascere il terzo governo Merkel. Il leggero vantaggio degli Ja sui Nein esiste solo sulla carta del recente congresso di Bonn chiuso con il favore del 56% dei delegati. Potrebbe non coincidere il 3 marzo, al momento del conteggio delle schede su cui è stampato un quesito dirimente per l’intero Paese: «È opportuno che la Spd concluda l’accordo di coalizione del febbraio 2018 con Cdu e Csu?». La risposta degli iscritti verrà spedita per posta alla Willy Brandt Haus, quartier generale dei socialisti a Berlino, per il vaglio finale affidato a un notaio.
Massima trasparenza. Anche se nella minoranza Spd qualcuno fa notare che la documentazione elettorale è stata accompagnata dall’invito pro-Groko della maggioranza ma non dal manifesto dell’opposizione, in violazione con lo statuto che prevede il diritto di parola a tutti.
Se fra 9 giorni a vincere il referendum saranno i contrari alla linea-Schulz, a Berlino si riaprono i capitoli del governo di minoranza e delle elezioni anticipate. Per la prima ipotesi si spolmona da una settimana il leader liberale Christian Lindner che ha riaperto la porta a Merkel dopo avere affondato il negoziato Giamaica.
La seconda, invece, resta appesa al presidente federale Frank-Walter Steinmeier, che però può sciogliere il Bundestag solo dopo tre voti contrari all’aspirante cancelliera. Una via impervia, perfino più della strada accidentata dal referendum dell’accordo Merkel-Schulz.

Repubblica 21.2.18
Tra Italia e Canton Ticino
La valle che non dorme per i droni anti-migranti
Nei paesi del Comasco sorvolati dai mezzi svizzeri che controllano il confine “Notti insonni da un anno. Basta spiare quei disgraziati”
Ma c’è chi è d’accordo “Così si catturano anche i rapinatori”
di Brunella Giovara


CASTEL SAN PIETRO (SVIZZERA) Contro il Drone, si può ben tirare fuori il fucile d’assalto. «Ci ho pensato l’altra sera mentre passava sopra casa mia: adesso prendo il mio Fass 90 calibro 7,5 e lo centro a colpo singolo. Ci vedo molto bene, io». Fabrizio, 56 anni, operaio del Canton Ticino, non ne può più (ma lui usa altre parole) dei voli notturni del drone che la sua Svizzera usa per pattugliare il confine con l’Italia, da un anno e mezzo, per individuare contrabbandieri di merci e uomini, cioè migranti.
«Dormo con le finestre aperte anche d’inverno, e quello fa un rumore tremendo. Siamo tutti furibondi, e visto che noi riservisti abbiamo in casa il fucile dell’esercito, prima o poi succederà che qualcuno lo tirerà giù. Ma basta! Ci lascino dormire». Oltre tutto, l’aggeggio volante «monta un bimotore, è come avere un aereo da turismo che va avanti e indietro sulla tua testa, tutta la notte. Maledetto Drone».
La maiuscola è obbligatoria perché qui non si parla del quasi giocattolo che si usa per fare le foto sulla spiaggia, ma di una bestia lunga 5 metri e con apertura alare da 5,71. Un mezzo militare — ADS-95 — della Swiss Air Force, in dotazione alla Guardia di frontiera svizzera, di stanza all’aeroporto di Lugano, telecomandato «da un pilota e da un operatore della Luftwaffe, ma il capo delle operazioni è un nostro dipendente», spiega da Berna David Marquis, portavoce della Guardia di frontiera nazionale. Garantisce che «i droni vengono utilizzati esclusivamente sul territorio svizzero», ma basta andare a Maslianico, provincia di Como, o a Colverde, dove molti cittadini hanno fatto proteste e esposti, senza mai avere risposta. Il sindaco Cristian Tolettini ha già dichiarato che «è un problema con cui conviviamo da troppo tempo». Peraltro un drone piccolino ce l’ha anche il suo Comune, che ha stanziato 13mila euro per un modello Sapr: «Non volevamo essere da meno rispetto agli svizzeri, vogliamo che la sorveglianza sia massima», ha detto Tolettini, che è anche segretario provinciale della Lega Nord, oltre che specialista di ronde. Ha aggiunto che servirà «anche a scoprire i tetti di amianto non ancora rimossi». Comunque non c’è gara, tra gli schieramenti di forze.
Un altro che dorme con le finestre aperte — per via di una moglie educata nella Svizzera tedesca — è il sindaco di Maslianico, che non dorme «nonostante i tappi nelle orecchie». Tiziano Citterio pensa che «sarebbero meglio le pattuglie piuttosto di quel coso», e che «non c’è quel flusso di migranti che preme sulla Svizzera, come su altre frontiere. Credo abbiano fermato 15 persone in tre anni». Ricorda anche che su questi stessi valichi un tempo c’era un robusto contrabbando, su passaggi «che si chiamavano i sentieri di Ho Chi Min». Verso la Svizzera, «carne e gasolio, su tracciati così larghi da far passare i camion».
Verso l’Italia, sigarette. Poi non è stato più conveniente e ora — a parte i migranti — il traffico maggiore è quello dei ticinesi che vengono a fare la spesa al Bennet. «Uno su due viene qui perché conviene», salvo i controlli, visto che gli alimentari sono contingentati.
Quindi, tra Mendrisiotto e Comasco pochi dormono, ma alcuni al drone svizzero ci tengono, come Pamela Gatti di Maslianico: «I controlli servono.
E poi, io abito sotto il campanile.
Quello suona l’ora e la mezz’ora.
Dovrei tirarlo giù?». Ma a Colverde Walter Bernasconi parla di «grande ingerenza verso l’Italia. Quest’estate è stata terribile, io e mio padre malato, che pena, non riusciva a riposare». Pietro, 60 anni, frontaliero a Genestrerio, dice che «è come la battaglia d’Inghilterra. Loro con quel mega drone, noi con il nostro, è ridicolo. Quell’aggeggio è una spia, va a caccia di quei poveri disgraziati, ma li lascino andare… Una sera ho visto due ragazzini fermati dagli svizzeri, armi spianate. Li hanno sbattuti contro il muro, mani in alto». In più «fa un casino tremendo».
A Vacallo — parte svizzera — Etienne Werner ritiene «il nostro drone molto utile. Forse non serve a quelli di là», e indica sprezzante giù, verso Como, «ma così si prendono anche i rapinatori, gli albanesi e gli slavi che vengono qui a fare i colpi». A piedi attraverso la montagna?
«Eh già, sono stati visti». Invece a Castel San Pietro, dove qualcuno ha anche traslocato, trovandosi dritto sulla rotta Agno aeroporto di Lugano-Italia, una donna si è sfogata con Ticinonline: «Per dormire prendo le pastiglie. E ho comprato dei tappi da 120 franchi. Il rumore è pazzesco. In più, una sera è arrivata la polizia a dirmi che il drone aveva segnalato un’intrusione a casa mia. Era mio marito». Quindi no privacy, sotto tutti i punti di vista, con quell’occhio rosso che lampeggia nella notte.
Ma le cose cambieranno. Da Berna, David Marquis dice: «Presto avremo un nuovo sistema di droni del tipo ADS15 (Hermes 900 HFE), mezzi moderni con un livello di rumore molto più basso. Voleremo più alto». Quando succederà? «Nel 2020». Quello che non dice è che: il nuovo modello — israeliano — è lungo oltre 8 metri, con apertura alare di 15, e pesa quasi una tonnellata. Il rumore? Basta cercare un video online.

Il Fatto 21.2.18
Orrore infinito
I due volti di Assad: difende i curdi ma bombarda civili
Il regime manda truppe ad Afrin per bloccare la Turchia, ma a Ghouta colpisce nel mucchio
di Roberta Zunini


Il siriano Bashar al Assad si è trasformato in questi giorni in un presidente-dittatore bifronte, esattamente come il suo arci nemico Recep Tayyip Erdogan, aspirante dittatore, in dirittura d’arrivo, della repubblica turca.
I due ex “fratelli” – sette anni fa, poche settimane prima dell’inizio del conflitto i due ancora si frequentavano con le rispettive consorti e si definivano legati da stima e amicizia fraterna – ora stanno mostrando al mondo di avere un altro aspetto comune.
Con l’inizio, tre settimane fa, dell’operazione Ramoscello d’ulivo, il Sultano ha dato ordine al proprio esercito di invadere il territorio, ufficialmente ancora sovrano, della Siria per annichilire i curdi del cantone di Afrin con il pretesto del loro stretto legame con i curdi che vivono a pochi chilometri appena al di là del confine, nel sud est della Turchia.
Secondo Erdogan, di fatto tutti i curdi che vivono sul suolo turco sono terroristi legati al Pkk di Ocalan. Nel tentativo di mostrare contemporaneamente l’altra faccia, quella accettabile, secondo lui, Erdogan si è eretto più che mai portavoce della causa palestinese in opposizione alla scelta degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele.
La stessa cosa sta facendo ora Assad, mandando le proprie truppe (sostenute dalla Russia e dall’Iran, attraverso gli sciiti libanesi di Hezbollah) a “proteggere” i curdi di Afrin, che finora aveva trattato come cittadini di serie C, privati per nascita delle stesse chance degli altri siriani, ovvero quelli di orgine araba e religione sciita-alawita. Ora però c’è da combattere il Sultano e i curdi tornano buoni. Nonostante le pressioni russe, Erdogan continua ad alzare la voce. Il reis (versione turca dell’arabo rais) è determinato a continuare la prova di forza contro Assad e i suoi potenti mentori, confidando nel fatto di essere un membro cruciale dal punto di vista geo strategico della Nato. Così i turchi hanno aperto il fuoco ieri contro le forze di Damasco che volevano entrare a Afrin.
L’agenzia di stampa turca Anadolu riferisce: “I gruppi terroristici pro regime che si sforzano di avanzare verso Afrin hanno indietreggiato di circa 10 chilolmetri rispetto alla città a causa di spari di avvertimento”. Ovviamente Damasco smentisce. Assad pare determinato a far salire la tensione al confine, con la scusa di proteggere i civili curdi, mettendo da parte l’ennesimo assedio che si trasforma in un bagno di sangue, quello di Ghouta, la provincia a est di Damasco ancora sotto il controllo dei gruppi ribelli al regime, tra i quali quel che resta dell’Isis. È salito a 98, tra cui 20 bambini e 14 donne, il bilancio delle vittime delle ultime ore dei raid aerei e di artiglieria governativi sulla zona assediata da tre anni dalle truppe lealiste. Il bilancio dell’Osservatorio siriano per i diritti umani – organizzazione che però ha sede nel Regno Unito – arriva a 194 civili uccisi da domenica. Numeri destinati purtroppo ad aumentare perché i feriti sono circa 470. Per le Nazioni Unite “non ci sono più parole2 per esprimere lo sdegno dinanzi alle uccisioni e alle sofferenze dei bambini nella Ghouta orientale. Il lungo e sanguinoso conflitto siriano è dunque ancora lontano dal finire e gli scarponi turchi sul terreno siriano allontanano ancora di più l’uscita dal tunnel. I turchi sono infatti, seppur in modo ambiguo e scorretto alleati degli americani. Che nella zona del Rojava – la fascia a nord della Siria lungo il confine turco e dove si trova Afrin – sono alleati dei curdi siriani in chiave anti jihadista. Un puzzle che richiederà decenni per essere rimesso a posto.

Corriere 21.2.18
Il fronte settentrionale
Sulle colline dei curdi arrivano i rinforzi di Assad «Batteremo i turchi»
Spari e proclami. «Abbiamo già sconfitto Isis, siamo pronti»
dal nostro inviato a Manbij (Siria) Lorenzo Cremonesi


«Se i turchi vengono sulla nostra riva, noi spariamo», dicono i curdi. L’acqua scorre tranquilla, inconsapevole delle tensioni che la circondano. Perché anche qui, come da tempo immemorabile nei conflitti tra gli uomini, dove predominano pianure piatte e pochi ostacoli naturali, sono i fiumi a segnare i confini. E così è per questa regione di guerre antiche, dove oggi sono ancora l’Eufrate e i suoi affluenti a caratterizzare i contorni del nuovo braccio di ferro tra curdi, turchi e lealisti siriani assieme ai loro alleati regionali e persino i comandi russi e americani. «Erdogan vorrebbe costringere noi curdi con i nostri amici del contingente americano a Est dell’Eufrate. Ma non ci riuscirà. Afrin è nostra e la difenderemo, come del resto anche Manbij e le altre zone a Ovest del grande fiume», spiegano i portavoce delle Ypg, che sono le milizie curde siriane di Rojava, la regione del Nord-est che dallo scoppio delle sommosse contro il regime di Assad sette anni fa è di fatto diventata indipendente. «Qui 200 metri davanti a noi scorre lo Sajur, un affluente dell’Eufrate, che sino alla fine del 2016 bagnava anche il cuore delle zone controllate da Isis, e adesso divide le nostre posizioni avanzate da quelle appena prese dall’esercito turco», dice Akef Manbi, il 25enne comandante del punto di osservazione «Judy». Gli ordini per il suo plotone che da oltre un anno pattuglia la zona sono chiari: fare fuoco se i turchi attraversano lo Sajur. Nel caso la situazione si facesse critica, molto possibile visto che hanno in dotazione solo Kalashnikov per fronteggiare i blindati pesanti mandati da Erdogan, avvisino subito il comando centrale a Manbij, una ventina di chilometri più a Est, che a sua volta chiederà la copertura aerea americana.
Siamo arrivati in questo settore ubertoso di colline dolci, puntellate da campi coltivati, serre curate, alberi di melograno, e uliveti proprio mentre lo scenario bellico sta radicalmente cambiando. Se l’attacco turco del 20 gennaio contro i curdi nella loro enclave di Afrin, una cinquantina di chilometri in linea d’aria da qui, aveva colto anche i loro alleati americani di sorpresa ed era apparso che Erdogan potesse rapidamente guadagnare terreno, da ieri per lui la situazione si è complicata. In mattinata infatti i comandi dello Ypg ad Afrin si sono accordati con il regime di Damasco perché questi invii unità in prima linea contro i turchi. Nel pomeriggio le tv siriane, rilanciate da quelle curde, trasmettevano in diretta l’arrivo dei convogli ad Afrin sventolanti le bandiere con le due stelle del regime assieme ai ritratti di Assad. La reazione di Erdogan non si è fatta attendere. Nell’arco di un paio d’ore ha definito «terroristi» i contingenti siriani e ordinato alle sue artiglierie di fare fuoco contro di loro. Poco importa che a Damasco si specifichi che i nuovi arrivati sono «milizie alleate» e che l’esercito siriano non è coinvolto. Fatto sta che adesso Assad si schiera con i curdi e complica anche i piani dell’alleato Vladimir Putin, il quale un mese fa era stato ben contento di ritirare i propri soldati da Afrin pur di fomentare gli attriti turco-americani.
Dal punto di vista curdo per il momento la cooperazione con Damasco è puramente tattica. «Noi di Rojava non commetteremo l’errore dei curdi iracheni, i quali con il referendum azzardato del settembre scorso per l’indipendenza da Bagdad si sono cacciati in un vicolo cieco, mettendo a rischio la loro stessa autonomia. Noi pensiamo invece ad una futura Siria federale e democratica, dove comunque resteremo parte dello Stato. Ma i tempi non sono ancora maturi. La dittatura prima di tutto deve terminare», ci spiega la 47enne Mizgin Ehmet, alta responsabile politica di questo esperimento sociale unico, caratterizzato da un forte senso laico, elementi di socialismo ed una fede profonda nelle sue unità militari composte da giovani donne e uomini. Per il momento i curdi sono consapevoli che nel caos violento della Siria, dove tanti attori combattono per spartirsi le regioni abbandonate dal Califfato, battuto ma non ancora totalmente sconfitto, la loro migliore garanzia resta il sostegno americano. Stimano di avere perso oltre 7.000 tra soldati e soldatesse dal 2011 ad oggi. Almeno un centinaio nella sola Afrin. I loro lutti sono testimoniati dai cimiteri militari, dalle fotografie dei loro «martiri» appese ai muri, sventolanti ai posti di blocco, nei mausolei, lungo le strade sulle rovine di Kobane. «Gli americani sanno che noi siamo stati sempre in prima linea contro Isis. Perché voi europei ve ne siete dimenticati? Perché non ci aiutate contro Erdogan?», chiede polemico il 40enne Nurui Mahmud, massimo portavoce delle Ypg incontrato a Qamishli.
Nel settore di Manbij circa 300 soldati americani sono posizionati nella base a sei chilometri dal villaggio di Arima, dove inizia il controllo dell’esercito siriano sino alla zona di Aleppo e verso Idlib. Un paio di chilometri a Nord i turchi si stanno trincerando. Di notte sparano occasionalmente verso le postazioni curde, ma evitano accuratamente di colpire gli americani. Ufficialmente il passaggio di Arima sarebbe chiuso. «Ma noi corrompiamo i soldati siriani e grazie all’aiuto dei contrabbandieri locali facciamo arrivare armi e munizioni di rinforzo ai nostri compagni asserragliati ad Afrin», dicono i curdi assieme alle locali milizie sunnite loro alleate (almeno per il momento). «Ogni tanto nel cielo sfrecciano i caccia turchi. Ma anche quelli americani. E gli americani ogni tre o quattro giorni effettuano pattuglie lungo il fronte con tre blindati scortati dai loro droni che controllano dall’aria», spiegano alla postazione chiamata «Shaid Hugur». I curdi sono in terreno difficile. Qui sino a poco fa Isis dominava. Jarablus, una nota roccaforte jihadista, è solo a tre chilometri di distanza. E nel 2016 la stessa città di Manbij ospitava un grande campo di addestramento per i volontari stranieri di Isis in arrivo dal confine turco. Le notti sono lunghe: «Ogni tanto col buio qualcuno cerca di mettere mine sui percorsi dei nostri mezzi. Sino ad ora le abbiamo individuate. Ma dobbiamo restare vigili».

Repubblica 21.2.18
Il fantasma di un’altra Sarajevo
di Paolo Garimberti


C’è davvero il rischio che Damasco diventi la Sarajevo del secolo Duemila, la miccia di un conflitto che si allarga per cerchi concentrici fino a diventare globale? Non è più una domanda astratta o retorica. Ma un quesito di un drammatico realismo. La guerra civile siriana, che dura ormai da sette anni, ha risucchiato in un’escalation inesorabile una serie di attori regionali e internazionali, che sembrano incapaci di districarsi da una palude in cui affondano ogni giorno di più.
Elenchiamo, in ordine sparso, i fatti che sono accaduti nelle ultime settimane. Un caccia F- 16 israeliano è stato abbattuto dalla contraerea siriana mentre tornava da un raid di rappresaglia, dopo che un drone iraniano lanciato dalla Siria era stato distrutto nel cielo di Israele. Un aereo russo è stato abbattuto da jihadisti vicino a Idlib. Un elicottero turco è stato distrutto dai curdi siriani, sostenuti dagli Stati Uniti ma sotto attacco da parte di un altro Paese membro della Nato, cioè la Turchia. Paramilitari russi sono stati uccisi dall’aviazione americana mentre cercavano di prendere il controllo di un giacimento petrolifero: ieri il ministero degli Esteri di Mosca ha confermato che i «cittadini russi o dell’ex Urss» uccisi o feriti sono «diverse decine», dopo che in un primo momento le fonti ufficiali russe avevano parlato di cinque morti e il Pentagono aveva alzato la cifra «fino a 200».
Intanto l’aviazione di Bashar al-Assad continua a martellare Ghouta, l’enclave vicino a Damasco, in mano ai ribelli e sotto assedio da cinque anni, dove negli ultimi due giorni ci sono stati quasi 250 morti di cui almeno 50 bambini. Ghouta sta diventando una seconda Aleppo, la cui caduta nel 2016 sembrò segnare una svolta nella guerra civile siriana. Per completare il quadro, il presidente turco Erdogan ha annunciato l’attacco finale ad Afrin per sottrarla al controllo delle milizie curde dell’Ypg, che avrebbero stretto un accordo con l’esercito governativo siriano, pronto a una controffensiva per aiutare i curdi a difendersi dai carri armati turchi.
Tutti, in questa spirale senza fine, sembrano prigionieri di se stessi, dei loro odi e delle loro ambizioni, oltre che delle loro debolezze. Assad, resuscitato dai russi e dagli iraniani, vuole riconquistare più terreno possibile in vista di un eventuale, e sempre più remoto, negoziato di pace, sostenuto nella sua feroce determinazione dal cinismo di Mosca, che giustifica il massacro di civili a Ghouta, così come fece ad Aleppo, con la ragion di Stato. Erdogan, ossessionato dall’ipotesi di uno Stato curdo così come lo è dai veri o presunti seguaci di Gulen condannati al carcere da una magistratura servile, è pronto a sfidare gli Stati Uniti e a mettersi di nuovo in rotta di collisione con Putin pur di allontanare la minaccia curda dai suoi confini.
Il presidente russo sembrava poter essere l’arbitro del conflitto, dopo i successi dell’intervento militare a sostegno di Assad iniziato nel 2015. L’unico sponsor credibile per un negoziato di pace tenuto conto dei buoni rapporti di Mosca con tutti gli attori regionali: l’Iran, la Siria, la Turchia e anche Israele. Ma la conferenza di Sochi, il mese scorso, è stata un flop totale, disertata dall’opposizione e snobbata dai rappresentanti di Damasco, che hanno respinto una proposta delle Nazioni Unite e della stessa Russia per una nuova Costituzione. Gli altri due co-sponsor della conferenza, Iran e Turchia, sono arrivati ai ferri corti tra loro dopo che le milizie filo-iraniane hanno bombardato un convoglio turco in Siria, con il tacito consenso dei russi. Ma Putin, in un anno elettorale, deve fare i conti anche con un’opinione pubblica interna, che dopo la tragica esperienza in Afghanistan è estremamente riluttante verso gli impegni militari all’estero: secondo un recente sondaggio meno di un terzo degli intervistati si è detto a favore. Le notizie di queste ultime ore sui mercenari russi morti in Siria ( che tra l’altro sarebbero dei “ contractors” di un’agenzia partecipata da Evgenyij Prigozhin, il “ cuoco di Putin” implicato anche nel Russiagate) possono aumentare il malumore dei russi sull’intervento nel Paese. Putin non rischia certo di perdere l’elezione presidenziale. Ma è ossessionato dall’astensionismo: meno del 70 per cento dei votanti sarebbe una soglia considerata una sconfitta dal Cremlino. E le cattive notizie non favoriscono l’afflusso alle urne.
Ma se Mosca non ride, Washington piange. L’insipienza internazionale di Trump e, purtroppo, anche di molti suoi collaboratori, a cominciare dal segretario di Stato Tillerson, ha reso ancora più irreversibili l’impotenza militare e l’inerzia diplomatica che la miopia di Obama avevano già creato, focalizzando tutta la strategia americana in Siria soltanto sulla lotta al cosiddetto Stato islamico.
In questa ragnatela di impotenza e di cinismo c’è l’incognita gigantesca di Israele. Che finora ha evitato di intervenire direttamente in Siria, anche se dal 2013 ha condotto più di cento attacchi aerei contro postazioni degli Hezbollah. Ma il reperto del drone distrutto, che Netanyahu ha teatralmente mostrato alla conferenza di Monaco chiamando in causa il ministro degli Esteri di Teheran, è servito a lanciare un messaggio preciso, tracciando una linea rossa nella geopolitica del conflitto. Il premier israeliano, che si sente spalleggiato in questo da Usa e Arabia Saudita, non potrà mai tollerare che la guerra in Siria, con i giochi incrociati tra Teheran, Damasco, Mosca e gli Hezbollah, sia l’occasione per creare una sorta di ponte terrestre tra l’Iran e il Mediterraneo.
Se questa linea rossa venisse superata circoscrivere la guerra civile siriana diventerebbe impossibile. E allora sì che Damasco potrebbe essere la Sarajevo del nostro secolo.

Repubblica 21.2.18
Il battaglione internazionale
Marco, Eddi e gli altri i foreign fighter italiani in guerra contro i turchi
di Fabio Tonacci


Dall’inferno di Afrin salgono le voci d’Italia.
La cantilena veneta di Marco, 23 anni, nome di battaglia Gelhat Drakon: «I turchi stanno spargendo sangue su sangue. Ho sentito le dichiarazioni del loro ministro degli esteri, quello canta un sacco di balle. Se ne esco vivo, sarò testimone di un genocidio». Il dialetto robusto da borgata romana di un anarchico di 33 anni, nome di battaglia Delsoz: «Ci attacca il secondo esercito della Nato, beh un po’ de paura ce sta...». La gorgia toscana di un fiorentino trentenne, nome di battaglia Teko?er: «Si mangia capra alla brace e si beve tè, mentre il sole si spegne sui crinali delle colline di Afrin».
Ci sono tre italiani in quel pezzo di terra curda al confine tra Siria e Turchia, dove Assad sta mandando i suoi militari ed Erdogan gli risponde bombardando con l’aviazione.
Quattro italiani, se si conta anche Maria Edgarda Marcucci, detta Eddi, la 26enne attivista no Tav che qualche mese fa si è arruolata nelle file dello Ypj, la brigata femminile curda. «Questa è la battaglia di tutte le persone che credono nella libertà: un altro sistema diverso dal capitalismo non solo è possibile, ma già esiste», dice a chi gli chiede perché. Eddi però non è ad Afrin, si trova da qualche parte nella regione del Rojava con un kalashnikov in mano.
Mandano messaggi a casa dal fronte, perché in ogni guerra così fanno i soldati. Ieri, oggi e domani: file audio su WhatsApp trasmessi con la connessione che cade ogni dieci secondi, lunghi post su Facebook affidati agli amici, filmati su Youtube.
Delsoz, per esempio. È un anarchico di Roma che si autodefinisce comunista libertario. Repubblica lo aveva intervistato l’anno scorso, quando ancora in Siria il nemico era l’Isis e lui stava per muovere verso Tabqa, tappa di avvicinamento alla ex capitale nera Raqqa, insieme ai compagni del Battaglione internazionale. Quello fondato dal senigalliese Karim Franceschi, tornato in Italia.
Nell’unità se lo ricordano bene questo romano, perché oltre ad essere un tipo verace era l’unico che, nel mezzo del nulla, riusciva comunque a preparare una pseudo pasta all’amatriciana.
L’11 febbraio l’ultimo contatto con l’Italia. Ha inviato sei file audio a Claudio Locatelli, il padovano reduce come lui dalla campagna per la liberazione di Raqqa (sulla pagina Facebook “Il giornalista combattente”, Locatelli racconta le loro storie). Delsoz era di buon umore. «Siamo ad Afrin e proprio oggi arriva un convoglio di cinquecento macchine. La gente scappa dalle guerre, invece qua la gente viene per resistere e portare solidarietà. Il morale è altissimo. I turchi in venti giorni non hanno ottenuto ancora niente». Ma la guerra è guerra, pure se la fai da volontario a fianco di un popolo che non è il tuo. «Muore un sacco di gente, abbiamo assistito a diversi funerali. L’artiglieria turca si sta avvicinando. È scandaloso che giorni fa l’Italia abbia ricevuto con tutti gli onori il capo di un governo alleato coi jihadisti: il gruppo Hayat Tahrir Al-Sham è Al Qaeda eppure sta combattendo a fianco della Turchia usando armi della Nato».
Marco invece si è fatto vivo domenica. «Tutto ok, sono insieme a Delsoz. Non ho notizie di Teko?er». Ha lasciato Rovigo e si è unito all’esercito popolare curdo Ypg lo scorso autunno, appena finiti gli esami di Storia all’Università a Bologna. Tre giorni fa era ancora arrabbiato per lo scempio dell’antico tempio ittita di Ain Dara, danneggiato dalle bombe turche. «La distruzione del patrimonio storico è un oltraggio all’umanità intera. Quel tempio aveva tremila anni. Dimmi... qual è il motivo per tale spregio?».
Arrabbiato. E sconcertato per i bambini mutilati che ha visto nella clinica di Afrin. «Questo è un genocidio su larga scala.
Paragonare il governo turco alla Germania nazista non è lontano dalla realtà».
Il combattente fiorentino non si sa dove sia, ma ha scritto una mail a un suo ex compagno di battaglione, che l’ha postata lunedì su Facebook.«I motivi che mi hanno spinto nel nord della Siria sono molteplici, non starò qui ad elencarli. Vi basti sapere che a mille parole ho sempre preferito i fatti. Attendo da giorni nel centro di Afrin. Alcuni abitanti ci ospitano e le nostre squadre si danno il cambio continuamente.
Quando viene il mio turno non so bene cosa aspettarmi, non è più la lotta porta a porta di Kobane, e il supporto aereo non è più dalla nostra parte come a Raqqa: è uno scontro diverso, contro un nemico molto forte. C’è un villaggio occupato dal nemico. FSA, fondamentalmente islamisti salafiti e di Al Nusra che per riciclarsi hanno cambiato nome, diversi combattenti Daesh che non hanno passato il confine si sono uniti a loro. Questi sono gli alleati dei Turchi: i tagliagole».
Corrispondenza di guerra. Parole di chi è andato lì per liberare la terra dei curdi dall’Isis e ora si trova schiacciato tra gli eserciti di due Stati.

il manifesto 21.2.18
Abu Mazen: «Conferenza internazionale per la Palestina»
Palestina. Il presidente dell'Anp ieri al Palazzo di Vetro ha rivolto un appello al riconoscimento immediato dello Stato di Palestina e alla creazione di un meccanismo internazionale per la questione palestinese. In Cisgiordania continua a crescere il numero dei coloni israeliani.
di Michele Giorgio


Sotto lo sguardo freddo dell’ambasciatrice Usa all’Onu Nikki Haley e dei due inviati di Donald Trump in Medio Oriente, Jason Greenblatt e Jason Kushner, mentre l’ambasciatore israeliano Danny Danon si mostrava occupato a scrivere note su foglietti di carta, il presidente palestinese Abu Mazen ieri al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ha chiesto con forza la creazione di un meccanismo multilaterale «per risolvere la questione palestinese tramite una conferenza internazionale» da tenersi a metà del 2018. Riconoscere lo Stato di Palestina subito, ha esortato rivolgendosi ai 15 Paesi membri del CdS, «non danneggerà alcun negoziato futuro». Sui 193 Paesi membri dell’Onu, 138 hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, ha sottolineato.
Abu Mazen non è un leader politico che riscalda il cuore di chi lo ascolta, non è coivolgente. Eppure ieri, pur con il suo abituale stile asciutto, ha centrato punti fondamentali. Non ha mancato di rilanciare le sue accuse alla Casa Bianca che lo scorso 6 dicembre ha violato la legge internazionale e gli stessi Accordi di Oslo con il riconoscimento unilaterale di Gerusalemme come capitale di Israele. «Noi non abbiamo mai rifiutato di sederci al tavolo dei negoziati, questa è l’unica via per raggiungere la pace», ha proclamato, precisando subito dopo che i palestinesi «hanno il coraggio di dire sì e il coraggio di dire no». Parole rivolte all’ambasciatrice Nikki Haley, il braccio armato di Trump e di Israele alle Nazioni Unite, che lo accusa di non essere un leader «coraggioso», capace di prendere decisioni importanti. Quindi Abu Mazen ha attaccato Israele per non aver rispettato le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e per agire come uno «Stato sopra la legge». L’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, ha sottolineato, è diventata una «colonizzazione di insediamenti permanenti» e Israele «ha chiuso la porta alla soluzione dei due Stati».
A un certo punto Abu Mazen ha ammesso che, nella situazione attuale, senza un negoziato vero e prospettive concrete di creare uno Stato palestinese a causa delle politiche del governo di Benyamin Netanyahu e la linea pro-Israele degli Stati Uniti, l’Autorità nazionale palestinese (Anp) da lui presieduta di fatto lavora per l’occupazione e solleva Israele dalle sue responsabilità verso la popolazione civile palestinese. Abu Mazen però non ha fatto riferimento alla possibilità di dissolvere l’Anp o di cessare la cooperazione di sicurezza con Israele, punto quest’ultimo sul quale insiste gran parte della sua gente e lo stesso Consiglio centrale dell’Olp. Al termine del discorso, seguito da un lungo applauso, il presidente palestinese ha lasciato l’aula senza ascoltare la replica di Nikky Haley e dell’ambasciatore israeliano Danon che lo ha accusato di «correre via dal dialogo», di aver rifiutato di incontrare Netanyahu e di essere «non la soluzione ma il problema». Una frase certo non gettata lì per caso. Come avvenuto con Yasser Arafat, la strategia del governo israeliano sembra essere quella di provare a delegittimare Abu Mazen, come leader politico e come persona, forse con l’approvazione dell’Amministrazione Trump.
Il Palazzo di Vetro comunque è molto lontano dalla Cisgiordania palestinese. Sul terreno l’occupazione non conosce soste. Il numero di coloni israeliani lo scorso anno è cresciuto di quasi il doppio rispetto alla popolazione complessiva di Israele. Dal 1 gennaio 2018 è di 435.159, in rialzo del 3,4% rispetto all’anno prima e del 21,4 % rispetto agli ultimi cinque anni. Lo ha riferito lunedì con orgoglio un leader dei coloni Yaakov Katz, che ha anche previsto che la crescita degli insediamenti aumenterà ancora di più nei prossimi anni grazie anche alla presidenza Trump. Il presidente americano, ha aggiunto Katz, ha creato una nuova atmosfera favorevole alla crescita degli insediamenti dopo otto anni controversi con la Casa Bianca di Barack Obama. «Questa è la prima volta – ha notato Katz – dopo anni, che siamo circondati da persone che ci amano davvero e che non cercano di essere neutrali. Dobbiamo ringraziare Dio che ha fatto eleggere Donald Trump presidente degli Stati Uniti».

Repubblica 21.2.18
Iran alle porte, Israele si scopre fragile
Il drone inviato da Teheran, il caccia abbattuto: a Tel Aviv si susseguono le riunioni dell’intelligence
di Vincenzo Nigro


TEL AVIV L’Iran alle porte di Israele. «Non ho mai avuto paura, mai. In questa regione Israele è sempre riuscito a godere di una situazione di solidità strategica che nei momenti più difficili ci dava possibilità di sperare. Adesso, diciamo, ho qualche timore… dovremo lavorare di più… ». “Timore”, è il massimo che si riesce a far ammettere a Siva Shine. Questa donna sui 60 anni adesso lavora all’Inss, l’istituto di studi per la sicurezza di Israele, ma fino a ieri è stata il capo dell’unità di analisi del Mossad, dopo essere stata per anni prima agente operativo e poi una dei coordinatori dell’intelligence in vari governi. «Sappiamo, tutti noi, che le cose sono cambiate, e anche molto: adesso l’Iran è alle porte, e non è uno scherzo».
Dopo l’abbattimento del drone iraniano entrato in Israele, e dopo la perdita dell’F-16 al confine con la Siria, dopo quello che sta succedendo ad Afrin fra turchi, curdi, siriani e russi, tutte le rotelline del sistema di sicurezza e di intelligence israeliano si sono rimesse in moto, silenziose ma impazzite. Nella piccola palazzina dell’Inss alla periferia di Tel Aviv le riunioni si inseguono a catena, in vari formati: militari, esperti di Iran, di Russia, di Turchia. Ma anche esperti di politica interna, perché ancora una volta il “fronte interno”, con il premier Netanyahu impegnato a difendersi da ben 4 inchieste giudiziari, potrebbe essere fonte di mille problemi. Una serie di incontri con ricercatori, giornalisti, uomini delle forze armate chiesti dopo l’abbattimento dell’F-16 offrono varie conferme. Primo: ormai la “superpotenza” nella regione è la Russia di Putin. Il grande alleato americano, con tutta l’amicizia fra Trump e Netanyahu, con le portaerei al largo di Israele e centinaia di cacciabombardieri pronti, sembra «un ricco signore in pensione, incapace di gestire i milioni del suo conto in banca». Secondo: per la Russia è già arrivato il momento delle scelte difficilissime: «Quella che ci riguarda direttamente è chiara», dice Amos Harel, analista di Haaretz, «devono scegliere se sostenere Israele o l’Iran adesso che in Siria siamo arrivati a scontrarci direttamente». Terzo: la Russia dovrà fare scelte ancora più complesse. Scelte difficili, per esempio fra turchi e curdi, fra turchi e i siriani di Assad. Con la presenza di Iran, benedetta per la guerra di Siria, ma ormai assai ingombrante, adesso Mosca avrà altri problemi.
«Netanyahu in poco più di un anno è stato a Mosca sette volte: sette volte per parlare con Putin. Si è portato i capi militari, i capi dell’intelligence, quelli dell’aviazione: per avvertire Mosca di quello che poi è accaduto, che gli iraniani non si sarebbero fermati e che noi, se loro continuano, dovremo fermarli», dice una fonte vicini all’Idf, l’esercito israeliano.
Per questo Israele ha deciso, almeno a parole, di cambiare messaggio, di cambiare obiettivo. Adesso Israele minaccia direttamente Teheran, come ha fatto il generale Nitzan Alon: «Fino ad oggi i nostri avvertimenti erano stati verso il Libano, verso la Siria. Dicevamo chiaramente “vi riporteremo all’età della pietra”, colpiremo direttamente il regime di Assad. Ma ormai è chiaro, non è Assad, non è Hariri che controlla il gioco: è Teheran. E noi colpiremo lì». E così anche sui giornali vengono fatte filtrare notizie su riunioni della Israeli Air Force in cui si pianificano attacchi a obiettivi strategici dentro l’Iran.
Teheran ha capito perfettamente, e adegua la sua propaganda. Fino a qualche tempo fa “distruggeremo Israele” (anzi “l’entità sionista”) era come una giaculatoria, un rito verbale violento ma consuetudinario. Ieri Moshen Rezai, uno dei capi del sistema politico-religioso, ha parlato come un militare: «Tel Aviv sarà rasa al suolo se il regime israeliano dovesse compiere azioni militari contro la Repubblica islamica. E anche lui, come fanno spesso gli stessi israeliani, lancia un avvertimento personale, quasi mafioso: «Le nostre forze militari non daranno alcuna possibilità di fuggire a Netanyahu se farà una mossa poco saggia », dice Rezai. Una guerra di parole. Che due sabati fa, sui cieli di Una Siria ormai provincia iraniana, pere la prima volta è diventata una guerra combattuta.

il manifesto 21.2.18
Netanyahu corrotto corre al fronte
di Zvi Schuldiner


Che meraviglia. Fin dalle prime ore del mattino, alla radio e alla televisione danno i nomi di alcuni degli arrestati, molto vicini al primo ministro. Dopo poche ore, ecco nuovi dettagli.
È un delitto ricevere «regali» che valgono circa un milione di shekel (oltre 300.000 dollari)? Caso numero 1000 (così, con questa numerazione periodica questi scandali sono conosciuti in Israele). È un delitto concludere un accordo problematico e poco chiaro con l’editore del’importante quotidiano Yedioth Ahronot?
Caso numero 2000. Non ci dicono niente sul caso 3000 : lo scandalo relativo alla fornitura di sottomarini a Israele da parte dell’azienda tedesca Thyssen-Krupp.
Fra i probabili accusati di corruzione, due avvocati in strettissimi rapporti con Benjamin Netanyahu – uno dei due, il legale Molkho, ha rappresentato il premier in questi ultimi anni, in contatti segreti ad alto livello con diversi Paesi.
Eppure Netanyahu non è stato chiamato a testimoniare: non avrebbe alcun rapporto con il caso, dice il procuratore generale. Nelle ultime ore ci dicono, finalmente, che il premier dovrebbe testimoniare sul caso 3000. Ma intanto negli ultimi due giorni siamo stati occupati con il caso 4000, sul legame di natura illegale fra Netanyahu e un imprenditore potente – ora meno potente perché da ieri in stato di detenzione – nel campo delle telecomunicazioni e proprietario di un giornale digitale. E mentre scriviamo scoppia un altro di scandalo: un tentativo di corruzione di una giudice da parte di un consigliere molto vicino al primo ministro.
È molto importante capire il clima generale che domina in Israele. Stanno crollando molte delle difese costruite intorno al primo ministro, il quale sembra vieppiù impelagato: la corruzione governativa appare più grave di quanto si potesse prevedere due anni fa all’avvio delle indagini. Una valanga di nuovi dettagli sembra adesso minacciare il leader del Likud; i suoi accoliti alzano sempre di più la voce, man mano che si aprono altre brecce nelle difese di Netanyahu. Egli si preoccupa in primo luogo, e cinicamente, della sua sopravvivenza politica e per questo cerca in modo frenetico di screditare polizia, procuratore e giudici. Come se si trattasse di una cospirazione contro un novello Dreyfus. Se per salvarlo è necessario essere disposti a tutto, allora il problema è serio. Così l’escalation delle ultime settimane su tutti i fronti è cosparsa di mine vaganti che potrebbero esplodere senza troppe difficoltà.
Nel contesto internazionale, l’avventurismo di Donald Trump libera Israele dai freni messi in atto da Barack Obama. Immerso nei guai interni e offuscato da considerazioni demenziali sulla politica internazionale, il presidente Usa non fa da freno, come avevano potuto fare gli Stati uniti come quando i vertici israeliani pensavano a un attacco all’Iran.
A Monaco, il premier ha mostrato – con il drone iraniano abbattuto – ancora una volta l’atteggiamento paranoico di Israele verso l’Iran e ha fatto ricorso ai suoi abituali trucchi da teatrante. Ma il problema non sono solo gli atteggiamenti e le menzogne di Netanyahu: l’Europa manca di una voce decisa. E mentre le difese del premier collassano, tutti sembrano disposti ad aspettare le sue possibili avventure belliche senza opporvi un chiaro no.
Da ultimo, Israele fornisce sostegno a gruppi armati siriani nella regione presso le alture del Golan, a mo’ di possibile difesa contro i tentativi dell’Iran di insediarsi nell’area. Sembrano crescere negli ultimi giorni le frizioni reali o virtuali con Hezbollah in Libano; le minacce – finora verbali – da entrambe le parti potrebbero essere il punto di partenza per incendiare il nord, mentre le incursioni aeree degli israeliani in Siria si ripetono ormai frequentemente. La scusa sarebbe sempre la fornitura di nuove armi da parte dell’Iran, o la costruzione di nuove basi per le forze iraniane, oppure possibili minacce da Hezbollah. Tutto questo produce una situazione gravemente instabile, dalla natura molto pericolosa.
A sud, un attacco attribuito ad alcuni gruppi palestinesi della striscia di Gaza ha dato luogo non solo a pesanti raid israeliani, ma anche a gravi minacce di una escalation mentre tutta la Striscia di Gaza si trova nella situazione che membri degli apparati di sicurezza israeliani definiscono «la miccia di una crisi umanitaria potenzialmente esplosiva», tanto che propongono di alleggerire la situazione. Sono cioè più moderati dei politici, i quali promettono dure reazioni e una «sonora lezione al nemico». Si tratti di Hamas, di Hezbollah o dell’Iran.
I possibili focolai di guerra, in un contesto internazionale così problematico, potrebbero offrire un pretesto pericoloso per azioni militari, così da indurre i cittadini israeliani a occuparsi più della «patria minacciata» che di casi non così importanti tipo, insomma, «un po’ di corruzione, non poi così grave».
La minaccia di nuovi conflitti è molto seria. Lo spargimento di sangue potrebbe essere di enorme portata.

Il Fatto 21.2.18
Israele
Bibi e Sara, House of Cards in salsa kosher
Altra indagine: tentativo di corruzione del magistrato che indagava sulla moglie del premier
Bibi e Sara, House of Cards in salsa kosher
di Fabio Scuto


Nuvole nere sul cielo di Balfour Street, la residenza del premier Benjamin Netanyahu. Annunciano una nuova tempesta. Alle quattro indagini aperte dalla Special Unit Lahav 433 che coinvolgono il premier se n’è aggiunta ieri una quinta, che al momento lo sfiora, ma investe il suo portavoce e stretto confidente Nir Hefetz, in cella in questi giorni per lo scandalo Bezeq, favori ricevuti dalla compagnia di telecomunicazioni negli scorsi anni.
In questo “caso”, scoppiato ieri, Hefetz nel 2015 avrebbe avvicinato la giudice Hila Gerstel, tramite un intermediario – un ex giornalista di Yedioth Ahronoth – per offrirle la poltrona di procuratore generale in cambio del suo impegno a chiudere i casi aperti contro Sara Netanyahu per la gestione “allegra” delle spese nella residenza ufficiale, fatture gonfiate, altre palesemente false.
La giudice Gerstel, si racconta, restò scioccata dalla proposta, rifiutò e non ebbe quell’incarico che andò invece all’attuale procuratore Avichai Mandelblit, all’epoca capo di Gabinetto di Netanyahu.
Israele ha già visto diversi scandali travolgere il mondo della politica – in passato sono finiti in cella un presidente per molestie sessuali (Moshe Katsav), un ex primo ministro (Ehud Olmert) e svariati ministri per bustarelle – ma quelli di questi giorni per dimensioni e diversità dei reati rappresentano davvero the big one, i più importanti. Il procuratore generale avrà bisogno di tempo per valutare le prove portate da Lahav 433 – sarà necessario almeno qualche mese – e diventa difficile per Benjamin Netanyahu andare avanti così e salvare la coalizione di governo fino al prossimo marzo, data naturale delle elezioni.
Il ritmo delle rivelazioni ricorda la sceneggiatura di House of Cards. Le celle per la custodia cautelare si stanno riempiendo di personaggi di spicco, poco abituati di certo a vedersi limitati gli spazi. Tra questi ci sono due ex collaboratori del premier, il direttore generale del Ministero delle Comunicazioni Shlomo Filber e il portavoce Nir Hefetz. C’è poi Shaul Elovitch, proprietario di Bezeq, della tv satellitare Yes e del sito d’informazione Walla, sua moglie Iris e il figlio Or, la CEO di Bezeq Stella Handler e il direttore della società Amikam Shorer. Altri hanno ottenuto gli arresti domiciliari come Eli Kamir, l’ex giornalista che ha tentato di corrompere la giudice.
Nei giorni scorsi la polizia israeliana ha chiesto che Netanyahu sia formalmente incriminato per corruzione. Sono diversi i casi coinvolgono “Bibi” e il suo gradimento scende a una velocità vertiginosa. Il più scottante è quello noto come “Caso 1.000”, costosi regali a partire dal 2009 dal produttore di Hollywood Arnon Milchan e altri amici per favorire un progetto da 250 milioni di dollari. C’è poi il “caso 2.000” che vede il premier accusato di aver chiesto al proprietario del giornale Yedioth Ahronoth, Arnon Mozes, una linea editoriale favorevole in cambio di qualche problema al quotidiano rivale Israel Hayom. Poi il “caso 4.000” cioè i favoritismi alla compagnia Bezeq. Ma non è finita qui. Lahav 433 ha anche un dossier sull’acquisto di quattro sommergibili dalla Germania. Anche qui alcuni stretti collaboratori del premier sono stati ascoltati, insieme a due ex generali dell’Idf. Per alcuni di loro sono state necessarie ordinanze restrittive prima di ottenerne una testimonianza meno reticente.

La Stampa 21.2.18
Due sessi due cervelli
di N. Pan


L’apparenza inganna. Se paragonato al dimorfismo sessuale delle altre specie animali, l’aspetto di maschi e femmine umani è simile. Eppure c’è un oceano di differenze. Genetiche, biochimiche e ormonali, ma anche socioculturali, legate all’ambiente e agli stili di vita. «Conoscerle è cruciale per la salute, perché determinano differenze nell’incidenza e nella progressione delle malattie e nella risposta ai farmaci», ci spiega Barbara Garavaglia, direttrice della neurogenetica molecolare dell’Istituto Nazionale Neurologico Carlo Besta di Milano, organizzatrice del congresso «Tutta cuore e cervello» dedicato alla medicina di genere.
Partiamo dal cervello, argomento spesso utilizzato strumentalmente: «Con le metodiche di indagine che studiano il sistema nervoso centrale in vivo, dal punto di vista strutturale, funzionale e molecolare, sono state fornite evidenze molto forti su queste differenze», spiega Daniela Perani, responsabile dell’unità di neuroimmagine molecolare e strutturale del San Raffaele di Milano. I maschi hanno maggiore forza nelle regioni associative corticali. La materia grigia femminile ha volume e densità maggiori in alcune regioni del sistema limbico deputate al controllo delle emozioni, «quelle che ci permettono di ragionare in modo empatico, valutando azioni e intenzioni altrui», aggiunge Perani. Guardando alle capacità cognitive, poi, gli uomini mostrano migliori prestazioni in diversi compiti motori e navigano nell’ambiente con informazioni astratte. Quanto alle donne, ricordano meglio la posizione degli oggetti e, per muoversi, preferiscono indicazioni, immagini e suoni, invece che mappe astratte e hanno maggiori capacità verbali.
Queste strategie di ragionamento sono dovute a differenti tipi di connettività cerebrale. Le donne sono dotate di un encefalo «ottimizzato» per la comunicazione tra gli emisferi, con un maggiore sviluppo delle connessioni interemisferiche: così è garantita un’elaborazione delle informazioni allo stesso tempo analitica e intuitiva. Il cervello maschile, invece, ha un maggiore sviluppo delle connessioni intraemisferiche tra le aree posteriori, specializzate nella percezione, con quelle anteriori, deputate all’azione.
E comunque - precisa Alessia Catania, neurologa dell’Unità di genetica molecolare del Besta - non si tratta di essere più o meno intelligenti. A interessare sono i risvolti clinico-medici. Uomini e donne, infatti, non sono uguali davanti alle malattie. Le donne vivono più a lungo, ma con più malanni. Due terzi dei malati di Alzheimer sono donne, mentre l’incidenza del Parkinson è superiore negli uomini. Anche l’aterosclerosi differisce e dopo un infarto le donne muoiono di più. Diversi sono inoltre i meccanismi del dolore e diversa è la risposta allo stress: nella donna, dove c’è un maggiore coinvolgimento della corteccia limbica e prefrontale, si manifestano disturbi dell’umore. L’uomo, in seguito all’attivazione dei circuiti sottocorticali, è più suscettibile alla dipendenza da sostanze come l’alcol.
Eppure gli stessi medici di base non sono preparati a riconoscere le sintomatologie: «Anche quando da un punto di vista patogenetico la malattia è la stessa ci possono essere differenze, perché la malattia interviene su un organo strutturalmente e funzionalmente diverso – sottolinea Catania -. E quindi anche la manifestazione clinica sarà diversa». Non solo. I fattori di rischio per una patologia possono agire in modo diverso. Un esempio è il pericolo costituito dai chili di troppo per l’encefalo femminile: «C’è una vulnerabilità maggiore per le donne - dice Perani -, vittime di una ridotta connettività cerebrale. Il perché è ancora da indagare».

Repubblica 21.2.18
Scorsese firma la petizione del Cinema America
Arriva la firma numero 182


ROMA Martin Scorsese si unisce al mondo del cinema italiano e firma l’appello dei ragazzi del Cinema America che chiedevano le dimissioni le dimissioni di chi ritiene che guardare vecchi film sia da feticisti: l’assessore alla Cultura Luca Bergamo e la vice presidente della commissione Cultura Gemma Guerrini.
Quest’ultima ha poi annunciato il suo passo indietro dall’incarico. Tra i firmatari della petizione registi, attori e cineasti di fama, dal direttore della Mostra del Cinema di Venezia Alberto Barbera a Valerio Mastandrea, Paolo Sorrentino, Paolo Virzì, Gianni Amelio, Ferzan Ozpetek, Checco Zalone, Mario Martone, Giuliano Montaldo, Gabriele Muccino e tanti altri. Tutti uniti contro la decisione di mettere a bando l’arena estiva di Piazza San Cosimato, per anni gestita dai Ragazzi del Cinema America, che hanno deciso di trasferire la rassegna su tre schermi collocati nelle periferie delle capitale tra Ostia, Monte Ciocci e Tor Sapienza.
Martin Scorsese, 75 anni, premio Oscar nel 2007