Corriere 20.2.18
Giampaolo Pansa
«La Resistenza? Una storia falsa»
di Aldo Cazzullo
«La
storia della Resistenza come la conosciamo è falsa, e va riscritta —
dice Giampaolo Pansa al Corriere —. Il 4 marzo? Non voterò».
Giampaolo Pansa, chi è il «comandante bianco», Aldo Gastaldi, nome di battaglia Bisagno, cui lei dedica il suo nuovo libro?
«Era
un eroe. L’unico comandante partigiano non comunista della terza
divisione Cichero, la più importante della Liguria. Morto in circostanze
misteriose subito dopo la fine della guerra. Sono convinto che sia
stato assassinato».
Come lo descriverebbe ai lettori del Corriere?
«Un
Gesù Cristo con il fucile. Profondamente cattolico. Mi ha raccontato un
testimone che ogni settimana spariva nella notte della Val Trebbia.
Prendeva la sua motocicletta, andava da un parroco, picchiava con le
dita sul vetro della canonica per farsi riconoscere, si confessava,
riceveva la comunione. Talora assisteva alla messa. Poi tornava dai suoi
uomini. Quando è morto, a 24 anni, era ancora vergine».
Perché?
«Per
lui un buon cattolico non doveva avere rapporti prima del matrimonio.
Come disse Amino Pizzorno, nome di battaglia Attilio, capo del Sip, il
delicatissimo Servizio informazioni e polizia: “Il nostro commissario
politico, Miro, andrebbe da solo nella Genova occupata dai nazisti per
scoparsi una ragazza; e il nostro comandante militare ha fatto il voto
di castità”».
Miro si chiamava in realtà Anton Ukman.
«Un nome che suona come una fucilata».
Lei
nel libro ipotizza che Miro avesse avvertito Bisagno, a mezze parole,
del pericolo che correva a causa dei suoi compagni comunisti.
«È
possibile che l’abbia fatto davvero. Anche Miro sognava la rivoluzione e
la dittatura del proletariato; ma disprezzava i capi comunisti di
Genova, li considerava burocrati, mentre lui era un combattente vero,
duro».
Perché i comunisti volevano uccidere Bisagno?
«Non
era un docile strumento nelle loro mani, come l’avrebbero voluto. E
aveva proposto l’abolizione dei commissari politici. Tentarono in ogni
modo di farlo fuori. Prima il comando della Sesta divisione ligure cercò
di sottrargli la guida della sua divisione. Poi gli ordinarono di
lasciare il suo territorio, dove aveva salvato 1.200 uomini dai
terribili rastrellamenti dell’“inverno dei mongoli”, i caucasici al
servizio dei nazisti, e di andare in esilio in un’altra valle. Lui però
si presentò all’incontro accompagnato da trenta facce da patibolo,
armate di mitragliatori, e i comunisti non la sentirono di insistere. Ma
ormai gliel’avevano giurata».
Bisagno tentò di fermare le vendette dopo il 25 aprile.
«A
Genova il sangue dei vinti corse a fiumi: oltre 800 morti. Molti non
avevano mai toccato un’arma. Si racconta, ma non ci sono conferme, che i
fascisti venissero gettati negli altoforni ancora vivi. Bisagno non
poteva tollerare questo. “Ci vuole più coraggio a uccidere che a essere
uccisi” diceva. Infatti propose di sostituire la polizia partigiana con
la polizia militare Usa».
Da qui la sua fama di amico degli americani.
«Bisagno
aveva legato con loro. Era stato invitato in America a insegnare la
guerriglia. Un motivo in più per farlo fuori. Sono convinto che dietro
il finto incidente stradale in cui morì si nasconda un delitto».
Come andò?
«Bisagno
aveva promesso a un gruppo di alpini della Monterosa, che avevano
disertato per unirsi a lui, di riportarli a casa, sul Garda. Fu di
parola. Partì da Genova il 20 maggio 1945 con un autocarro Fiat 666 e
una grossa camionetta Volkswagen. C’erano due suoi partigiani più
l’autista; ma forse c’era anche un quarto uomo mai identificato. Bisagno
dormì a Riva del Garda. Il giorno dopo, sulla via del ritorno, cominciò
a comportarsi in modo strano».
Cosa fece?
«Aprì la borsa
con i documenti riservati che portava sempre con sé, e li distribuì. Poi
cominciò a regalare banconote: una follia per un ligure sparagnino come
lui. Infine salì sul tettuccio del camion: una scelta assurda,
pericolosissima. Quando l’autista sterzò per evitare una colonna di
prigionieri tedeschi, Bisagno fu sbalzato e schiacciato da un camion.
Morì all’ospedale di Desenzano. L’autopsia non fu mai fatta».
Cos’era accaduto, secondo lei?
«Qualcuno
sostiene che sia stato avvelenato, che quando cadde stesse già morendo.
Io penso che sia stato drogato, in modo da provocare l’incidente. Ma
alla radice di tutto c’è un problema più generale».
Quale?
«La
storia della Resistenza come la conosciamo è quasi del tutto falsa; e
va riscritta da cima a fondo. Gli storici professionali ci hanno
mentito. Settantatré anni dopo, è necessario essere schietti: molte
pagine del racconto che viene ritenuto veritiero in realtà non lo è. Le
guerre civili furono due. Oltre a quella contro i nazifascisti, ci fu la
guerra condotta dai comunisti contro chi non la pensava come loro».
Non
dobbiamo avere paura della verità. Resto convinto che la Resistenza non
appartenga a una fazione, neppure a quella che ne ha sequestrato la
memoria nel dopoguerra, ma alla nazione.
«Leggo sempre con
interesse quello che lei scrive sulla Resistenza. Ma la penso
diversamente. Lei dà una lettura delle nostra guerra civile che a me
sembra troppo generosa. Troppo buonista. Come succede in tutte le guerre
civili, anche in Italia il conflitto del 1943-1945 è stato feroce e
senza riguardi per nessuno. Non sto parlando dei tedeschi e dei
fascisti, avversari destinati a soccombere. Parlo della guerra
all’interno dello schieramento antifascista, dominato dall’unico partito
che si era sempre opposto al regime di Mussolini: il partito
comunista».
Molti partigiani non erano comunisti.
«Gli altri
partiti non esistevano, a cominciare dai moderati. Stavano nei Comitati
di liberazione, ma non contavano nulla. Invece i comandanti partigiani
non comunisti contavano e spesso molto. Ma quando iniziavano a opporsi
alla supremazia del Pci contavano sempre di meno. C’erano eccezioni:
Mauri in Piemonte, Bisagno in Liguria. Ma è proprio la figura di Bisagno
che ci aiuta a comprendere l’asprezza del confronto interno al fronte
antifascista. Finché Bisagno si è occupato della guerriglia, non ha mai
incontrato ostacoli. Quando ha iniziato a essere troppo forte e a fare
politica, per lui sono cominciati i guai».
La Resistenza non fu
fatta solo dai partigiani, ma dai civili. Dalle donne, dagli ebrei, dai
carabinieri, dai militari che combatterono accanto agli Alleati, dagli
internati militari in Germania che preferirono restare nei lager
piuttosto che andare a Salò.
«Ma la maggioranza degli italiani
voleva solo che passasse la bufera per dedicarsi agli affari propri; e
questa è la radice stessa del fascismo. Sa qual è la differenza tra me e
lei? Che io ho una visione molto più pessimista dell’Italia. Appena
assunto alla Stampa , nell’estate 1961, il vicedirettore Casalegno mi
mandò a intervistare Saragat, che mi disse: “Governare gli italiani non è
difficile; è inutile”. Prima di lui l’aveva già detto Mussolini».
Che effetto le fa oggi l’allarme antifascista?
«Sono
fesserie. Oggi il vero dramma è che abbiamo una classe politica
incompetente e pericolosa. Per questo stavolta non andrò a votare. Sono
preoccupato per chi ha figli. Io il mio l’ho perso tre mesi fa, per un
infarto, a 55 anni. Solo l’amore per Adele mi ha impedito di uccidermi».
Lei disse che la Resistenza è la sua patria morale.
«Lo dico ancora. Ma non la Resistenza di chi voleva una dittatura agli ordini di Mosca».
Nel ’43 lei aveva solo otto anni. Se ne avesse avuti dieci in più, cos’avrebbe fatto?
«Mia
madre Giovanna mi diceva in piemontese: “Giampaolo, tu sei un
volontario”. Sarei andato con i partigiani. Ma rispetto chi in buona
fede fece un’altra scelta. E non ho bisogno di patenti per scrivere i
miei libri revisionisti. Avessi più tempo davanti a me, riscriverei la
storia della Resistenza. Tocca ai giovani storici farlo. Cosa
aspettano?».