Corriere 1.2.18
Libia Il monito di Liu (Msf): «Il calo degli arrivi vuole dire più torture»
intervista di Maurizio Caprara
«Le
statistiche non descrivono tutto. Al di là dei numeri, dietro le 119
mila persone arrivate in Italia dal Sud del Mediterraneo nel 2017 ci
sono storie individuali: il calo degli sbarchi nel vostro Paese
significa, in Libia, aumenti delle torture, degli stupri, di vite in
condizioni di fame. Non voglio immaginare che cosa succede. Dopo ciò che
ho visto è troppo duro», dice Joanne Liu, la presidente internazionale
di Medici Senza Frontiere, organizzazione non governativa formata da 23
sezioni nazionali che assiste in 70 Paesi feriti e malati senza
distinzione di idee politiche, etnie e fedi.
Pediatra che ha
lavorato in Mauritania, Haiti, Darfur e altrove, canadese di origini
cinesi, Joanne Liu fornisce sulla diminuzione degli ingressi di migranti
e rifugiati in Italia un punto di vista poco considerato. Con l’aria di
chi procede determinata per una propria strada senza cercare applausi,
in questa intervista al Corriere della sera fa presente che il filtro
alle traversate di barconi in partenza dalla Libia, diventato più
consistente l’anno scorso per scelta italiana ed europea, ha conseguenze
non soltanto rimosse. Feroci.
Che cosa ha visto nei centri libici per la detenzione di migranti e rifugiati?
«Ne
ho visitati due vicino Tripoli nel settembre scorso. Non li chiamerei
campi. Sono depositi di persone. Nei miei 22 anni in Medici Senza
Frontiere non avevo mai incontrato un’incarnazione così estrema della
crudeltà umana».
Quali immagini le sono rimaste impresse?
«Ricorderò
sempre un uomo robusto con un bastone in mano: “Vuole vedere dov’è la
gente?”. Io: “Sì”. L’uomo ha aperto la porta che aveva alle sue spalle e
ha agitato il bastone: dentro un locale delle dimensioni di una
palestra, centinaia di persone sono indietreggiate impaurite. Mi sono
trovata davanti tanti occhi che mi guardavano da visi emaciati. Le
persone hanno cominciato a protendere le mani verso di me e a
sussurrare: “Aiutatemi”, “Portatemi via di qui”».
Chi erano?
«In
maggior parte maschi, neri, provenienti da altri Paesi. Così tanti che
non potevano stendersi per terra. Molti, seduti, trattenevano con le
mani le ginocchia piegate».
Ufficialmente il posto era?
«Un
centro di detenzione per migrazione illegale. Ma in Libia non esiste un
governo capace di controllare l’intero territorio, in ogni zona prevale
una milizia diversa. Nessuno sapeva come andavano gestite queste
persone. Ognuna di loro cercava un modo per uscire. In genere provano a
partire. Se vengono fermate in mare – e se non muoiono in acqua –
ritornano in un centro del genere. Qui sta una particolarità della
Libia».
Quale differenza ha riscontrato rispetto ad altri Stati nei quali si concentrano flussi di profughi e migranti?
«Che
quanti raggiungono la Libia entrano in un circuito di sofferenza senza
fine. Vede, poco fa sono stata in Bangladesh: in un campo con migliaia
di profughi fuggiti dalla Birmania, tutti venivano da villaggi messi a
fuoco o erano sopravvissuti a stragi. La maggior parte delle donne era
stata violentata. Tante mogli erano state separate da mariti, molti
figli dai genitori. Dopo la fuga però questo non accadeva più. In Libia
per la gente che scappa da guerre, persecuzioni e miseria da altri Paesi
invece continua. Diventano merce».
Ha in mente un esempio?
«Una
mia paziente, moglie di un atleta. L’hanno rapita, portata in una casa
con altri sequestrati. È stata torturata affinché il marito pagasse. Se
non riescono ad ottenere soldi, trascorso qualche tempo le bande di
rapitori ritengono i prigionieri un peso, dunque li passano a un centro
di detenzione. E da lì i detenuti tentano di fuggire per partire dal
mare verso l’Europa. Con il rischio di tornare indietro».
Dal
primo al 31 gennaio, gli arrivi in Italia dalla Libia sono stati 3.143.
Il 26,6% in meno rispetto ai 4.251 dell’anno precedente. Secondo chi ne
ha favorito il calo cambiando disposizioni per le navi nel Mediterraneo e
contribuendo a riattivare la Guardia costiera libica, come il ministro
dell’Interno Marco Minniti, se i flussi non fossero regolati potrebbero
aumentare intolleranza e xenofobia tra i cittadini italiani.
«Non ho commenti in materia. Io mi occupo di assistenza umanitaria. E in Libia il costo umano è troppo alto ».