Corriere 1.2.18
La politica o vola alto o non conta un bel nulla
di Paolo Franchi
È
difficile dar torto a Giuseppe De Rita quando afferma ( Corriere , 30
gennaio) che gli appelli al voto come dovere civico, per quanto animati
dalle migliori intenzioni, rischiano di lasciare il tempo che trovano.
Ma, almeno a chi scrive, è più complicato dargli del tutto ragione
quando sostiene che ciò deriva dal carattere «vagotonico» di un
elettorato «senza condivisione di sentimenti collettivi». In generale,
per condividere qualcosa occorre che questo qualcosa effettivamente
esista e, nel particolare di una campagna elettorale, che sia parte
essenziale dell’offerta politica dei principali soggetti in
competizione. Se nessuno li evoca, i «sentimenti collettivi» dei
cittadini, sempre che, seppure larvatamente, tuttora ci siano, fanno in
fretta a ripiegare su se stessi e a inabissarsi, lasciando il campo
libero all’oscillare dell’opinione pubblica tra (cito ancora De Rita)
«il rancore collettivo» e «una condizione di bassa energia, percorsa da
sentimenti indistinti e particolaristici»: un fenomeno, questo, che
certo non è solo italiano, ma che in Italia si manifesta in forme
particolarmente gravi, e ormai persino impressionanti.
Chi ha
qualche annetto sulle spalle è cresciuto pensando che evitare una simile
deriva fosse il compito primario della politica. Da un bel pezzo non è
più così, e a insistere su questo tema si corre qualcosa di più del
rischio di fare della vuota retorica e del fastidioso moralismo. Spiace
per gli anti casta e per i teorici dell’«è tutto un magna magna», ma mai
come di questi tempi la politica è stata specchio della società. Non
c’è proprio da rallegrarsene, perché il suo ruolo non è (o almeno non
dovrebbe essere) quello di rappresentare l’Italia così com’è,
fotografandone gli stati d’animo e cercando di inseguirne tutte le
pulsioni, comprese le meno commendevoli, ma di starle uno o due passi
(non dieci chilometri) avanti. Di avere, anche se il termine è passato
rapidamente di moda, una narrazione di sé nella storia nazionale, perché
nessuno è stato rinvenuto sotto un cavolo, e una visione del presente e
del futuro, un’idea di Paese e un’intuizione del mondo comprensibili e
condivisibili per il più ampio numero di italiani possibile. Di essere
realista, certo, ma pure di guardare al profondo e, nello stesso tempo,
di volare alto. Se non è questo, la politica non conta un bel nulla, e
può addirittura essere considerata dannosa. È solo a partire da questa
(ovvia) considerazione che si può capire, per fare solo un esempio, come
mai settant’anni fa Alcide De Gasperi tagliò in un breve volgere di
tempo l’erba sotto i piedi a Guglielmo Giannini e al suo Uomo qualunque,
e come mai ai tempi nostri, invece, da decenni imperversano, come
(presunto) antidoto alla disaffezione, movimenti e retoriche
«antipolitiche» dei più diversi segni e anche, da qualche tempo,
crescenti richieste di un qualche «uomo forte» al comando, tanto confuse
quanto inquietanti.
Può darsi, anzi, è persino probabile che, nel
confuso passaggio d’epoca che stiamo vivendo, questa sia una tendenza
inarrestabile, per bloccare la quale a nulla valgono i richiami alla
precettistica di una «buona politica» di cui, sempre che ci sia mai
stata, si è smarrita ogni traccia. Può darsi. Ma colpisce ugualmente la
chiassosa storditezza di chi a questa deriva dovrebbe comunque cercare
di opporsi, non fosse altro perché ne va della sua esistenza politica.
Un esempio (ma che pessimo esempio!) per tutti. Da tempo ormai
immemorabile si ragiona sull’ineluttabile personalizzazione (o, come
dice con orrendo neologismo, leaderizzazione ) dei partiti e dei
movimenti politici, dell’«io» che si sostituisce al vecchio «noi»
persino in molti simboli elettorali, nonostante non sia in alcun modo
prevista l’investitura popolare del premier. È così quasi ovunque,
seppure con risultati non proprio straordinari, non si capisce perché
non debba essere così qui in Italia. Da questo a ciò che è accaduto
nella formazione delle liste, però, ne corre. E non poco. Perché nel
confuso bipolarismo della cosiddetta Seconda Repubblica i leader in
qualche modo incarnavano i rispettivi schieramenti, si contendevano il
governo e il potere: di qua Silvio Berlusconi, di là Romano Prodi. Oggi
la posta non è più questa. Nel partito personale all’italiana il
leader-padrone, grazie anche a una pessima legge elettorale, si propone e
raggiunge facilmente, senza nemmeno ricorrere all’arte della più o meno
onesta dissimulazione, un obiettivo molto più circoscritto: quello di
darsi un gruppo parlamentare a propria immagine e somiglianza, in modo
da averlo a propria piena disposizione per qualsiasi acrobazia politica
vorrà fare se, come è probabile per tutte le forze in campo, ma è
pressoché certo per il Pd, non disporrà, dopo le elezioni, della
maggioranza.
Con un po’ di cinismo, potremmo anche infischiarcene
del fatto che, così facendo, i partiti, già ridotti come sono ridotti,
diventano pressoché ufficialmente, nel migliore dei casi, solo delle
casse di risonanza per il loro segretario, con tutto quello che ne
consegue per quel che resta della nostra democrazia. Ma di sicuro non
potremo affettare un addolorato stupore se l’elettorato, mangiata la
foglia, il 4 marzo si regolerà di conseguenza. Nella speranza non
esattamente esaltante che, se questo è l’andazzo, i sentimenti a bassa
intensità (non troppo diversi, in fondo, dagli antichi «tirare a
campare» e «tengo famiglia») prevalgano sul rancore, che è sempre una
gran brutta bestia.