Corriere 18.2.18
Vaticano dopo marzo la probabile firma
Patto con la Cina sui vescovi «Il Papa ha deciso»
di Massimo Franco e Paolo Salom
«Per
quanto ci riguarda, la decisione è presa: da fine marzo in poi ogni
giorno è buono per siglare l’accordo con le autorità cinesi sulla
procedura di nomina dei vescovi cattolici». Così un esponente vaticano
conferma l’importante passo in avanti nelle relazioni tra la Chiesa
cattolica e Pechino. Una svolta seguita con attenzione anche a
Washington. Forzando i tempi dell’intesa, la Santa Sede vuole
scongiurare la possibilità di uno scisma tra la cosiddetta Chiesa
patriottica sostenuta dal governo, e la «comunità sotterranea» dei
cattolici ubbidienti solo a Roma, perseguitata a lungo dal Partito
comunista.
B enedire Pechino. E essere accettati come religione
straniera non più ostile alla Cina comunista. «Per quanto ci riguarda,
la decisione è presa: da fine marzo in poi ogni giorno è buono per
siglare l’accordo con le autorità cinesi sulla procedura di nomina dei
vescovi cattolici». L’esponente vaticano che conferma il passo avanti
nelle relazioni religiose tra Santa Sede e Cina ammette l’esistenza di
una cautela residua: chi, sul versante di Pechino, sarà incaricato di
siglare l’intesa; dove avverrà; e se potranno esserci sorprese
dell’ultim’ora, visti i tempi cinesi. Ma il nervosismo palpabile
all’ambasciata presso il Vaticano di Taiwan, isola asiatica e residuo
anticomunista di un «Impero di Mezzo» diviso, testimonia come l’approdo
delle trattative sia ormai a un passo. E forse ancora di più colpisce
l’attenzione, mista a diffidenza, con la quale gli Stati Uniti, dopo
avere seguito per un anno i contatti tra la Roma papale e i palazzi del
potere pechinese, si preparano a decifrare l’atto finale.
Da
quanto risulta al Corriere , da un paio di settimane gli analisti
statunitensi hanno comunicato al dipartimento di Stato a Washington che
l’accordo sarebbe in dirittura d’arrivo. E di fronte alle richieste
insistenti sui motivi che spingono il Vaticano a un passo storico quanto
audace, sono state date due risposte. La prima è che la priorità
vaticana è la difesa della minoranza cattolica in quell’immenso Paese.
La seconda è che forzando i tempi dell’intesa, la Santa Sede vuole
scongiurare la possibilità di uno scisma tra la cosiddetta Chiesa
patriottica sostenuta dal governo, e la «comunità sotterranea» dei
cattolici ubbidienti solo a Roma, perseguitata a lungo dal Partito
comunista. Ma a Washington interessa capire soprattutto le ricadute di
questo avvicinamento; e gli effetti che avrà sul problema della difesa
dei diritti umani e della libertà religiosa.
E soprattutto, si
tenta di capire se dalle relazioni religiose discenderanno a cascata
quelle diplomatiche, oggi inesistenti, tra Vaticano e Pechino. Una Cina
dotata della legittimazione della Santa Sede potrebbe accrescere il suo
peso anche geopolitico in un panorama asiatico in chiaroscuro. Al
momento, la questione non sarebbe stata affrontata. «Ma è logico che la
tappa successiva sarà, prima o poi, la distensione diplomatica», ammette
uno degli alti prelati che segue da vicino le trattative. «Non si può
prevedere con quali tempi, però». Per questo a Taiwan, ma anche a Tokyo,
si avverte una forte preoccupazione. Si parla di un trasferimento
dell’ambasciata di Taiwan presso la Santa Sede all’Ordine dei
cattolicissimi Cavalieri di Malta, come possibile passo verso Pechino;
della creazione di un «Istituto di cultura» a Roma come surrogato della
sede diplomatica; e del declassamento a «Delegazione apostolica» della
nunziatura vaticana a Taipei, designando però un vescovo come gesto
riparatore.
«Taiwan è informata passo dopo passo da noi»,
assicurano in Vaticano. Ma non è tranquilla. Avrebbe spedito una
delegazione di cinque parlamentari per incontrare Francesco: è stata
ricevuta solo dal «ministro degli Esteri», monsignor Paul Gallagher. Da
fonti cinesi si sostiene che quella missione a Roma sarebbe stata un
tentativo di far deragliare all’ultimo miglio la trattativa; con dietro
il sostegno indiretto degli americani. E nella stessa guerra di
resistenza andrebbe inquadrata la rivelazione, da parte dell’arcivescovo
emerito di Hong Kong, Joseph Zen, di un colloquio riservato col Papa:
colloquio nel quale Zen avrebbe accusato il Pontefice di «svendere i
cattolici cinesi». Sono conferme di un’evoluzione che segnerebbe
comunque una cesura; e che viene vissuta come un trauma da entrambe le
parti.
Gli Usa sanno che in Vaticano esistono «due partiti» in
contrasto sulla questione cinese. E Washington insiste di non essere
ostile all’accordo sulla nomina dei vescovi. Si cerca solo di
interpretarne le ripercussioni. Anche perché sarà difficile fermare una
dinamica che il segretario di Stato, cardinale Piero Parolin, ha
perseguito con pazienza e prudenza, appoggiato da Bergoglio. Il fatto
che Francesco sia considerato un Papa «post-occidentale» ha giocato a
favore della costruzione di un rapporto di fiducia: non è stato
percepito da Pechino come «un agente delle potenze straniere», in
sintesi degli Stati Uniti. In più, il Vaticano assicura di non volere
cambiare la Cina e il suo regime, ma solo di permettere ai fedeli di
vivere in libertà. Nessuna ingerenza, dunque, che Pechino teme più di
ogni altro virus.
«Si tratta di voltare pagina», si spiega nella
Roma papale. «Non vogliamo più una Chiesa che deve stare per definizione
all’opposizione del governo cinese. Bisogna dialogare in modo
pragmatico, superando l’ideologia della Guerra fredda e dello scontro».
Nessuno è pronto a scommettere che tutti nella cosiddetta Chiesa
clandestina accetteranno, sebbene i segnali siano positivi. I due
vescovi «non ufficiali» che ancora si opponevano all’accordo sono stati
convinti a accettare per ubbidienza al Papa di ritirarsi per fare posto a
quelli designati dalla Chiesa patriottica cinese, cioè dal governo.
«Sappiamo che si tratta di un cattivo accordo, perché i cinesi hanno il
coltello dalla parte del manico, e ogni volta che noi cattolici lo
afferriamo, sanguiniamo. Ma Pechino accetta che la Chiesa di Roma entri
nelle questioni religiose: cosa mai ammessa prima. E poi, oggi la porta è
socchiusa. Domani potrebbe chiudersi e qualunque dialogo diventerebbe
più difficile. Meglio un cattivo accordo che nessun accordo», è il
mantra della diplomazia vaticana.
La Segreteria di Stato vaticana
teme che dopo l’ultimo congresso del Pcc la situazione peggiori, non
migliori. A marzo, probabilmente dopo la conclusione della sessione
annuale dell’Assemblea nazionale a Pechino, verrà a Roma una delegazione
per perfezionale l’accordo sulla nomina dei vescovi. Si conta sulla
presenza del viceministro degli Esteri, responsabile della sezione
Europa, come contraltare di monsignor Antoine Camilleri, incaricato di
mediare con Gallagher e con un veterano delle relazioni sino-vaticane
come monsignor Claudio Maria Celli. Superato questo ostacolo, il resto
potrebbe essere in discesa. Xi Jinping sarebbe pronto a avallare
l’intesa.
«Ma sapete che la segretezza e la scarsa trasparenza con
le quali sono state condotte le trattative vi farà perdere la battaglia
dell’informazione nei media occidentali?», ha chiesto un rappresentante
del Dipartimento di Stato Usa ai mediatori della Santa Sede. «Siamo
consapevoli di correre questo rischio», sarebbe stata la risposta. Pur
di ricucire con il più grande Paese asiatico dopo la rottura del 1951
seguita al riconoscimento di Taiwan, il Papa argentino sembra pronto a
aprire questo fronte: ben sapendo che non sarà solo esterno ma anche
interno alla stessa Chiesa cattolica. E diventerà un’altra occasione di
critica da parte dei suoi numerosi avversari. «Se si perde tempo, nel
Partito comunista potrebbero rispuntare le resistenze, e l’accordo
tornare in alto mare».