La Stampa 18.2.18
Jung contro Einstein
Meglio il Dio che gioca a dadi
Affascinato
dalle coincidenze, lo psicanalista contestava il principio di causalità
e alla Teoria della relatività preferiva la Meccanica quantistica di
Pauli. Una lettera del 1954
di Fabio Sindici
«Non
so se è vero che il signor Einstein abbia detto che non può credere che
Dio giocasse ai dadi quando ha creato il mondo, ma se è così, non ha
realizzato che l’alternativa è che Dio ha creato una macchina». Regala
una battuta carica di provocazioni elettriche Carl Gustav Jung in una
lettera inedita del marzo 1954 (in vendita ora presso la libreria
antiquaria L’Autographe di Ginevra), indirizzata al giornalista
scientifico Henri Corbière. Il patriarca della psicologia del profondo
si schermisce nella riga successiva, assicurando che questa sua
considerazione non è poi particolarmente importante. Ma certo non lo
pensava.
La ricerca di un passaggio segreto tra le rivoluzionarie
prospettive nel campo della fisica teorica e l’indagine nei labirinti
della psiche era una sua speciale ossessione da più di quarant’anni.
Jung scrive in risposta ad alcune domande di Corbière riguardo alla sua
opinione sulla Teoria della relatività di Einstein. Il suo
corrispondente era autore di un omaggio al grande fisico e aveva
lavorato a un saggio sull’avvenire della scienza con un approccio
trans-disciplinare, cercando punti di contatto tra le diverse regioni
del sapere e con questionari inviati a celebrità «sapienti» e premi
Nobel.
L’idea dello spazio curvo
Jung era sempre stato
attratto dalle porte che si schiudono tra filosofia e psicologia, arte e
scienza. Aveva amato Nietzsche e Schopenhauer. Aveva conosciuto Albert
Einstein in una serie di cene a Zurigo, tra il 1909 e il 1912, in cui lo
scienziato aveva illustrato i fondamenti della relatività corredati da
formule matematiche e una nuova idea sul rapporto tra spazio e tempo. È
proprio questo a ispirare Jung: «Ho avuto la grande opportunità di
discutere con lui [Einstein, ndr] le origini della sua Teoria della
relatività. Dal momento che non sono né un fisico né un matematico, non
ho potuto seguire l’evoluzione della parte matematica che mi sembra
troppo difficile da capire» scrive nella missiva a Corbière.
Lo
intriga però l’idea dello spazio curvo, del tempo come dimensione, di un
nesso di non causalità tra due avvenimenti apparentemente slegati. «Il
sincronismo è il pregiudizio dell’Oriente. La causalità è il moderno
pregiudizio dell’Occidente» dichiarò a un seminario sull’interpretazione
dei sogni nel 1928. Due anni dopo torna sul punto in un discorso di
commemorazione in onore di Richard Wilhelm, lo studioso di filosofia
cinese e traduttore dello I Ching, il Libro dei Mutamenti, usato fin
dall’antichità come sistema di divinazione: «La scienza dello I Ching è
basata non sul principio di causalità ma su uno che - ancora senza nome
in quanto non ci è familiare - ho provato a chiamare principio
sincronistico».
Jung ammetterà in seguito i suoi debiti con
Einstein che lo avevano spinto verso un altro fisico brillante: Wolfgang
Pauli, uno dei principali teorici della Teoria dei quanti, premio Nobel
per la scoperta del principio di esclusione, che spiega la stabilità
degli atomi e della materia. Con Pauli il rapporto è però molto più
profondo, terapeutico all’inizio e poi di collaborazione, un ping pong
tra inconscio umano e microcosmo subatomico. Sono proprio i sogni
raccontati da Pauli ad affinare il concetto di sincronicità. Ora i
seminari tenuti da Jung negli Anni 30 del secolo scorso
sull’individuazione di quei sogni saranno riuniti in un libro dalla
Philemon Foundation, che cura la pubblicazione della sterminata riserva
di inediti junghiani.
Apparentemente lontane, le due grandi
rivoluzioni del ’900, l’analisi psicologica e la fisica teorica,
incrociano più volte i loro sentieri. Einstein e Sigmund Freud nel 1933
scambiano pensieri sulle ragioni profonde della guerra (Perché la
guerra?, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri), corrispondenza
aperta sotto l’egida della Società delle Nazioni. Più fertile e
scivoloso il rapporto tra Jung e Pauli, che lo stesso Einstein aveva
nominato per il Nobel. La Meccanica quantistica, basata sulla
probabilità, si adatta meglio delle teorie di Einstein al principio di
sincronicità acausale che Jung stava elaborando. E la battuta nella
lettera a Corbière lo dimostra: la metafora di Dio che non gioca ai dadi
con l’universo era stata usata da Einstein per sfiduciare la fisica dei
quanti.
Jung invece preferisce i dadi alla macchina. Per
illustrare il concetto di sincronicità racconta l’episodio di una
paziente che, durante una seduta, gli descrive un monile a forma di
scarabeo egizio che le era stato donato in sogno; nello stesso momento
Jung sente picchiettare gentilmente alla finestra, quando la apre entra
ronzando nella stanza un insetto dalle ali verde smeraldo. Un’immagine
che ricorda il corvo dell’omonimo poemetto di Edgar Poe. Lo psicologo
degli archetipi avverte il pericolo di sconfinamenti in zone esoteriche e
poco scientifiche, ma la ricerca di un graal che leghi il mondo fisico a
quello psichico lo attrae irresistibilmente.
«La lezione di piano»
Mentre
invia a Jung sogni pieni di mandala e diagrammi - e si correggono a
vicenda le bozze dei loro scritti - Pauli esprime i suoi dubbi ai
colleghi: «Il pericolo di questa situazione è che Jung pubblichi dei
nonsense nel campo della fisica citandomi a suo sostegno» scrive
all’assistente Marcus Fierz. Però continua a studiare fenomeni
paranormali e discute le sue visioni oniriche con la discepola di Jung
Marie Louise von Franz, con la quale è romanticamente coinvolto e che
più tardi proverà a unire psiche e materia nella teoria dell’Unus
Mundus.
In uno di questi sogni, noto come La lezione di piano,
Pauli si trova insieme a uno scienziato, a un uomo identificato come il
maestro e a una donna cinese che lo invita ad abbandonarsi alla musica e
danzare. Pauli non ci riesce. Il sogno fa pensare a una prosa poetica
delle Illuminazioni di Rimbaud che forse Jung conosceva: il titolo è
Favola e culmina nell’incontro di un principe crudele e di un genio che
insieme si fondono e muoiono. Di sicuro avrebbe amato la frase finale:
«Al nostro desiderio manca la musica sapiente».