Corriere 17.2.18
Perché nessuno vuole il voto bis
di Francesco Verderami
Lo
dicono tutti ma non conviene a nessuno: tornare al voto dopo il voto è
l’ennesima promessa che i leader non potranno né vorranno mantenere.
L'idea
che in caso di «pareggio» si debba rifare la sfida è un esercizio
muscolare da campagna elettorale, un espediente che oggi serve ai
capi-partito per esorcizzare il timore di rimanere esclusi domani dal
gioco del governo. Da Berlusconi a Di Maio, da Renzi a Salvini e giù
fino a D’Alema, sarebbe un rischio non partecipare al risiko per Palazzo
Chigi: ognuno di loro dovrebbe infatti fronteggiare i contraccolpi
dell’isolamento, equivalente del fallimento.
«Pericolo frana» è il
cartello posto dappertutto. A partire dal Nazareno. In attesa di
verificare se il segretario riuscirà a raggiungere o quantomeno
avvicinare «quota 25», nel Pd si discute se il futuro sarà «con lui o
senza lui». Non a caso «lui», che pure ambisce a rifare il premier, si è
trasferito al Senato insieme alla gran parte dei fedelissimi: nella
peggiore delle ipotesi, grazie a quella enclave, sarebbe comunque
determinante per qualsiasi soluzione. Se invece tentasse la scorciatoia
del voto, Renzi dovrebbe prima render conto del risultato che ha
condotto al vicolo cieco.
Ché poi è la stessa condizione in cui
versa il candidato premier del M5S. Il profilo dato alla sua campagna
elettorale, e le liste che ha presentato, sono una sorta di all in
dell’ala governista. È da oltre un anno che Di Maio lavora al progetto,
già nel marzo del 2017 anticipò la trasformazione del Movimento:
«Vinceremo e dimostreremo di essere una forza capace di coalizzare in
Parlamento». E l’eventuale successo si trasformerebbe in sconfitta se
M5S — in qualche modo — non entrasse nella stanza dei bottoni. L’ala
movimentista è lì che lo attende al varco.
Il futuro, insomma, non
può essere ipotecato. Da nessuno. E può darsi che Berlusconi sia
sincero quando sostiene di voler tornare alle urne, se la sfida finisse
pari. L’otto marzo la sua pena sarà definitivamente estinta e da quel
momento potrà chiedere ai giudici la riabilitazione, che farebbe cessare
gli effetti della legge Severino: così potrebbe ricandidarsi per
Palazzo Chigi. Nell’attesa, però, le dinamiche nella sua coalizione e
persino nel suo partito somigliano allo spostamento di faglie
tettoniche. Giorni fa, durante un comizio a Venezia, Brunetta è arrivato
a dire che l’alleanza con la Lega «è un momento di passaggio verso un
soggetto unitario di centrodestra».
Una linea eretica, bandita dal
catechismo di Arcore, perché sancirebbe il superamento della leadership
berlusconiana. E non c’è dubbio che il Rosatellum sia funzionale al
disegno, perciò il Cavaliere — a meno di non potersi ricandidare a
premier — non avrebbe interesse ad assecondare il ritorno alle urne con
l’attuale legge elettorale. E magari la permanenza di Gentiloni a
Palazzo Chigi si protrarrebbe in attesa di far saltare il bunker di
Salvini e dar vita a un progetto più solido. Ambizioni diverse, stesso
interesse: perché è chiaro che la linea del «professionista» D’Alema per
un «governo del presidente» porterebbe il cartello di sinistra allo
scioglimento dopo il 4 marzo. E l’ira verso l’ex premier monta dentro
Leu: «Si è sempre sentito qualcuno e ora si sente già qualcosa».
Tutti
vogliono giocare al risiko di Palazzo Chigi. Al bivio, saranno le urne a
stabilire quale strada verrà presa. L’idea del governo di unità
nazionale, sostenuta da Minniti, non è solo un altolà alle mire di Renzi
e alle asfittiche larghe intese con Berlusconi: è il preannuncio di un
terremoto, passerebbe per la scomposizione e ricomposizione del quadro
politico e l’onda d’urto colpirebbe ogni partito. Resta da capire cosa
farebbe Di Maio. È una variabile di non poco conto, da aggiungere agli
altri margini di imprevedibilità.