Corriere 14.2.18
Roma, integrazione fallita
Le illusioni multiculturali dell’Esquilino
L’illusione caduta di Piazza Vittorio. La tolleranza non è integrazione
di Antonio Polito
Piazza
Vittorio all’Esquilino è stata sempre simbolo di integrazione. Qui
abita la borghesia intellettuale di Roma. L’esperimento ora è fallito.
Non per il conflitto tra italiani e stranieri. Ma per il degrado.
Piazza
Vittorio è il passato di un’illusione. Nel rione più multietnico del
centro di Roma, l’Esquilino, questa grande piazza umbertina era stata
scelta come simbolo e speranza di integrazione multiculturale da una
borghesia intellettuale, fatta di gente del mondo del cinema e dello
spettacolo, che è venuta ad abitare qui proprio per vivere come in certi
quartieri di Londra o New York: immersi negli effluvi delle spezie
orientali, confusi nella comunità cinese più vasta di Roma, a contatto
con gli esuli e i profughi di cento nazionalità che, arrivati alla
vicina stazione Termini, vi passano le prime notti del loro spesso
disperato viaggio in Italia.
Dopo tanti anni di generosi e anche
riusciti tentativi (come l’Orchestra multietnica di Piazza Vittorio)
l’esperimento può dirsi fallito. E non per il conflitto tra italiani e
stranieri che tanto fa discutere l’Italia in questi giorni, ma per il
degrado. La piazza contornata da un lungo porticato, e i vasti giardini
che ne occupano il centro, sono infatti ridotti in condizioni peggiori
della peggiore periferia. Al punto che sono stati proprio i residenti
famosi e tutt’altro che xenofobi della zona, da Paolo Sorrentino con la
moglie Daniela D’Antonio all’attrice Carlotta Natoli (assenti invece
altri celebri inquilini del quartiere come il regista Matteo Garrone e
lo sceneggiatore Enzo Monteleone), a dar vita a una mobilitazione per la
bonifica dell’area, mettendo in piedi un paio di chat anche per
segnalare ai carabinieri i reati in tempo reale (un po’ come fanno, al
contrario, i pusher per segnalarsi i carabinieri) e occupandone
simbolicamente alla domenica il roseto.
Chiedono l’ovvio: pulizia,
decoro, controlli, ordine. Piazza Vittorio è infatti diventata brutta,
sporca e cattiva, con «le siringhe al posto dei fiori, i “pali” che
fanno la guardia agli spacciatori, i calzini appesi al roseto, le
fontanelle tutte prenotate, chi si lava i denti chi i piedi, le panchine
bucate, una stecca sì e tre no, e sotto distese di buste di
Tavernello», come raccontava qualche giorno fa la cronaca romana del
Corriere . L’altra sera, mentre infuriava la polemica sull’abbandono
dell’area, una clochard tedesca di 75 anni, che dorme sotto i portici
della piazza, è stata violentata da un giovane immigrato, per fortuna
subito arrestato.
L’illusione caduta a piazza Vittorio è l’idea
che per accogliere e integrare gli immigrati basti un atteggiamento
aperto e tollerante degli italiani. Che cioè il problema fondamentale
del nostro rapporto con gli stranieri sia il razzismo. In quella piazza
di Roma di certo il razzismo non c’è, anzi. E gli stessi manifestanti ci
tengono a far sapere che «la nostra protesta è in antitesi rispetto a
un vento brutto che soffia in Italia in questo momento». Vogliono
insomma proteggere, oltre ai figli che non hanno più il coraggio di
attraversare da soli i giardini, anche «i tanti senza dimora stanziali
che sono le persone più danneggiate dal degrado». È insomma un caso di
scuola, la prova che per integrare gli immigrati ci vuole molto di più
che un’accoglienza fraterna e generosa: ci vogliono controlli, agenti,
vigili urbani; ci vogliono trasporti pubblici efficienti e decenti; ci
vogliono aziende di servizi in grado di ripulire le lattine di birra
abbandonate e i torsi di mela, e cessi pubblici per togliere quel tanfo
di orina che nella piazza si mescola con gli odori esotici degli
alimentari indiani e cinesi; ci vuole un’assistenza pubblica e privata
che dia un pasto e un tetto a chi mangia e dorme per terra; ci vuole un
programma che offra istruzione e opportunità di lavoro a chi è in attesa
della risposta sulla richiesta d’asilo, in bilico tra il diventare un
residente o un clandestino, tra una vita civile e il rifugio nel
crimine. Ci vuole dunque lo Stato, e soldi, investimenti, progetti,
cultura. Tutte cose di cui il nostro Paese palesemente scarseggia
ovunque (perfino nella opulenta e organizzata Germania integrare un
milione di profughi si è rivelata una sfida non ancora vinta); ma
drammaticamente assenti a Roma, città dove ormai anche spazzare una
strada è diventata un’impresa.
Integrare tra di loro culture
diverse (a Piazza Vittorio il Corriere ne ha contate undici in un solo
pomeriggio, e il più delle volte le risse si scatenano tra immigrati
appartenenti a diversi gruppi etnici) non è un pranzo di gala: è un
processo faticoso e costoso, e il risultato non può darsi mai per
scontato. È questo che le «anime belle» che predicano il
multiculturalismo facile e che irridono il disagio della gente non
capiscono. Lanciando magari i loro proclami anti-razzismo da Capalbio,
mentre si battono per evitare l’arrivo di cinquanta emigrati nel
condominio residenziale vicino casa.