Repubblica 31.1.18
Quando si tradisce il patto di civiltà
di Sergio Rizzo
Dunque
ci risiamo. Alla vigilia di ogni elezione amministrativa o politica si
allunga su certe liste l’ombra indecente degli inquisiti per reati
gravissimi. Con l’aggravante, rivelata su questo giornale da Conchita
Sannino, di un magistrato che li dovrebbe giudicare pizzicato a brigare
per ottenere una candidatura nel loro stesso partito. Forza Italia, per
l’esattezza: il solo a non aver risposto all’appello lanciato
dall’Espresso a metà gennaio perché le formazioni politiche si
impegnassero a presentare al giudizio degli elettori candidati al di
sopra di ogni sospetto. «Non c’è una scadenza. Vediamo più avanti», è la
risposta attribuita dal settimanale a Licia Ronzulli, personaggio
chiave nella scelta delle candidature alle Politiche del 4 marzo per il
partito di Silvio Berlusconi. Ma più avanti, fatalmente, si va a
sbattere. Com’è già successo nel caso dell’ex sottosegretario Nicola
Cosentino, condannato a 9 anni in primo grado per concorso esterno in
associazione camorristica.
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Il fatto è che Forza Italia in Campania ha un bel problema. E non da adesso.
Basterebbe
ricordare le discussioni e gli scontri che l’ex ministra delle Pari
opportunità Mara Carfagna dovette affrontare nel 2010 all’interno del
suo partito rivendicando la necessità di presentarsi con liste pulite
alle regionali in Campania.
Senza dire di quanto fu costretto a
penare il futuro governatore Stefano Caldoro durante quella stessa
tornata elettorale per divincolarsi dall’abbraccio di inquisiti e
condannati piovuti nelle liste. Sarà forse perché c’è chi ritiene che i
voti, come il denaro, non abbiano alcun odore: l’importante è prenderli,
poco importa il profilo morale di chi te li porta. Ma di sicuro quel
problema non è stato mai seriamente affrontato, né ovviamente risolto.
Immaginiamo la replica: la faccenda delle liste pulite non riguarda solo il centrodestra.
Giusto.
Vero è che l’intero sistema politico si è sempre mostrato piuttosto
refrattario a dare a questa emergenza morale una risposta collettiva
convincente. Il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone si è
letteralmente sgolato per ripetere che nessuna legge può fare da argine
se prima di tutto non ci pensano i partiti. Inutilmente. Nessun partito
ci ha pensato mai. Qualcuno, forse, ha fatto la mossa: e niente più.
Nel
nulla è caduta pure la proposta del ministro dell’Interno Marco
Minniti, che intervistato a novembre dal nostro Massimo Giannini aveva
chiesto ai partiti di firmare un “patto di civiltà”.
L’aveva
chiamato proprio in questo modo. Ecco le sue parole: «Tutte le forze
politiche che si presentano nelle varie competizioni elettorali si
impegnino a non ricercare e a rifiutare il voto delle mafie. Rompiamo
questo scellerato “patto faustiano”. Le mafie offrono voti e poteri alla
politica. Ma in cambio, proprio come a Faust, gli rubano l’anima.
Questo non dobbiamo consentirlo mai più».
Se
però la questione degli impresentabili può essere considerata un
malessere profondo e diffuso in tutta la nostra politica, la storia che
raccontiamo in queste pagine indica una patologia ben più allarmante.
Perché fa sospettare l’esistenza di un patto non scritto addirittura
contrario rispetto a quello proposto da Minniti: un patto del quale
naturalmente non si conoscono i contraenti, ma che se esiste va avanti
da troppi anni in quella terra meravigliosa e martoriata. E al confronto
ogni richiamo morale sembra una barzelletta.