lunedì 22 gennaio 2018

Repubblica 22.1.18
Bruno Zevi architettura, giustizia e libertà
di Francesco Erbani


Cento anni fa nasceva il grande intellettuale che seppe unire l’impegno politico e l’estetica. Mettendo l’arte alla base dell’antifascismo e condannando sull’Espresso il degrado urbanistico e morale del Paese
Odio l’accademia, il classicismo, la simmetria, i rapporti proporzionali», scrive Bruno Zevi in quel singolarissimo diario intellettuale che è Zevi su Zevi, pubblicato nel 1993 e che aveva come sottotitolo
Architettura come profezia. Lo storico e critico dell’architettura, di cui ricorre oggi il centenario della nascita (che sarà celebrato con una mostra al Maxxi di Roma, con diversi convegni, compreso uno ad Harvard, e con la riedizione di molti suoi libri), così proseguiva elencando fra gli oggetti della sua avversione «le cadenze armoniche, gli effetti scenografici e monumentali, la retorica e lo spreco degli “ordini”, i vincoli prospettici». E concludeva con un «Per loro». “Loro” sono «i morti di Giustizia e Libertà, del Partito d’Azione, della Resistenza che si fondono con i sei milioni dei campi di sterminio».
Immaginando di sentirle scandite, martellate con voce nervosa, le parole danno di Zevi un ritratto che tiene insieme la sua idea di architettura e una genealogia politica e culturale forgiata nelle tragedie del Novecento. D’altronde la sua presenza sulla scena pubblica, mai incasellata in uno schema, si è articolata proprio su questo doppio registro. Da un lato la riflessione critica sulla disciplina, dall’altra l’impegno civile che irrora le battaglie condotte sui giornali (dalla nascita del settimanale, nel 1955, ha una rubrica sull’Espresso che conserverà fino alla morte, avvenuta nel 2000) e sulle riviste specializzate (prima Metron, fondata nel 1944, poi, dal ’55
L’architettura – cronache e storia), e che manifesta nella politica attiva.
Questa occupa grande spazio nella sua vita fin da quando, fuggito dall’Italia per le leggi razziali, nel 1939, Zevi approda a Londra e poi negli Usa, dove si laurea – ad Harvard – e dove dirige i Quaderni italiani di Giustizia e Libertà insieme ad Aldo Garosci ed Enzo Tagliacozzo. Rientrato a Roma, partecipa alla Resistenza con il Partito d’Azione. Verranno poi il Psi e il Partito radicale, di cui sarà presidente fra l’88 e il ’91 e nelle cui liste verrà eletto in Parlamento nell’87.
Per Zevi, scrive Rafael Moneo nell’introduzione ad Architectura in nuce, un libro del 1960 ora riproposto da Quodlibet (pagg. 288, euro 30) con postfazione di Manuel Orazi, «l’architettura è l’arte dello spazio» e la sua storia è «una narrazione sul modo in cui gli architetti hanno costantemente cercato – dando forma alla costruzione – di catturare lo spazio». L’impostazione di Zevi è di matrice crociana, sottolinea Orazi (che cura anche un’altra riedizione zeviana: Ebraismo e architettura, Giuntina, pagg. 132, euro 10).
Intanto per l’auspicio, espresso dal filosofo, che lo studioso sia anche un cittadino attivo sulla scena pubblica. Ma poi per la rivendicazione dell’autonomia dell’arte, da Zevi considerata fondamento dell’antifascismo, e quindi assecondando, nel mestiere di storico, la distinzione fra una “poesia”, raffigurata dai grandi – Biagio Rossetti e Michelangelo, Frank Lloyd Wright e Giuseppe Terragni – e una “non poesia”, una “prosa edilizia”. «Mi sono sempre dichiarato crociano», dichiara Zevi stentoreo, «segnatamente da quando questo termine passò di moda», aggiungendo che La poesia di Croce era il testo «che lo aveva accompagnato tutta la vita». E che sta alla base di un altro dei suoi saggi più celebri, Saper vedere l’architettura (1948).
Per diciannove anni Zevi è segretario dell’Inu, l’Istituto nazionale di urbanistica, del quale, nel 1950, è diventato presidente Adriano Olivetti. Leonardo Benevolo, testimone di quegli anni, racconta che l’elezione del binomio Olivetti-Zevi è il frutto di un assalto alla diligenza, per svecchiare un’anchilosata istituzione e per condurre da lì le battaglie, spesso perdute, contro la speculazione edilizia montante in Italia. Zevi irrobustisce quell’incarico con la rubrica sull’Espresso che per tanti versi viaggia in parallelo con gli articoli di denuncia che Antonio Cederna scrive sul Mondo.
Zevi e Cederna sono molto diversi.
Zevi sostiene la possibilità che l’architettura moderna entri nei centri storici, se non è frutto di sventramenti o di speculazione. Per Cederna, invece, ciò non deve accadere mai. Ma se c’è da battersi a Roma contro le manomissioni sull’Appia Antica o su Monte Mario, contro «le macabre e buffonesche vicende del piano regolatore» o in favore della legge Sullo sull’esproprio generalizzato dei suoli soggetti a trasformazione – legge che naufraga per iniziativa del partito di Sullo, la Dc – ecco che anche gli aggettivi adottati e il ritmo incalzante della scrittura assimilano Zevi e Cederna, distanti su tanti punti, compresa la predilezione crociana, ma affiancati se c’è da difendere la buona urbanistica.
Non è un caso che Zevi, recensendo sull’Espresso il libro Mirabilia urbis, attribuisca a Cederna la benevola qualifica di “salveminiano”. E qui si torna all’imprinting azionista che Zevi fa lievitare dedicando a “loro”, ai martiri della Resistenza e agli ebrei sterminati nei lager, tutto sé stesso – cultura, passioni e vita vissuta, comprese le sue contraddizioni: «Il desiderio di una famiglia tradizionale e l’inevitabilità dell’amore; l’impegno nella programmazione economica e urbanistica dall’alto e l’attrazione per l’advocacy planning, alla Danilo Dolci; la modanatura sottile e il kitsch; Schönberg e Moustaki; l’introversione di Gadda e l’estroversione di Pasolini. Amo i rituali e non sopporto il conformismo».