martedì 23 gennaio 2018

il manifesto 23.1.18
La grande diseguaglianza della società servile
Povertà globale. Il Rapporto Oxfam fotografa non solo le vette, straordinarie nel 2017, della ricchezza ma guarda il mondo anche dalle profondità globali degli abissi sociali
di Marco Revelli


L’ultimo rapporto Oxfam sullo stato sociale del pianeta è piombato come un pugno sul tavolo dei signori di Davos. Dice che l’1% della popolazione mondiale controlla una ricchezza pari a quella del restante 99%. E questo lo riportano tutti i media. Ma dice anche di più. Dice, per esempio, che tra il marzo del 2016 e il marzo 2017 quell’infinitesimo gruppo di super-privilegiati (un paio di migliaia di maschi alfa, meno di 1 su 10 sono donne) si è accaparrato l’86% della nuova ricchezza prodotta, mentre ai 3 miliardi e 700 milioni di donne, uomini e bambini che costituiscono il 50% degli abitanti della terra non è andato nemmeno un penny (alla faccia della famigerata teoria del trickle down, cioè dello “sgocciolamento” dei soldi dall’alto verso il basso). Dice anche che lo scorso anno ha visto la più grande crescita del numero dei miliardari nel mondo (all’incirca uno in più ogni due giorni). E dell’ammontare della loro ricchezza: 762 miliardi, una cifra che da sola, se redistribuita, permetterebbe di porre fine alla povertà estrema globale non una ma sette volte!
E poi dice, soprattutto, che quella mostruosa accumulazione di ricchezza poggia sul lavoro povero, svalorizzato, umiliato di miliardi di uomini e soprattutto di donne, e anche bambini. E’, biblicamente, sterco del diavolo.
Anzi, non si limita a dirlo con l’aridità delle statistiche, confronta anche le vite dei protagonisti: quella, per esempio, di Amancio Ortega (il quarto nella classifica dei più ricchi), padrone di Zara, i cui profitti sono stati pari a un miliardo e 300 milioni di dollari, e quella di Anju che in Bangladesh cuce vestiti per lui, 12 ore al giorno, per 900 dollari all’anno (quasi 1 milione e mezzo di volte in meno) e che spesso deve saltare il pasto.
È QUESTA LA FORZA del rapporto Oxfam di quest’anno: che non si limita a guardare il mondo sul suo lato “in alto” – a descriverne il luminoso polo della ricchezza -, ma di misurarlo anche “in basso”. Di rivelarci la condizione miserabile e oscura del mondo del lavoro, dove uno su tre è un working poor, un lavoratore povero, in particolar modo una lavoratrice povera. E dove in 40 milioni lavorano in “condizione di schiavitù” o di “lavoro forzato” (secondo l’ILO “i lavoratori forzati hanno prodotto alcuni dei cibi che mangiamo e gli abiti che indossiamo, e hanno pulito gli edifici in cui molti di noi vivono o lavorano”).
IL SISTEMA ECONOMICO globale, plasmato sui dogmi del neo-liberismo – l’unico dogma ideologico sopravvissuto – si conferma così come quella maga-macchina globale (descritta a suo tempo perfettamente da Luciano Gallino) che mentre accumula a un polo una concentrazione disumana di ricchezza produce al polo opposto disgregazione sociale e devastazione politica (consumo di vita e consumo di democrazia). Allungando all’estremo le società, espandendo all’infinito i privilegi dei pochi, anzi pochissimi, e depauperando gli altri, erode alla radice le condizioni stesse della democrazia. La svuota alla base, cancellando il meccanismo della cittadinanza stessa: da società “democratiche” che eravamo diventati (di una democrazia incompiuta, parziale, manchevole, ma almeno fondata su un simulacro di eguaglianza) regrediamo a società servili, dove tra Signore e Servo passa una distanza assoluta, e dove al libero rapporto di partecipazione si sostituisce quello di fedeltà e di protezione. O, al contrario, di estraneità, di rabbia e di vendetta: è, appunto, il contesto in cui la variante populista e quella astensionista si intrecciano e si potenziano a vicenda, come forme attuali della politica nell’epoca dell’asocialità.
IN REALTÀ NESSUNO dei suggerimenti che il Rapporto avanza figura nell’agenda (quella vera, non gli specchietti per le allodole) dei governi di ogni colore e continente: non la tassazione massiccia delle super-ricchezze così da ridurre il gap (anzi, le flat tax che vanno di moda stanno agli antipodi), né la riduzione degli stipendi dei “top executives”, per ridurli almeno a un rapporto di 1 a 20 rispetto al resto dei dipendenti; men che meno la promozione delle rappresentanze collettive dei lavoratori, o la riduzione del precariato. Figurano, certo, nel démi-monde della politica governante, preoccupazioni formali, dichiarazioni d’intenti o di consapevolezza, promesse e moine, puntualmente e platealmente smentite dalla pratica (Oxfam porta gli esempi della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, che mentre denunciano i pericoli del dumping salariale o dell’evasione appoggiano evasori e tagliatori di buste paga e di teste, e naturalmente di Donald Trump, che mentre lisciava il pelo ai blue collar riempiva la propria amministrazione di multimiliardari e di uomini delle banche).
COME DIRE CHE L’IPOCRISIA è diventata la forma attuale della post-democrazia. E che con questo qualunque sinistra che voglia rifondarsi non può non fare i conti.

il manifesto 23.1.18
Raggi: via dai nomi delle strade gli scienziati razzisti
Roma. A 80 anni dalle leggi razziali, la sindaca annuncia la decisione di cambiare la toponomastica cittadina. Ancora quattro vie della Capitale dedicate a firmatari del manifesto della razza. La comunità ebraica: bene, si ricordino i professori che furono cacciati dalle Università
di Domenico Cirillo


Il «Manifesto degli scienziati razzisti», pubblicato sul primo numero della rivista «La difesa della razza» il 5 agosto 1938, fornì il presupposto teorico, per dir così, alle leggi razziali volute dal fascismo e firmate da Vittorio Emanuele III a partire dal settembre di quello stesso anno. A ottant’anni di distanza dai quei misfatti, il comune di Roma ha deciso di cambiare la denominazione alle strade che ancora sono dedicate ad alcuni dei firmatari del «manifesto». Lo ha annunciato la sindaca Virginia Raggi, intervistata per il documentario «1938. Quando scoprimmo di non essere più italiani» del giornalista Pietro Suber.
La notizia, anticipata ieri dal quotidiano La Stampa, è stata accolta con soddisfazione dalla comunità ebraica romana. «È un segnale importante dell’amministrazione cittadina che vuole indicare un impegno concreto nella riflessione sulle cause e le responsabilità delle leggi razziali in Italia», ha detto la presidente della comunità Ruth Dureghello. «A volte alcuni simboli è bene che rimangano dove sono per ricordarci ciò che la storia ha prodotto», ha aggiunto. Avanzando una proposta: «Ma è giusto per le nuove generazioni che le vie in cui camminano siano dedicate non a chi aderì, senza mai dissociarsene, a un’ideologia razzista, ma invece ai professori universitari che persero il proprio posto per essersi opposti a quell’infamia». Questi ultimi furono un centinaio in tutta Italia, molti di più considerando anche i professori non di ruolo tra i quali Bruno Pontecorvo costretto a emigrare negli Stati uniti per sfuggire al nazifascismo (all’eminente fisico è già dedicata una strada della Capitale).
Già questa settimana si riunirà sul tema la commissione toponomastica del comune di Roma, l’intenzione dell’amministrazione 5 Stelle è quella di riuscire a completare l’iter burocratico per il cambio di denominazione entro l’anno. Sono quattro le strade il cui nome andrà cambiato: via Edoardo Zavattari, nella periferia sud della città, dedicata all’ex direttore dell’istituto di zoologia della Capitale. Via e largo Arturo Donaggio, in zona Trionfale, dedicate all’ex presidente della società italiana di Psichiatria. E largo Nicola Pende, endocrinologo che fu candidato al premio Nobel, al quale è stato dedicato un viale interno del policlinico universitario, con tanto di cerimonia la scorsa primavera con governatore del Lazio e rettore della Sapienza.
«Roma è una città orgogliosamente antifascista – ha detto Virginia Raggi, intervistata per il documentario di Suber – dobbiamo cancellare queste cicatrici che rappresentano una vergogna per il nostro paese».

il manifesto 23.1.18
La via tutta italiana al razzismo fascista
Alcune considerazioni a 80 anni dalla promulgazione delle Leggi razziali. Fenomeno politico diffuso, decisamente ratificato con la sua inclusione nella legislazione del paese. Antecedenti: i progetti di una revisione degli equilibri nell’area balcanica. E l’impresa etiope del 1935-1936
di Claudio Vercelli


Sulla dirompenza che l’insieme di norme e di disposizioni giuridico-amministrative conosciute come «leggi razziali» ebbero sulla società italiana si è iniziato a scrivere soprattutto in anni recenti. È un segno, a modo suo, della tardiva attenzione attribuita ai diversi significati e agli effetti di lungo periodo generati dall’introduzione, durante il 1938, di un collaudato dispositivo istituzionale di stigmatizzazione, discriminazione e poi di persecuzione. Efficace, purtroppo, nei suoi devastanti effetti. Tali norme, infatti, entrarono pesantemente in gioco nelle dinamiche dell’evoluzione collettiva del Paese, determinandone per alcuni aspetti i suoi successivi sviluppi. In altre parole, la questione del razzismo di Stato è risultata senz’altro catastrofica per l’ebraismo italiano ma, non di meno, ha condizionato anche la parte restante della popolazione.
L’ISTITUZIONALIZZAZIONE e la legittimazione di prassi vessatorie nell’età dello Stato moderno regola, infatti, non solo le condotte delle minoranze ma anche gli atteggiamenti della maggioranza. A tale riguardo, le leggi del 1938 si sono rivelate efficienti strumenti di uniformazione e disciplinamento della società italiana, consegnandola ad un’illusoria unitarietà, quella che sembrava derivare dalla stigmatizzazione delle diversità, identificate come fattori di alterazione dell’ordine collettivo. Ci si è quindi ripetutamente interrogati sulle radici del razzismo fascista. Con esso, del maturare nel corso del tempo del suo antisemitismo, da originaria posizione variamente sostenuta e condivisa da una parte degli esponenti del regime, così come fra gli intellettuali a esso organici, a fenomeno politico diffuso, ratificato definitivamente con la sua inclusione nella legislazione del Paese.
Significativi sono in merito gli studi di Michele Sarfatti, di Giorgio Israel e Pietro Nastasi, di Roberto Maiocchi, di Francesco Cassata, di Marie Anne Matard-Bonucci, solo per richiamare alcuni nomi, anche nella diversità dei loro giudizi. Alcuni aspetti risultano decisivi. Un primo dato da considerare è la maturazione e la cristallizzazione del rapporto tra fascismo politico e razzismo di Stato, in una dialettica di rafforzamento reciproco.
Nell’autonomia che le istituzioni regie, e con esse di una parte delle amministrazioni pubbliche, preservarono nel corso del Ventennio, un ingrediente di crescente importanza nella formulazione di una politica del regime per accreditarsi nella sua soggettività fu l’articolazione di una formulazione razziale delle questioni geopolitiche, sia rispetto agli interlocutori europei che, soprattutto, nelle dinamiche interne al Paese. Il rapporto con il nazismo, da questo punto di vista, non si pose mai nei termini di una concessione formale alle esigenze di Berlino. Piuttosto, si trattava di una collaborazione competitiva, dove la tematica razzista era un fattore di accrescimento e valorizzazione delle proprie istanze. La vecchia e inconsistente formula giustificazionista, che leggeva le leggi del 1938 come il risultato di una subordinazione alle logiche dell’Asse, non ha peraltro mai considerato la complessità e la stratificazione, nel corso del tempo, del tema razzista in Italia. I cui fondamenti risalgono, per alcuni aspetti, alle stesse impostazioni positiviste del secolo precedente, trovando tuttavia il punto di svolta nel trasformarsi da motivi culturali a politiche pubbliche.
STORICAMENTE, non c’è solo il fondamentale antecedente della radicalizzazione impressa dall’impresa etiope del 1935-1936. Prima ancora, infatti, pesò il confrontarsi con i progetti di una revisione degli equilibri nell’area balcanica, di cui Mussolini era un attore di primaria grandezza. Una sorta di spinta italiana verso l’Est, che individuava l’altra sponda dell’Adriatico come spazio elettivo per l’espansione egemonica del Paese. Ciò facendo, introduceva da subito il tema del rapporto con le popolazioni slave, intese come soggetti subalterni agli interessi di Roma.
IL CORREDO razzizzante era quindi immediatamente dietro l’angolo, avendo trovato già nel brutale fenomeno del «fascismo di confine» dei primi anni Venti, e nell’italianizzazione forzata delle popolazioni risiedenti nei territori della penisola istriana, un repertorio di motivi e una plausibilità di riscontri. D’altro canto, il tema del razzismo fascista, nel corso di tutta la sua esistenza, si pone nella logica ossessiva dei confini, sia geografici che simbolici.
È l’idealizzazione di un’integrità da ripristinare, quella del corpo della nazione, corrotto da stili di vita e sistemi di relazioni interpersonali basati sulla promiscuità e sul «permissivismo» delle condotte borghesi. Ma è anche simbolizzazione di una dimensione accrescitiva, quella da garantire agli spazi fisici del Paese, nel 1936 transitato ad effimero «Impero». Le politiche dell’immaginario hanno un grande peso in queste dinamiche e concorrono a creare una sorta di sistema mitopoietico, dove la menzogna della razza diventa affermazione di una cognizione alternativa, quella che si alimenta del reiterarsi della sua stessa falsità, divenendo pregiudizio di senso comune.
È IN QUESTO MENTRE che il percorso di nazionalizzazione delle masse abbandona l’individualismo liberale per consegnarsi all’uniformazione degli spiriti e dei corpi, nel nome di un nuovo ordine collettivo, basato sull’omologazione di stili di vita, atteggiamenti, aspettative e condotte. Il tema pseudo-salutista e igienista, che coniugava caserma a palestra, moschetto a disciplina, comando a controllo non datava di certo al solo fascismo, essendo una delle componenti dei fantasmi viriloidi delle subculture nazionaliste. Il regime diede però a esso spessore e legittimazione, cercando di ispirare una via italiana al razzismo, sia del punto degli studi scientifici e accademici sia sul piano delle politiche pubbliche.
L’EQUAZIONE tra fascismo storico e razzismo è quindi più che mai pertinente, celebrandosi sotto i paradigmi della modernità e della progettazione sociale. I quali reclamavano un’opera di sistematica rielaborazione del rapporto di cittadinanza, ora identificato anche in un legame di ordine biologico. Tutto l’impianto delle leggi del 1938 demanda a quest’ultimo elemento, palesandone la centralità per la stessa identità politica fascista. Con l’approssimarsi della guerra il regime optò apertamente per questo indirizzo, trovando in esso nuovi motivi di rigenerazione, soprattutto dinanzi alla prospettiva di un impegno bellico che richiedeva, per essere sostenuto, di dotarsi di una carica propulsiva sul piano ideologico. Tutto ciò non si consumava peraltro in assenza di compartecipazioni.
Le oggettive responsabilità della Corona, e delle istituzioni non fasciste che le ruotavano intorno, si concentra soprattutto nella politica di condivisione che fu realizzata con solerzia dagli apparati pubblici. La premura con la quale le amministrazioni dello Stato regio si adoperarono per tradurre le norme astratte in vincoli concreti, indica la loro reale disposizione di fondo. A essa, infatti, si ricollega la compromissione politica della casa regnante, che fu protagonista nel processo di accelerazione impresso dal regime. Non si trattò di omissione e neanche di cedimento bensì di collusione, dentro una dinamica di rinegoziazione dei rispettivi ambiti di potere, confidando che la guerra avrebbe distribuito benefici a quanti vi avrebbero preso parte come attori di prima fila.
LE LEGGI RAZZIALI del 1938, quindi, sono semmai un punto di arrivo e non di partenza, come la rilettura revisionista intende invece continuare ad accreditare. Non costituiscono un errore ma una scelta ponderata nel corso del tempo, cercando di presidiare e rafforzare il proprio ruolo nel nuovo scenario europeo che andava configurandosi. Segnano la traiettoria ideologica e operativa del fascismo ma anche il livello di compiacente collusione delle istituzioni pubbliche nei suoi confronti. Non abbiamo quindi a che fare con un fenomeno residuale ma piuttosto dell’assunzione integrale della dottrina fascista nella sua intima essenza, quella per l’appunto razzista. La qual cosa, nel momento in cui ci dice che il regime mussoliniano è consegnato al passato, ci interroga tuttavia sulla persistenza e sul ripetersi di alcuni suoi inquietanti motivi di fondo, non importa se sotto nuove e raffazzonate spoglie.

Corriere 23.1.18
La parola «razza» non è innocente
di Dacia Maraini


La parola razza è tornata a farsi sentire. Una parola carica di storia, e perciò non innocente. Si può parlare di specie. E in effetti esiste la specie umana, ma come ha spiegato bene Darwin, deriva tutta da un gruppo di africani vissuto 200.000 anni fa. In quanto al colore nero, deriva da una difesa della pelle contro la forza del sole. Una semplice questione di melatonina. La scoperta del Dna oltre tutto ha chiarito molte cose. Se esistessero le razze umane, infatti,ci sarebbe un Dna degli Ebrei, un Dna del popolo zingaro, un altro dei cosiddetti Ariani bianchi e uno dei neri africani. Ma così non è. Tutti gli esseri umani sono dotati dello stesso tipo di Dna. Non esistono razze in senso biologico. Esistono differenze, e moltissime, ma sono storiche, geografiche, culturali, economiche, filosofiche, religiose. Qualsiasi persona informata lo sa. Sembrerebbe tutto chiaro, ma purtroppo non lo è. La ragione e la consapevolezza storica non sembrano guidare chi cerca soluzioni ai suoi problemi. Ma la cosa più grave è che coloro che dovrebbero guidare gli umiliati e offesi, accantonano anche loro la ragione per soffiare sul fuoco di un legittimo ma spesso cieco scontento. Affidati a noi che siamo i migliori e sappiamo risolvere i problemi. E come? chiedono gli umiliati e offesi. Chiudendoci nella nostra bella casa, prendendo un fucile per sparare a chiunque si avvicini, alzando un bel muro attorno alla città che abitiamo in modo che i barbari e i delinquenti non possano entrare. Ma io a chi vendo le patate che coltivo, chiede l’umiliato? Non ti preoccupare, faremo a meno delle patate che non servono a niente. Servono le patate? Il nazismo e di seguito il fascismo hanno inventato l’eugenetica, ovvero il miglioramento sistematico della razza bianca ariana, considerata pura e superiore. L’eugenetica e l’igiene razziale hanno giustificato la soppressione dei deformi e dei pazzi, che sono stati i primi a morire gassati. La razza superiore doveva produrre donne e uomini bianchi di pelle, sani di corpo e di mente. Tutti gli altri erano considerati impuri e perciò potevano essere trattati come inferiori e quindi resi schiavi, gettati via come scarti dell’umanità e se possibile, eliminati. Questa è la storia che si porta dietro la parola RAZZA. E per questo chi ha consapevolezza storica l’ha eliminata. Cerchiamo di non cancellare la memoria che è il motore della nostra coscienza.

il manifesto 23.1.18
Pedofilia, Bergoglio si scusa ma su Barros non torna indietro
Di ritorno dal Cile. Il papa chiede perdono alle vittime per aver usato il termine «prova», «parlerei piuttosto di evidenza» e sul caso del vescovo di Osorno «non c'è. Ma sono anche convinto che sia innocente»
di Luca Kocci


Ha chiesto scusa alle vittime dei preti pedofili per le parole «infelici» usate in Cile, ma papa Francesco si è infilato in un vicolo cieco da cui non riesce ad uscire – nemmeno con la sottigliezza gesuitica con la quale distingue le «prove» dalle «evidenze» – e che sta minando profondamente la sua immagine di fautore della «tolleranza zero» (dice di aver ricevuto 25-30 domande di grazia da preti pedofili e di non averne firmata nessuna) e, più in generale, di pontefice dalla parte delle vittime sempre e comunque.
Ieri, durante la conferenza stampa sull’aereo che da Lima lo ha riportato a Roma dopo il viaggio apostolico in Cile e Perù, c’è stata un’ulteriore puntata del caso di monsignor Juan Barros, il vescovo di Osorno (Cile) che, nonostante da più parti sia accusato di aver coperto gli abusi sessuali sui minori dell’anziano ex parroco don Fernando Karadima (di cui Barros è stato discepolo), Francesco difende a spada tratta, sebbene le associazioni delle vittime e mezza diocesi ne chiedano la rimozione. Come ha fatto, per esempio, nel suo ultimo giorno in Cile, a Iquique, rispondendo ai giornalisti: «Quando mi porteranno una prova contro il vescovo Barros, allora parlerò. Fino ad ora non c’è una prova, sono tutte calunnie». Tanto da prendersi anche i rimproveri del cardinale statunitense Sean O’Malley, presidente della commissione della Santa sede contro gli abusi sui minori voluta proprio da papa Francesco (appena “scaduta”, verrà rinnovata a giorni) e vescovo di Boston, inviato lì per “fare pulizia” dopo il caso Spotlight, il mega-scandalo pedofilia nella diocesi guidata dal suo predecessore, il cardinal Bernard Law. «È comprensibile» che le parole di papa Francesco siano state «fonte di grande dolore per le vittime degli abusi sessuali da parte del clero», ha detto O’Malley. L’impressione che queste parole trasmettono è che il papa le stia «abbandonando», perché «comunicano il messaggio che se non puoi provare le tue affermazioni, allora non sarai creduto».
Inevitabilmente, sul volo Lima-Roma, molte domande – a cui Francesco non si è sottratto – insistevano sulla vicenda. «Devo chiedere scusa, perché la parola “prova” ha ferito tanti abusati. Non era la migliore per avvicinarmi a un cuore addolorato. Chiedo loro scusa se li ho feriti senza accorgermene e senza volerlo. Il papa che dice in faccia “portatemi una prova è uno schiaffo”, mi accorgo che la mia espressione non è stata felice, non ci ho pensato», ha ammesso Francesco. «La parola “prova” non era la migliore per avvicinarmi a un cuore addolorato. Io parlerei piuttosto di “evidenza”. So che molta gente abusata non può portare una prova o ne ha vergogna e soffre in silenzio. Il dramma degli abusati è tremendo».
Tuttavia, nel merito della situazione del vescovo Barros, Francesco non è arretrato di un millimetro. «È un caso che ho studiato e ristudiato. E non ci sono evidenze per condannare. Se condannassi senza evidenza, senza certezza morale, commetterei un delitto di cattivo giudizio», ha ribadito. «Molti hanno chiesto le dimissioni di Barros e lui ha dato le dimissioni, è venuto a Roma e io gli ho detto: no, così non si gioca, è come ammettere la colpevolezza previa. Quando poi è stato nominato a Osorno, e c’è stato il movimento di protesta, lui ha dato le dimissioni per la seconda volta e io gli ho detto: no, vai avanti. Ho parlato a lungo con lui, altri hanno parlato a lungo con lui. Non posso condannarlo se non arrivano evidenze. Ma sono anche convinto che sia innocente».
Non ha dubbi Luis Badilla, direttore del blog Il sismografo (indipendente, ma ben accreditato in Vaticano) e profondo conoscitore della realtà cilena (ha collaborato al governo Allende, prima di lasciare il Paese come esule): «La prima cosa da fare, per ripristinare serenità e rispetto reciproco e avviare una soluzione adeguata della questione, è chiara. Il vescovo di Osorno, monsignor Barros, deve rinunciare, e il papa dovrebbe accettare subito questa decisione del presule». Ma Francesco, stavolta, sembra preoccupato soprattutto di salvaguardare l’istituzione.

Corriere 23.1.18
«Uno schiaffo alle vittime le mie parole sugli abusi Mi scuso, ma senza evidenza non si può condannare»
Francesco e il caso cileno. «Per il momento Barros resta lì»
di Gian Guido Vecchi


Dieci aerei in sette giorni, trentamila chilometri e una quarantina d’ore in volo, sei località tra Cile e Perù dalla terra dei Mapuche all’Amazzonia al Pacifico. «È stato un viaggio “pasteurizado”, pastorizzato come il latte. Dal freddo al caldo, tutti i climi. Stanca…». Francesco sorride ai giornalisti in aereo, un po’ tirato. Non è solo stanchezza, c’è una cosa che gli sta a cuore chiarire in tema di pedofilia nel clero. «Devo chiedere scusa agli abusati. Il Papa che dice in faccia “portatemi una prova” è uno schiaffo, mi accorgo che la mia espressione non è stata felice, li ho feriti e mi fa dolore». Alcune vittime cilene chiedono da anni la rimozione del vescovo Juan Barros, discepolo del pedofilo madre Karadima e accusato di averlo coperto. Francesco ha difeso Barros in Cile, rispondendo a cronisti locali, «non c’è l’ombra di una prova, sono calunnie». Il cardinale Sean O’Malley, presidente della commissione per la tutela dei minori, lo ha criticato: «Le parole che trasmettono il messaggio “se non riesci a dimostrare, non sarai creduto”, abbandonano i sopravvissuti all’esilio e al discredito». Il Papa ha appena visto il cardinale alla messa di Lima: «La dichiarazione di O’Malley è stata molto giusta, ha detto il dolore delle vittime e che ho sempre usato la tolleranza zero, l’ho ringraziato».
Santità, ha parlato di «dolore e vergogna» per gli abusi. Perché crede a Barros più che alle vittime?
«Benedetto XVI ha iniziato la linea della tolleranza zero e io la proseguo. In cinque anni avrò ricevuto 25-30 richieste di grazia ma non ne ho mai firmata una. Barros è un caso che ho fatto investigare. Non c’è evidenza di colpevolezza, c’è coerenza nell’altro senso. Ma la parola “prova” ha creato un po’ di confusione. Parlerei di “evidenza”. So che molta gente abusata non può portare una prova o ne ha vergogna e soffre in silenzio. Ma se condannassi senza evidenza, senza certezza morale, commetterei un delitto di cattivo giudizio. Barros era vescovo da vent’anni, per due volte ha dato le dimissioni, è venuto a Roma e io gli ho detto: no, così è come ammettere una colpevolezza previa, vai avanti. Ho parlato a lungo con lui. Attendo una evidenza per condannarlo, “nemo malus nisi probetur”, nessuno è cattivo se non è provato. Sono anche convinto sia innocente».
La testimonianza di una vittima non è una evidenza?
«Lo è sempre. Ma nel caso di Barros non ci sono evidenze che abbia coperto abusi. Se non arrivano, rimarrà lì. Io non ho sentito nessuna vittima di Barros, non si sono presentate. Se una persona mi dà evidenze, ho il cuore aperto».
E la reazione delle vittime?
«Chiedo scusa, perché la parola “prova” ha ferito tanti abusati, senza accorgermene e senza volerlo. E mi fa dolore perché in Cile ho ricevuto delle vittime, so quanto soffrono».
O’Malley ha detto che le sue parole sono state «fonte di dolore».
«Mi ha fatto pensare che la parola “prova” fosse un’espressione infelice. “Calunnia”? Se uno accusa con pertinacia e senza averne evidenza, è calunnia».
In Amazzonia ha denunciato interessi economici ma anche un ambientalismo contro l’uomo: esiste?
«Sì, credo di sì. Per proteggere la foresta, alcune tribù sono rimaste escluse. E la foresta ha finito per essere sfruttata».
In Perù i politici hanno defraudato il popolo: corruzione, indulti…
«Nei paesi in America latina ci sono tanti casi di corruzione. Anche in alcuni d’Europa. Il peccato non mi fa paura, tutti siamo peccatori, ma la corruzione sì, è la distruzione della persona. I politici hanno molto potere, va di moda parlare dello scandalo Odebrecht, ma è solo un esempio del campionario. Anche un imprenditore che paga metà del dovuto, il lavoro schiavo, lo sfruttamento sessuale è corruzione».
E nella Chiesa? Come nell’associazione Sodalizio (il fondatore era un criminale pedofilo, ndr) in Perù…
«Nella Chiesa c’è corruzione? Sì. Il Sodalizio è stato commissariato, il fondatore condannato. Si è appellato alla suprema corte della Santa Sede ed è stata l’occasione perché altre vittime facessero denuncia anche civile: sono emerse cose molto più gravi ed è intervenuta anche la giustizia civile, che in questi casi di abuso è sempre conveniente, è un diritto. Benedetto XVI non tollerava queste cose e io ho imparato da lui a non tollerarle».
Ha celebrato un matrimonio in volo tra una hostess e uno steward sposati civilmente e con due figlie: cosa direbbe ai parroci?
«Uno di voi mi ha detto che io sono matto a fare queste cose. Ma i sacramenti sono per gli uomini. Io li ho interrogati, erano preparati, hanno fatto i corsi prematrimoniali. Tutte le condizioni erano chiare, si sono confessati, perché rimandare ancora? C’è chi ha detto che avevano già l’intenzione di chiedermelo, non so se sia vero, ma dite ai parroci che il Papa li ha interrogati bene, ed erano coscienti della loro situazione».
Cosa pensa delle cardinale Maradiaga sulla gestione dei soldi nella diocesi?
«Il cardinale ha fatto una dichiarazione filmata, c’è un video. Io dico quello che lui ha detto».

Corriere 23.1.18
La prima volta in pubblico da parte di un Pontefice
di Luigi Accattoli


Wojtyla appena eletto aveva detto «se mi sbaglio mi corrigerete» ma si riferiva alla lingua italiana, non ad atti o discorsi. Ecco invece Papa Bergoglio che si scusa di una dichiarazione sugli «abusati» fatta in Cile, quando ebbe a dire che se non ci sono «prove» le loro accuse sono «calunnie»: «la parola “prova” è quella che mi ha tradito. Ho fatto confusione: non volevo parlare di “prove”, quanto di “evidenze”». E ancora: «Devo chiedere scusa perché la parola “prova” ha ferito: ha ferito tanti abusati». Si aveva notizia di Papi che chiedevano scusa in privato per una parola sbagliata o inopportuna, detta poniamo a un collaboratore, ma mai in pubblico, almeno nei tempi recenti. Inoltre con gli ultimi Papi, da Montini a oggi, sono state tante le richieste di scuse per fatti storici — guerre di religione, roghi di eretici, caso Galileo — o per colpe altrui, dalla pedofilia al genocidio del Rwanda, ma non si ricorda una tale scusa per un proprio passo falso, piccolo o grande. Neanche di Francesco, esternatore spericolato, si raccontano precedenti pubblici. L’autocritica non gli è sconosciuta. Con disinvoltura si sbaglia e si corregge, su date, nomi, fatti. Spesso precisa: «Questo non lo so con esattezza: controllate». Oppure cita un predecessore e aggiunge: «Non ricordo quale Papa l’abbia affermato». Ha persino detto, in un’intervista: «A volte prendo delle cantonate». Ma le scuse in diretta, per un fatto di una certa rilevanza, le abbiamo viste e sentite solo ieri. Tante volte i Papi hanno dovuto rimediare a qualche parola audace, ma la correzione di tiro non veniva mai presentata come richiesta di scuse. Dopo la lectio di Regensburg sul rapporto tra Islam e violenza Benedetto XVI corse ai ripari con una dichiarazione del cardinale Bertone, nel 2006: «Il Santo Padre è vivamente dispiaciuto che alcuni passi del suo discorso abbiano potuto suonare come offensivi della sensibilità dei credenti musulmani». Era di fatto una richiesta di scuse ma questa parola nella nota del Segretario di Stato non veniva usata.

Il Fatto 23.1.18
Regeni, la stampa e l’Italia: due anni di teatro della verità
Distrazione di massa - Si vuol accreditare la tesi che il segreto della morte del 28enne vada cercato a Cambridge più che al Cairo: così il ruolo del regime di al Sisi si sfuma
Regeni, la stampa e l’Italia: due anni di teatro della verità
di Guido Rampoldi


A due anni dall’assassinio di Giulio Regeni la verità pare finalmente vicina. O almeno sappiamo dove cercarla: negli oscuri ambienti accademici dell’università di Cambridge che cinicamente usarono il ricercatore per costruire una cospirazione filo-islamica, forse anti-italiana. Il fatto che Regeni sia stato ucciso al Cairo e non a Cambridge pare avere una qualche rilevanza ma anche su quel fronte, buone notizie: la Procura egiziana, incalzata dal nostro governo, ha mandato importanti carte a Roma, così dimostrando, lo certifica il ministro Minniti, la volontà di al Sisi di collaborare alla scoperta della verità, da cui evidentemente il feldmaresciallo non ha da temere. Questa è grossomodo la sintesi di quanto si è letto e ascoltato in questi giorni, ed è abbastanza per porre con urgenza la domanda che aleggia da due anni sopra questa per nulla oscura vicenda: l’Italia ha ancora un’informazione o ha deciso di farne stoicamente a meno? La seconda, potremmo rispondere ripercorrendo le contorsioni di cui è stato capace il giornalismo italiano in questo tempo.
L’arresto e l’uccisione di Giulio Regeni sono eventi nel complesso lineari, nitidi. Segnalato da un informatore ai servizi segreti egiziani per una vendetta personale o per un malinteso, Regeni fu arrestato nel giorno più temuto dal regime, il 25 gennaio, anniversario della rivoluzione egiziana spenta dal golpe del 2013, e nei paraggi di un luogo altamente simbolico, piazza Tahir, lì dove la sollevazione cominciò. L’apparato che deteneva il ricercatore lo torturò per sette giorni e infine lo soppresse intenzionalmente (con un colpo di karate, accertò l’autopsia), probabilmente per evitare che potesse raccontare quel che aveva subito. È verosimile che l’eliminazione di un occidentale richiedesse l’autorizzazione dello stesso al-Sisi. In ogni caso in seguito il regime è stato tetragono nel rifiutare la colpa di quella morte. Ma dopo tante sguaiate menzogne, quando infine ha deciso di costruire una versione convincente ha finito per scoprirsi. Alla fine di marzo 2016, quasi due mesi dopo la morte di Regeni, la polizia attribuì l’omicidio a 5 egiziani morti in uno strano ‘scontro a fuoco’ con gli agenti.
Quando però l’ambasciata italiana e il legale dei Regeni, la combattiva Alessandra Ballerini, tentarono di vederci chiaro, emerse che i documenti del ricercatore, secondo il regime trovati in casa di uno degli egiziani uccisi e perciò ‘prova’ della loro responsabilità, in realtà erano stati portati lì da un ufficiale della polizia. Un ufficiale di cui, da allora, la Procura di Roma conosce il nome.
Questo clamoroso autogol obbligò l’informazione italiana e i suoi molteplici ispiratori ad abbandonare la tesi propalata fino a quel giorno da grandi giornali e tg: Regeni ucciso da nemici dell’Italia e di al-Sisi per rovinare i proficui rapporti di amicizia intessuti da Roma e dal Cairo. Lo stesso al-Sisi l’aveva fatta propria in una intervista a Repubblica nella quale aveva ricordato tanto i motivi che lo rendevano prezioso all’Italia, dai giacimenti dell’Eni all’influenza egiziana sulla Libia orientale, quanto l’amicizia e la stima, ricambiati, che lo legavano a Renzi. All’epoca quasi tutta l’informazione era renziana, l’Eni rappresenta un grande inserzionista e al-Sisi appare tuttora a molto giornalismo il ‘male minore’, un tiranno ‘filo-occidentale’ che tiene a bada ‘gli islamici’ con inevitabile brutalità. La somma di questi fattori dà come risultato un’informazione altamente omissiva, costruita sul rifiuto di mettere in relazione l’uccisione di Regeni con i metodi di un regime golpista che si è presentato al mondo massacrando 1200 dimostranti e sbranandone centinaia nelle sue sale di tortura.
A noi interessa solo la morte di Giulio Regeni, almeno ufficialmente. Sicché se al-Sisi ci consegnasse tre sgherri qualunque, torneremmo a salutarlo renzianamente, come ‘grande amico’, ‘statista’ e ‘salvezza del Mediterraneo’. Ma poiché neppure questo ripiegamento tattico pare nelle intenzioni del regime, per il governo italiano sta diventando complicato conciliare due obiettivi divergenti, non irritare il Cairo e allo stesso tempo fingere di tener fede a un’indefettibile desiderio di verità.
Ecco allora prendere quota la variante denominata ‘la pista Cambridge’. Avvalorata da Renzi e dal ministro degli Esteri Alfano con dichiarazioni severe, vuole che la tutor di Regeni nasconda il segreto della sua morte, presumibilmente un piano cospirativo finanziato con diecimila sterline. Vi alludono cronache giudiziarie fumose nelle quali ciò che pare certo nel primo capoverso diventa dubbio già nel terzo. Peraltro una conoscenza anche minima dell’Egitto dovrebbe suggerire che l’unico ambiente in cui può davvero maturare una cospirazione contro al Sisi, il vertice militare, non è raggiungibile dagli accademici di Cambridge. Ma fare di Regeni la vittima di un regolamento di conti tra servizi segreti pare ridimensionarne lo scandalo della morte. E spostare l’attenzione sulla ‘pista universitaria’ aiuta a far accettare che al-Sisi torni a essere nostro interlocutore. In dicembre, riferivano i giornali italiani senza tradire perplessità, il dittatore ha espresso al ministro dell’Interno Minniti “la sincera volontà” di ottenere “risultati definitivi” nell’inchiesta. A sua volta Minniti è stato al copione: ha ribadito che l’Italia “pretende la verità” e ha salutato la consegna agli italiani di nuova documentazione come prova di rinnovata collaborazione. In quelle carte c’era poco, ma questo è stato taciuto ai fiduciosi lettori. L’importante è che la commedia vada avanti, dato che nessuno sa come chiuderla. Ma dove l’informazione diventa teatro su commissione, recitazione di testi suggeriti da poderosi committenti, o perlomeno strumento docile del sistema-Paese, cosa resta di una democrazia?

Corriere 23.1.18
Allarme pseudo-scienza un attentato alla ragione
di Carlo Rovelli


La Rai è servizio pubblico. Ha avuto momenti gloriosi e ha prodotto programmi di grande valore. Ha contribuito in maniera significativa alla crescita culturale italiana. La radio italiana è fra le migliori del mondo; alcuni dicono la migliore, io sono fra questi. Nonostante giuste critiche che spesso riceve, sudditanze politiche e quant’altro, sono orgoglioso della Rai. Anche nei momenti peggiori, quando il gusto è stato dubbio, ha mantenuto il livello di ragionevolezza e affidabilità che è la ragione di esistere per un grande servizio pubblico, pagato dalle tasse di ciascuno di noi.
Per questo il Paese non può tollerare che si infiltrino nei programmi Rai assurdità pseudo-scientifiche spacciate per scienza. Anche se trasmesse in piena notte. Allarmato dalla mail di una lettrice, ho guardato il replay del programma Incontri con l’inspiegabile: Adamo ed Eva , e non posso che riportare qui le parole della lettrice: «Non avrei mai pensato di vedere su un canale Rai un programma del genere, all’insegna del più sciocco e bieco creazionismo. Un susseguirsi di squallidi personaggi presentati come scienziati che mettono in dubbio l’evoluzione con affermazioni tipo: «L’uomo di Neanderthal è lo scheletro di un vecchio deformato dall’artrite», o: «Di recente la scienza ha dimostrato che Eva è vissuta 6.000 anni fa» e amenità del genere. Tutto presentato in veste scientifica. Nel «"documentario": La Guerra dei Sei giorni è stata un miracolo? si dice che questa guerra è stata annunciata nella Bibbia e la vittoria di Israele prevista in antichi testi…!» L’intero mondo della cultura reagisca unanime contro queste stupidaggini. E a me sembra che ancora più ne sia offesa e non possa non reagire la Chiesa Cattolica, che non cade certo in queste baggianate vergognose che umiliano la serietà e la profondità della religione.
Chiedo alla Rai di smettere di trasmettere queste cose, e scusarsi. Sono trasmissioni comperate all’estero, presentate come «documentari». Che tristezza: l’Italia è stata all’avanguardia nella produzione di documentari bellissimi. Nel mondo se ne producono di splendidi: National Geographic ne ha da sempre di emozionanti sulla natura; la Bbc ne ha di ottimi da sempre; Al Jazeera sta producendo documentari di grande qualità giornalistica sull’attualità internazionale. Non abbiamo bisogno di importare l’immondizia americana; importiamo dall’America piuttosto i veri splendidi documentari scientifici, dalla recente serie «Nova» al super classico «Cosmos». Stiamo lontano da misteri misteriosi, occultismi e pseudo-scienza venduta per scienza, che sono un insulto agli spettatori.
Non è la prima volta che la Rai scivola verso occultismi e pseudo-scienza, giocando sul tentativo di catturare gli spettatori con il fascino dell’ignoto e del misterioso, perfino in prima serata. La Natura è già di per sé piena di ignoto, misteri e meraviglia, senza bisogno di inventarcene di nuovi e scemi. Ci sono innumerevoli cose che ancora non sappiamo su come fa un fiore a sbocciare, e alzando gli occhi al cielo continuiamo a trovare meraviglie e domande irrisolte, stelle che vediamo sprofondare in buchi neri e non sappiamo dove vanno a finire… Non equivochiamo fra la bellezza del riconoscere che ci sono mille cose che ancora non sappiamo e le peggiori stupidaggini: non c’è bisogno di inventare misteri fasulli. Se raccontiamo fantasie, raccontiamole come fantasie: ci siamo emozionati in molti per i draghi del Trono di Spade , senza bisogno di spacciarli per reali.
Non dobbiamo cadere nell’equivoco che apertura mentale, apertura alla critica, pluralità di opinioni, tolleranza, democrazia, significhino dare la possibilità a imbroglioni o sprovveduti di servirsi dei grandi canali di amplificazione offerti dal servizio pubblico e acquisirne l’implicita autorevolezza. Se qualcuno predica che l’eroina fa bene ai bambini, non lo facciamo parlare alla televisione nazionale in nome del pluralismo. Spacciare per scientifico quello che è universalmente deplorato dal modo scientifico non è apertura critica: è disonestà intellettuale, devastante per la cultura del Paese.
La messa in discussione della più elementare ragionevolezza dilaga oggi nel mondo attraverso la rete: le voci più assurde sono prese per buone dalle persone con meno difese culturali, e vari interessi speculano su questo, sia nella politica nazionale che internazionale. Per favore, facciamo che il sevizio publico rimanga immune da queste bestialità. L’ultima cosa che la Rai deve fare è contribuire a questo imbarbarimento. Non si tratta di presentare pareri diversi. Si tratta di resistere alla forza rovinosa della stupidità. Con tutti i suoi difetti, la forza dell’Italia è quella di essere un Paese che rispetto a tanti altri Paesi è fondamentalmente colto e generalmente ragionevole, anche nei momenti di dibattito più aspro. Non distruggiamo questa forza. La televisione ha un ruolo importante nel dare forma all’immaginario di un Paese e delinearne la cultura condivisa. Infezioni come queste trasmissioni che equivocano fra scienza e occulte baggianate sono pericolose per il Paese. Spero che la Rai, di cui ho fiducia, ascolti.

Il Fatto 23.1.18
Galleria Borghese: un set per le pubblicità di Fendi
Effetti della riforma pasticciata: la griffe potrà disporre delle opere del Caravaggio
Galleria Borghese: un set per le pubblicità di Fendi
di Alessia Grossi


“Fendi adotta la Galleria Borghese”. “Fendi sostiene la Galleria Borghese: un accordo triennale per promuovere Caravaggio nel mondo”. “Fendi riconferma il suo impegno verso Roma e l’arte”. E infatti si tratta di un progetto speciale: il primo dell’era Franceschini post riforma e nuovo codice degli appalti, che devono finalmente sdoganare la sinergia tra pubblico e privato. L’accordo tra uno dei musei più importanti d’Italia e la casa di moda sotto il cappello del gruppo Lvmh. Peccato che, a differenza di quanto annunciato, si sia rivelato un passo falso: la griffe, difatti, potrebbe utilizzare come set per le proprie pubblicità i locali – e quindi le opere esposte – della prestigiosa Galleria.
L’accordo siglato a settembre scorso, infatti, è dovuto tornare indietro, come nel gioco dell’oca, al vaglio del ministero dei Beni culturali (Mibact), per non poche e non da poco questioni formali sollevate dallo stesso consiglio di amministrazione della Galleria. Ma andiamo con ordine. Oltre a farsi riconoscere per iscritto come unico sponsor e poter quindi promuovere la propria immagine associandola a quella della Galleria Borghese anche su siti web, canali tematici e social network, alla maison di moda viene accordato di tutto. Dall’accesso per sé e i propri ospiti ad anteprime, inaugurazioni, visite di autorità e associazioni, alla possibilità di organizzare visite private, un evento l’anno, sempre privato, nei locali della Galleria, 500 biglietti omaggio annui, ma soprattutto di disporre dei locali per le campagne promozionali. Il tutto per pochi spicci, peraltro neanche sicuri. E qui vengono i problemi.
Il testo, che il Fatto ha visionato, prevedeva che in cambio Fendi impegnasse nella Galleria di Villa Borghese “fino a 100 mila euro l’anno” per tre anni, come da contratto; oltre a 700mila euro da utilizzare nella creazione di una Fondazione che si sarebbe occupata dell’“approntamento, l’alimentazione, la diffusione della banca dati digitale del Caravaggio e per la creazione del supporto che abbia competenza per l’organizzazione di eventi ed iniziative, volte ad implementare la fruibilità delle opere di Caravaggio”. È il cosiddetto “Caravaggio research”. Qualcuno potrebbe domandarsi: perché mettere in mezzo l’intera Galleria Borghese per implementare l’immagine del grande pittore? Nessuno lo sa. Ma soprattutto, è stato quel “fino a 100 mila euro” a essere saltato all’occhio di Antonio Lampis, da settembre neo-direttore generale per i Musei del Ministero. Così come formulata, infatti, la frase consente a Fendi un ampio margine di manovra, anche di cavarsela con cifre irrisorie, alla faccia della trasparenza raccomandata dal ministro Dario Franceschini. A Lampis si è rivolto il consiglio di amministrazione della Galleria, che gli ha chiesto di visionare il contratto. “I consiglieri hanno chiesto alla direttrice della Galleria, Anna Coliva di sottoporlo alla mia attenzione – conferma Lampis al Fatto – cosa che lei ha fatto prima di Natale. Credo che la correzione della cifra esatta al posto del ‘fino a’ sia già stata apportata e ora il contratto con Fendi è al vaglio dell’Ufficio legislativo per altre questioni più che altro giuridiche”.
Si tratta di questioni che atterrebbero allo Statuto della Fondazione per la ricerca di Caravaggio che la maison si impegna a creare. E soprattutto ai diritti che quest’ultima avrebbe sulle eventuali pubblicazioni. Insomma, non proprio dettagli secondari che peraltro non avevano incontrato fin da subito neanche la simpatia di Franceschini, fanno sapere dal ministero, il quale già in conferenza stampa si era irritato per l’annuncio non quantificato del denaro che Fendi si impegnava a investire.
A leggere il contratto, ora da riapprovare, era chiaro che fosse a favore più della casa di moda che del museo pubblico. “Verrà rimandato in cda, poi ai revisori contabili e alla Corte dei Conti per avere l’ok”, spiega Lampis. Anche perché il testo non è mai stato sottoscritto nel dettaglio dal cda. Nel contratto, si legge che “in data 15 giugno 2017, la Galleria Borghese esaminava in Consiglio di Amministrazione la proposta di Fendi, approvandola”, peccato però che in consiglio – per stessa ammissione di Lampis – la direttrice Coliva abbia portato solo “un’idea di accordo”. In teoria non era obbligata a farlo visto che la riforma Franceschini lascia al direttore ampi margini di discrezionalità, ma “per essere il primo contratto di questo tipo, le cose bisognava farle bene”, ammette il dirigente del ministero. Di tutto questo scompiglio, però, la direttrice della Galleria nega al Fatto di averne avuto un qualche sentore: “Per carità, dal ministero mi aspetto di tutto, ma a oggi non ne so niente, anzi, sto ultimando i contratti per i ricercatori”, spiega, stupita dalla notizia che il dicastero stia rivedendo il contratto. “Anzi – chiosa – questo accordo darà lavoro”.

Il Fatto 23.1.18
Perché la cultura non conviene
di Silvia Truzzi


Victor Hugo, davanti all’Assemblea costituente francese del 1848, spiegò: “Io dico, signori, che le riduzioni proposte sul bilancio delle scienze, delle lettere e delle arti, sono negative per due motivi. Sono insignificanti dal punto di vista finanziario e dannose da tutti gli altri punti di vista”. Questa solenne affermazione – da cui ci seperano, inutilmente, 170 anni – ci è venuta in mente ieri leggendo un bel pezzo di Nicola Lagioia su Repubblica.
Siamo in campagna elettorale – scrive il direttore del Salone del libro di Torino – e tra le mille promesse non ce n’è una che riguardi il rilancio di quella che lui chiama “battaglia per la lettura”. E dire – prosegue – che molto si potrebbe fare per il libro, a cominciare dalle biblioteche (comprese quelle scolastiche per cui s’invoca l’introduzione di un bibliotecario in ogni istituto, come accade in diversi Paesi europei). Siamo d’accordo su tutto con Lagioia, tranne forse con il sentimento in cui ha intinto la penna: la speranza. Attenuata, per la verità, da un dubbio di non poco conto, per l’appunto a proposito della “battaglia per la lettura”: “Sempre che chi aspira a governare la ritenga importante”. E qui la risposta è facile, non tanto basandosi sulle dichiarazioni della più inutile campagna elettorale di cui si abbia memoria, quanto su fatti e politiche degli ultimi anni. I governi di centrodestra si possono liquidare in poche righe: anche se davvero – come va ripetendo – Giulio Tremonti non ha detto quando era ministro che “carmina non dant panem”, resta il fatto che nei suoi anni al governo “a quel principio sempre si attenne, come a un Vangelo privato”. Lo ha recentemente sottolineato Salvatore Settis su questo giornale, ricordando i tagli al bilancio di Beni culturali e Università e ricerca. Nel 2013 Pietro Greco e Bruno Arpaia pubblicano La cultura si mangia, pamphlet in cui, oltre a fare le pulci alle politiche dei tagli, mettono in luce come in questo campo la Storia sia più che mai magistra: l’impero romano non sarebbe mai diventato il centro del mondo senza la lingua, il diritto, la cultura. Nel Rinascimento tutto il mondo legge letteratura italiana, ascolta musica italiana, consentendo ai nostri banchieri di fare grandi affari. E poi Franklin Delano Roosevelt: il presidente del New Deal, in controtendenza rispetto al predecessore Hoover, investe enormemente sulla cultura ottenendo risultati economicamente noti a tutti.
Il 2013 è anche l’anno del Forum del libro (Lagioia ricorda come quel pacchetto di proposte sia rimasto lettera morta). Proprio intervenendo al Forum del libro a Bari, il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, dice (citando Benjamin Franklin) che “Il rendimento dell’investimento in conoscenza è più alto di quello di ogni altro. È la radice del progresso umano e sociale, la condizione per lo sviluppo economico”. Pochi giorni prima, un rapporto dell’Ocse aveva rivelato dati sconvolgenti sul tasso di analfabetismo funzionale in Italia: ultimi nelle competenze linguistiche, penultimi in quelle matematiche. Il 70% degli adulti italiani risulta non in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e complessi per elaborare le informazioni richieste, contro il 49% della media dei 24 Paesi partecipanti. Livelli simili a quelli dell’Italia immediatamente post unitaria quando l’analfabetismo era al 74 per cento. Il paragone lo fa Giovanni Solimine, docente di biblioteconomia alla Sapienza e attento osservatore del mondo culturale, in un interessante saggio per Laterza, Senza Sapere (2014). Dove si dice anche: “Siamo talmente ignoranti da non comprendere quanto sia grave e pericoloso il nostro livello di ignoranza, e da non correre ai ripari”. Un grido d’allarme che è sempre più attuale se si pensa che proprio il professor Solimine, nel maggio 2016 (un anno e mezzo dopo la nomina) si è dimesso dal Consiglio superiore dei Beni culturali in dissenso con le politiche (sostanzialmente assenti) del ministero di Franceschini sulle biblioteche statali e i beni librari.
Quell’indagine Ocse (identici i dati diffusi nel 2016) avrebbe dovuto spingere i governanti a rivoluzionare completamente l’approccio al problema e farne il primo punto dell’agenda. Ma forse non è un caso che le cose siano andate diversamente: se i cittadini non sanno pensare perché non incapaci di organizzare il pensiero, se hanno sempre meno strumenti cognitivi, non capiscono cosa succede attorno a loro. Così sono inermi, vittime di qualunque balla viene spacciata per verità (altro che battaglia contro le fake news): un popolo ignorante è il principale alleato di chi vuole schiavi e non cittadini liberi. Il pensiero critico è un pericolo che una classe dirigente mediocre e opportunista non può permettersi.

La Stampa 23.1.18
La differenza tra un rivoluzionario e un cialtrone
I ricordi dello scrittore, 50 anni fa chiamato a fare lezione nel Centro Sperimentale di Cinematografia occupato
di Andrea Camilleri


Il Sessantotto non l’ho vissuto in prima persona. In quegli anni avevo smesso di insegnare, lavoravo in Rai e mi dedicavo molto alla regia.
Nonostante gli impegni a teatro, tuttavia, ero molto interessato a ciò che accadeva nelle università. In quel momento era inevitabile essere coinvolti. Ricordo le prime occupazioni a Torino, anche se non ero protagonista del movimento né in contatto con esso, perché vivevo a Roma.
L’impressione che ebbi, già allora, era che il Sessantotto fosse arrivato esattamente al momento giusto, quando doveva venire. Si era giunti, almeno così percepivo io, a una sorta di esaurimento ideologico, di spossatezza e di indebolimento generale.
Grandi speranze
All’epoca, nel 1968 e negli anni immediatamente precedenti, si avvertiva una fiacchezza delle cose, come se tutto rallentasse e procedesse piano piano verso la sua fine, dalle istituzioni alle ideologie. E, in questi casi, come si suol dire, motus in fine velocior. Per questo i movimenti, incluso quello del Sessantotto, hanno un senso, per quanto probabilmente inconsapevole.
Anche i luoghi in cui tutto cominciò, le università, non furono casuali. Certo esse sono lo spazio del sapere, dove i giovani studiano e dove si formano gli intellettuali. Eppure i giovani si formano anche nei licei. La ragione per cui il Sessantotto iniziò nelle università risiede principalmente nel fatto che queste sono un simbolo, in primo luogo un centro di cultura, dove la cultura si pratica. Il Sessantotto non nasce operaio, nasce in un modo completamente diverso ed è proprio questa diversità che mi interessava. E non nascondo che vi riponevo grandi speranze.
Nel 1968 mi dividevo fra radio e televisione e avevo smesso di insegnare all’Accademia d’arte drammatica, perché avevo la responsabilità dei programmi di prosa che andavano in onda sul secondo canale televisivo come appuntamento fisso del venerdì. Dovevo occuparmi del cartellone e della produzione, dovevo cercare attori e registi ed ero veramente troppo preso dal mio lavoro in Rai per potermi dedicare anche all’insegnamento.
Fortezza assediata
Ero andato via qualche anno prima anche dal Centro sperimentale di cinematografia, dove avevo tenuto lezioni per anni.
Naturalmente, come succede in queste situazioni, ci furono effetti di ridondanza per cui anche il Centro sperimentale fu occupato dagli studenti. La situazione era un po’ diversa rispetto all’occupazione che ci fu in Accademia, dal momento che il Centro sperimentale possiede la cineteca nazionale, che è proprietà dello Stato. Pertanto, il tentativo di sgombero da parte della polizia fu quasi immediato. Esso tuttavia non riuscì, perché gli studenti resistettero e misero addirittura dei lucchetti molto grandi al cancello che rendevano difficile, a meno che non si usassero le armi, l’accesso agli agenti. Gli studenti non cacciarono via i professori, come capitò per esempio in Accademia, ma furono i professori a spaventarsi e ad andare via.
In quel momento il Centro era al massimo della capacità di recezione, accogliendo numerosissimi allievi tra registi, montatori, tecnici del suono e soprattutto aspiranti attori. Era in piena fioritura. In quei giorni divenne una fortezza assediata, anche perché era l’unica di queste istituzioni statali, come l’Accademia di danza o d’arte drammatica, ad avere la cucina. Gli studenti potevano beneficiare di una certa autonomia, potendo resistere benissimo per un po’ di giorni, cucinando alla meno peggio, senza esser obbligati a uscire.
A distanza di qualche tempo dall’inizio dell’occupazione, ricevetti una telefonata di Gian Maria Volonté, il quale, pur non avendo studiato al Centro ma all’Accademia, mi chiese se potevo riceverlo insieme a due studenti del Centro. Quando arrivarono, mi domandarono se volevo tenere qualche lezione, perché così si erano espressi gli studenti in assemblea. Accettai immediatamente, poiché questo mi avrebbe permesso di entrare in contatto con loro. Una cosa è leggere le informazioni sui giornali, altra è sentire direttamente le voci dei ragazzi e avere l’opportunità di vivere il movimento dall’interno. Perciò dissi loro che non il giorno seguente – perché avevo bisogno di un minimo di tempo per organizzarmi – ma quello dopo ancora sarei andato in mattinata al Centro.
Nessuno in classe
Già l’arrivo si rivelò più difficile del previsto, perché riuscire ad avvicinarsi fisicamente era un problema. La sede all’epoca era dalle parti di Cinecittà. Io ero in taxi, ma la strada di accesso era bloccata dalla polizia. Feci fermare il taxi qualche decina di metri più avanti, presi a piedi una deviazione laterale, scavalcai un muretto e me ne andai «per li campi», arrivando al Centro verso le nove meno dieci del mattino. Un ragazzo mi aprì il cancello, mi ricordo che fui impressionato dalla mole dei lucchetti. A quell’ora gli studenti dormivano. Andai in classe, non c’era nessuno. La mia lezione era prevista per le nove. Lo avevo detto ai ragazzi e avevo anche specificato in quale aula, perché era quella dove avevo insegnato anni prima. All’ingresso, su una parete, era appeso un grande orologio a muro, che serviva non solo a segnare le ore, ma anche a suonare un campanello per annunciare l’inizio e la fine delle lezioni. L’orologio era stato divelto e buttato in un angolo. Io aspettai fino alle 11, fumando una sigaretta dopo l’altra.
In fondo, quasi me lo aspettavo, perché, prima del Sessantotto, quando facevo lezione la mattina, i ragazzi arrivavano sempre assonnati. Potevo immaginare che durante l’occupazione, essendo tutti insieme nel centro, fosse molto probabile che non passassero la notte a dormire. E, infatti, non si presentò nessuno.
La frase sul tazebao
Mentre me ne stavo andando, arrivò un allievo, che mi chiese stupito perché me ne andassi. Gli risposi che la lezione era prevista per le nove e vista l’ora sarei andato via. C’era una sorta di tazebao, allora scrissi: «Andrea Camilleri è venuto, non ha trovato nessuno, torna domattina alle 9».
L’indomani mattina mi ripresentai, stavolta entrando da dietro, senza dover attraversare la polizia, perché mi avevano insegnato un’altra strada. Il primo studente si presentò che era quasi mezzogiorno. Allora scrissi sul tazebao questa frase, che ricordo benissimo: «Differenza fra un cialtrone e un rivoluzionario: il cialtrone rompe l’orologio segna tempo e, invece di presentarsi alle 9, arriva a mezzogiorno. Il rivoluzionario rompe l’orologio e, invece di presentarsi alle nove, arriva alle nove meno cinque». L’indomani erano tutti presenti alle nove.
Discussioni appassionate
Le lezioni furono molto belle, erano come una specie di rituale. Io non mi sedevo in cattedra, perché si stava seduti in terra, ma chiesi comunque ai ragazzi di darmi almeno una sedia. Comunicai loro che non avevo voglia di fare lezione, ma preferivo rispondere alle loro domande. E allora cominciammo a parlare di cinema e a dibattere di politica, ovviamente. Furono discussioni molto vivaci e appassionate. Ricordo un ragazzo che mi disse che secondo lui La corazzata Potëmkin era assolutamente sopravvalutata e non era un granché. Magari ce ne fossero di film così! E così lo analizzammo fotogramma per fotogramma: una discussione molto bella e molto seguita. Feci in tutto una quindicina di lezioni.

Corriere 23.1.18
La rivolta senza padri
L’attentato a Togliatti innescò il caos ma non ci furono ordini d’insurrezione
Mario Avagliano e Marco Palmieri rievocano in un saggio (il Mulino) le gravi tensioni politiche del 1948, culminate negli spari di Antonio Pallante al leader comunista. Seguirono in tutto il Paese disordini che provocarono sedici morti
di Paolo Mieli


Il 1° gennaio del 1948 in Italia entrò in vigore la Costituzione repubblicana. Quello stesso giorno Pietro Nenni, leader dell’unico partito socialista europeo di una certa grandezza legato in un Fronte popolare a quello comunista, scrisse sull’«Avanti!» che era giunto il momento di «adeguare il 1948 al 1848». La Democrazia cristiana raccolse la sfida implicita nel richiamo nenniano agli eventi rivoluzionari di un secolo prima e diede alle stampe un manifesto dove comparivano l’aquila asburgica accanto a «1848» e la falce e martello vicina a «1948». Lo slogan del cartellone Dc era: «Allora contro lo straniero/ oggi contro la tirannia». La sinistra rispose con un poster da cui si affacciava Giuseppe Garibaldi che si rivolgeva al leader trentino con queste parole: «Bada De Gasperi, che nessun austriaco me l’ha mai fatta». Iniziava la sfida: i socialcomunisti, nel nome appunto di Garibaldi, il 18 aprile del 1948 cercavano di travolgere la Dc alle prime elezioni politiche del secondo dopoguerra. E di punire in tal modo Alcide De Gasperi, che un anno prima li aveva cacciati dal governo. Il risultato di quella consultazione elettorale — precisano Mario Avagliano e Marco Palmieri in 1948. Gli italiani nell’anno della svolta di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino — non era affatto scontato. Sulla base dei risultati di precedenti turni di amministrative, comunisti e socialisti credevano di poter agevolmente sopravanzare la Dc. Invece lo scrutinio assegnò a sorpresa un trionfo alla Dc (che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi), e decretò l’insuccesso di Pci e Psi, distanziati di quasi 20 punti.
Tre mesi dopo, il 14 luglio, un giovane siciliano iscritto al Partito liberale, Antonio Pallante (squilibrato e senza mandanti), attenta alla vita di Palmiro Togliatti mentre sta uscendo, assieme a Nilde Iotti, da un portone secondario di Montecitorio. Il leader comunista resta per qualche ora tra la vita e la morte e durante quel lasso di tempo si ha l’impressione che socialisti e comunisti possano cogliere l’occasione per cercare nella piazza una sanguinosa rivincita delle elezioni perdute. Torna d’attualità l’evocazione rivoluzionaria di Nenni. L’allarme è grande anche sul piano internazionale: Stalin definisce l’attentato «brigantesco» e velatamente polemizza con il Pci, accusandolo di non aver saputo proteggere il suo leader; l’ambasciata americana informa Washington che la morte del segretario comunista è «prossima» e riferisce che è stato suggerito ai cittadini di non lasciare Roma per il Nord dove «la loro vita sarebbe stata a rischio».
Cosa succede davvero quel giorno? La Cgil di Giuseppe Di Vittorio (appena rientrato da una conferenza sindacale a San Francisco) proclama immediatamente lo sciopero generale. La decisione «politica» della Cgil provocherà recriminazioni da parte dei sindacalisti cattolici guidati da Giulio Pastore i quali provocheranno una spaccatura definitiva del sindacato. Socialdemocratici e repubblicani decideranno però, in quel frangente, di restare nella Cgil, ritenendo che solo dall’interno si sarebbe potuto «tentare di strappare le masse ai comunisti». Radio Mosca trasmette un ambiguo comunicato nel quale quasi incita all’insurrezione e Celeste Negarville successivamente ammetterà essere stata una «leggerezza» di qualche non identificato dirigente del partito interpretare quel che era stato detto nella trasmissione radiofonica russa alla stregua di una «direttiva». Di qui un’ondata di manifestazioni più o meno spontanee, scontri con la polizia e anche qualcosa di peggio. Finché Togliatti, riavutosi grazie a un intervento chirurgico miracoloso di Pietro Valdoni, richiamerà i suoi all’ordine. E questi rientreranno — non senza qualche mugugno — nelle ore in cui la radio annuncia l’insperata vittoria di Gino Bartali in alcune tappe di montagna del Tour de France: un giornale della gioventù cattolica titola Bartali ha battuto Di Vittorio . Giulio Andreotti, anni dopo, definirà, però, «un’esagerazione» l’attribuzione al ciclista del merito «di aver evitato all’Italia la guerra civile».
I dirigenti del Pci in quelle ore vengono presi alla sprovvista. A sorpresa, tra i meno esagitati troviamo il duro Pietro Secchia, che cerca di frenare la deriva insurrezionalista con queste parole: «Non dimenticate compagni che siamo a soli due mesi e mezzo da elezioni che hanno dato una maggioranza assoluta al governo». Secchia proverà in seguito a rinfrancare i manifestanti accennando ad una «simpatia di larghi strati della popolazione» attestata dalla grande quantità di serrande abbassate. Ma un iscritto savonese, Gerolamo Assereto, gli risponderà con una lettera all’«Unità» scrivendo: «Almeno per quanto si riferisce a Savona, gli esercizi pubblici sono stati chiusi, nella quasi totalità, non per solidarietà con lo sciopero generale, ma per il timore che la massa eccitata danneggiasse negozi e proprietari».
I l fuoco rivoluzionario — a quel che si può desumere dalla copiosa documentazione del libro — si accese spontaneamente. Per autocombustione. In settant’anni di ricerche anche molto minuziose non è stato identificato il nome di un solo dirigente nazionale del Pci che abbia dato il via alla rivolta. Neanche in sede locale. Si moltiplicano — subito dopo l’attentato — i paragoni con l’uccisione per mano fascista nel 1924 di Giacomo Matteotti, le accuse alla Dc di aver creato un clima d’odio responsabile di aver «armato» la mano dell’attentatore, ma nomi di leader che avrebbero dato il «la alla rivoluzione» non sono venuti fuori. Il gappista Rosario Bentivegna racconterà di aver ricevuto alla federazione del partito a Sant’Andrea della Valle l’ordine di «occupare il ministero degli Interni». Lo stesso riferirà l’italianista Carlo Salinari. I due saranno però in grado solo di indicare il nome di chi era stato a fermarli: un alto dirigente del loro stesso partito, Edoardo D’Onofrio. E di aggiungere che in loro presenza D’Onofrio aveva sgridato Mario Mammuccari e Otello Nannuzzi per aver consentito che fossero date talune disposizioni «rivoluzionarie». Da chi? Non si sa.
Si sa invece che tra i donatori di sangue per Togliatti c’erano stati anche un parlamentare Dc, Angelo Perini, e un frate cappuccino. Il socialdemocratico Carlo Andreoni che il 13 luglio (ventiquattr’ore prima del colpo di pistola di Pallante) dal giornale del proprio partito aveva suggerito di «inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti ed i suoi complici» e di procedere in tal senso «non metaforicamente», viene costretto dal suo leader, Giuseppe Saragat, a dimettersi. Qualche screzio si registra poi tra comunisti e socialisti (nonostante alcuni manifestanti feriti e uccisi in quei giorni di luglio del 1948 appartenessero al partito di Nenni). In un rapporto della federazione Pci di Novara si rileva che «i socialisti non accettarono di fare un manifesto del Fronte» e che, dopo la convocazione di una manifestazione «unitaria», «i rappresentanti del Psi facevano macchina indietro adducendo i motivi più risibili che confermavano, ancora una volta, la loro mancanza di coraggio fisico, il loro evidente opportunismo, la loro incoscienza politica». Considerazioni simili si ritrovano anche in documenti della federazione comunista di Ravenna («i socialisti hanno marciato con noi, ma il contributo da essi portato nella lotta è stato minimo») e in quella di Catanzaro che definisce «grave» il comportamento dei seguaci di Nenni. Il quale così si giustificherà sul suo diario: «Battere la polizia di Scelba non sarebbe impossibile… Ma poi? È davanti a questo “poi” che le masse hanno arretrato, non davanti ai carri armati». L’8 agosto a Napoli il segretario del Psi Alberto Jacometti ribalta le accuse dei comunisti e dichiara che, proprio a causa del loro comportamento nelle ore successive al colpo di pistola di Pallante, il Fronte popolare poteva considerarsi «morto».
Al medico di fiducia, Mario Spallone, Togliatti — appena ripresa conoscenza — dà incarico di rassicurare il governo sulla indisponibilità del Pci ad avventure rivoluzionarie. Aristide Romano Malavolta, che all’epoca faceva parte della scorta del segretario comunista, così ricorda le ore immediatamente successive all’attentato: «Piombammo nella confusione, l’aria era quella dell’insurrezione vicina, ero pronto a indossare l’elmetto… Fu lui, Togliatti, dal suo letto in corsia, a fermarci tutti». A Torino, in quegli stessi frangenti, un gruppo di operai con a tracolla dei mitra «sten» entra nell’ufficio dell’amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta e gli comunica che la fabbrica è occupata. Valletta reagisce dicendo loro di fare quello che credono, ma annuncia che quando tornerà la calma licenzierà gli eventuali occupanti. Da quel momento Valletta viene sequestrato nella sua stanza e qualche giorno dopo Negarville dovrà andare di persona a Torino (su un aereo messo a disposizione dalla Fiat) per ottenerne il rilascio. A Milano vengono occupate Breda, Motta e Pirelli. Eligio Trincheri della Volante Rossa racconterà che alla Bezzi alcuni agenti di polizia sono stati «totalmente disarmati» e «le armi sono sparite».
A Busto Arsizio e a Varese sono devastate le sedi della Dc e — mettono in evidenza Avagliano e Palmieri — i manifestanti «assalgono gli stabilimenti carcerari per ottenere il rilascio di alcuni ex partigiani del luogo precedentemente arrestati perché trovati in possesso di armi». A Belluno, riferisce Peppino Zangrando, «alcuni ex partigiani della brigata Pisacane giunsero in città con una motocarrozzella, a bordo della quale trasportavano una mitragliera… Non fu facile convincerli a tornarsene a casa». Ad Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata l’episodio più conosciuto: minatori in rivolta devastano le sedi della Dc, occupano la centrale telefonica e tranciano i cavi; si spara, vengono uccisi l’agente di polizia Giovambattista Carloni e il maresciallo Virgilio Raniero. A Livorno viene ammazzato l’agente Giorgio Lanzi («peraltro», fanno notare gli autori, «un ex partigiano»); in quella stessa città viene aggredito dai rivoltosi un pullman che trasportava un gruppo di suore. Sedi Dc vengono assalite anche a Siena, Pistoia, Pontassieve, Barletta e a Taranto, dove la polizia spara e uccide due giovani di sinistra. A Salerno vengono prese d’assalto le sedi dell’Azione cattolica e dei Volontari della Libertà. A Mirandola la canonica. A Piombino tocca alla caserma dei carabinieri. A Napoli in piazza Dante vengono uccisi due militanti comunisti ed è ferito Francesco De Martino (futuro segretario del Psi). Gli scontri tra manifestanti e poliziotti sono innumerevoli. A Roma il questore riferisce d’essersi trovato al cospetto di una «folla d’invasati» e di aver dato ordine di reagire «con decisione». Vengono colpite la deputata comunista Elettra Pollastrini (che reagisce atterrando con un pugno un agente) e Gina Martina Fanoli, che cerca invano di estrarre dalla borsa il tesserino da parlamentare. Qualche botta in testa la riceve anche il vicequestore Della Peruta, non riconosciuto da poliziotti ai quali lui stesso poche ore prima aveva raccomandato di usare il manganello «senza riguardi per nessuno». A Magliano Sabina vengono sequestrati e pestati (dai manifestanti) un maresciallo e un carabiniere, Minolfo Masci, accusati di essere «sgherri di Scelba, servi dello Stato, direttamente responsabili dell’attentato a Togliatti e della morte dei compagni caduti durante lo sciopero nelle varie città d’Italia». Il carabiniere morirà a seguito delle percosse.
A fatica il Pci riesce a far cessare gli scontri. Ma il 31 luglio a Bareggio, nella cintura milanese, viene lanciata una bomba a mano contro la statua della Madonna Pellegrina in processione. L’attentato provoca una trentina di feriti tra cui molti bambini. Vengono arrestati sei giovani, cinque dei quali iscritti al Pci (il sesto è un anarchico). «L’Unità» li condanna con toni duri. Il 29 novembre a Roma in via del Pigneto verrà aggredito il giovane dell’Azione cattolica Giulio Lalli, che morirà in ospedale. Il 16 luglio dell’anno successivo verrà arrestato il diciottenne Pietro Nicoletti, che confesserà di essere l’autore dell’aggressione. È iscritto al Pci.
Bilancio ufficiale: tra il 14 e il 16 luglio del 1948 restano sul terreno 16 morti, di cui 9 appartenenti alle forze dell’ordine. Più 204 feriti, di cui 120 agenti. In seguito, tra il luglio 1948 e la prima metà del 1950 si registreranno altri 62 lavoratori uccisi di cui 48 comunisti; 3.216 feriti, tra i quali 2.367 del Pci; 92.169 arrestati di cui 73.870 appartenenti al partito di Togliatti. Il leader comunista, pur avendo tenuto — nei giorni in cui fu ricoverato in ospedale — un atteggiamento esemplare, non si pacificò mai del tutto con l’accaduto. Rimproverò ai dirigenti del proprio partito di aver chiesto le dimissioni dell’intero governo guidato da De Gasperi e non esclusivamente quelle del ministro dell’Interno; quest’ultima, a suo dire, «sarebbe stata una richiesta non solo plausibile, ma anche accettabile», dal momento che l’ipotesi era stata prospettata persino dal titolare degli Esteri Carlo Sforza e dal suo giovane sottosegretario Aldo Moro. Si soffermò, Togliatti, sulle reazioni della polizia che ricordavano «i sistemi di rappresaglia dei nazifascisti». E scrisse a Massimo Olivetti — fratello di Adriano, nonché vicepresidente dell’azienda di famiglia — che non avrebbe potuto partecipare ad un dibattito al quale era stato invitato, a causa i postumi delle ferite provocate da «un sicario di quella classe a cui Lei appartiene». Parole che, anche per essere state rivolte a un imprenditore certo non reazionario, testimoniavano la persistenza di un dubbio di Togliatti circa l’origine di quei colpi di pistola.

La Stampa 23.1.18
Erdogan, l’attacco contro i curdi in Siria sfida l’occidente
di Gianni Vernetti


Pochi giorni fa alla Stanford University, il segretario di Stato Rex Tillerson ha annunciato la scelta di mantenere una presenza militare americana nel Nord della Siria a tempo indeterminato per combattere Isis e Al-Qaeda e per limitare l’influenza crescente dell’Iran in Medio Oriente. Non solo. Tillerson ha anche aggiunto che le sette basi americane installate nel Rojava curdo dalle forze speciali diventeranno permanenti. Un cambio di rotta radicale, dunque, che vede l’amministrazione Usa fissare 5 obiettivi in Siria: sconfiggere in modo definitivo Isis e Al-Qaeda; favorire il cambio di regime e la dipartita di Bashar al-Assad; porre un freno significativo alle ambizioni regionali dell’Iran; creare condizioni di sicurezza ottimali per il ritorno dei rifugiati; eliminare in modo definitivo ogni residuo di armi chimiche. Un’amministrazione americana nuovamente determinata in Medio Oriente che per la prima volta chiede il cambio di regime in Siria e soprattutto indica nell’Iran il vero pericolo per la stabilità regionale. Il disegno della «Mezzaluna iraniana» va fermato, impedendo la continuità territoriale fra milizie al soldo di Teheran e regimi amici dall’Iran al Libano, passando per Iraq e Siria. Per raggiungere questo obiettivo l’alleanza con le milizie curde di «Ypg» nel Nord della Siria era ed è strategica.
Dalla resistenza a Kobane, fino alla caduta ed alla liberazione di Raqqa, le forze speciali britanniche, francesi, americane e canadesi hanno formato e sostenuto un esercito di liberazione (Sdf, le Forze democratiche siriane) composto da una variegata alleanza fra curdi e diverse tribù locali, che sono state i migliori alleati militari sul campo per un Occidente restio a intervenire.
In più, i curdi siriani, veri artefici della sconfitta di Isis in Siria, sono un’oasi di laicità, che ha rappresentato una positiva anomalia in una regione fino a ieri dominata dal Califfato oscurantista di Abu Bakr al-Baghdadi.
Non passano neanche 72 ore dall’annuncio della nuova strategia Usa e la Turchia, lancia l’operazione militare «Ramo d’Ulivo» con l’obiettivo di liberare il cantone di Afrin dalla presenza curda. Afrin è l’enclave curda più orientale in Siria a Nord della città di Aleppo, abitata da oltre duecentomila curdi e decine di migliaia di rifugiati provenienti dalla Siria. Come tutto il resto del Kurdistan siriano, il cantone è governato dalle forze politiche curde e protetto da unità che la Turchia considera gruppi terroristici, contigui al Pkk.
L’offensiva turca è stata realizzata con la «luce verde» di Mosca che manteneva anche un piccolo contingente ad Afrin, prontamente ritirato verso Sud. Ora per l’Occidente si pone più di un problema. I curdi siriani che hanno sconfitto Isis con il sostegno politico e militare dell’America e dell’Occidente vengono attaccati dal secondo esercito della Nato, che vuole espugnare l’enclave di Afrin, e sta estendendo in queste ore la propria azione militare anche in direzione della città di Manbji.
Il premier turco Binali Yildirim ha giustificato l’intervento attaccando persino gli Usa definendoli «nostri presunti alleati» che sostengono le «organizzazioni terroristiche curde». Per Mosca si profila una nuova opportunità: stringere una solida alleanza con la Turchia di Erdogan, e con l’Iran di Rohani in chiave anti-occidentale.
Per l’Occidente è un campanello di allarme che ricorda come non sia più procrastinabile un chiarimento con la Turchia.

Corriere 23.1.18
Grande purga tra arresti e suicidi. Che succede all’Esercito popolare cinese?
Sacchi di soldi e sospetti di golpe I cento ufficiali «eliminati» da Xi
di Guido Santevecchi


Che cosa succede nell’Esercito Popolare di Liberazione cinese? Xi Jinping, presidente della Commissione militare centrale e quindi comandante supremo lo ha riformato, snellito tagliando 300 mila ufficiali e soldati e modernizzato. Ha appena ordinato ai suoi due milioni di uomini e donne di «essere pronti a combattere e a cadere in battaglia». Ma forse Xi ha un grosso problema di catena di comando, forse teme un golpe militare.
Questa storia raccoglie gli annunci ufficiali e le voci che circolano a Pechino. Il 9 gennaio è stato comunicato l’arresto del generale Fang Fenghui, ex capo di stato maggiore, che il 6 aprile 2017 era con Xi al vertice di Mar-a-Lago, con il petto carico di distintivi di comando, seduto a cena accanto a Ivanka Trump e al genero del presidente Jared Kushner. Sorrideva compiaciuto Fang, perché il suo nome circolava nell’elenco delle promozioni ulteriori. A riprova dell’ascesa, il 15 agosto aveva ricevuto a Pechino il collega americano Dunford: tema dei colloqui il coordinamento tra i due eserciti per gestire la crisi nordcoreana. Improvvisamente, pochi giorni dopo, Fang era scomparso e si erano diffuse indiscrezioni sulla sua caduta per corruzione o forse perché coinvolto in una lotta di potere prima del cruciale 19° Congresso del Partito, quello che a novembre ha inserito il «Pensiero di Xi Jinping» nella Costituzione comunista. Ora la conferma dell’arresto per malversazioni: in Cina ci vogliono mesi per queste conferme delicate.
Poche settimane fa si è ucciso il generale Zhang Yang, direttore del Dipartimento politico. Lo hanno trovato impiccato in casa il 23 novembre, la notizia è stata data alla stampa il 29. Si è saputo che il super-generale era soprannominato «Zhang sacco di juta»: vendeva le nomine e pare amasse i contanti, da consegnare in sacchi di tela. Prezzo di listino: 10 milioni di yuan (1,3 milioni in euro) per una promozione a maggiore generale. Ma nella Cina della corruzione endemica pagano la nomina anche i sergenti, meno ma pagano ai superiori e così via salendo nella catena gerarchica, anche chi non ha merito veniva promosso. I generali Fang e Zhang erano stati promossi nel 2010, quando presidente era Hu Jintao e pare che avessero sborsato a loro volta 4 milioni di euro: il sistema allora era organizzato così e Xi lo sta sradicando. Ma perché sei giorni di silenzio prima di rivelare il suicidio di «Zhang sacco di juta»? E perché l’ufficiale si è tolto la vita con una corda segno di tradimento invece che con la pistola d’ordinanza? Altre speculazioni su un coinvolgimento golpista.
L’ultima purga finora è toccata, secondo i giornali di Hong Kong, a Fan Changlong, vicepresidente della Commissione militare. Fan, superiore di Fang e Zhang, sarebbe stato il canale di riferimento degli ufficiali scontenti per la riduzione di organico e la campagna moralizzatrice di Xi.
Secondo una ricostruzione dell’agenzia giapponese Nikkei , che ha ottime fonti a Pechino, Fang sta parlando e denunciando molti commilitoni. E forse ha delineato un tentativo di pronunciamento militare contro Xi e la sua crociata anticorruzione.
Le voci di golpe possono essere esagerate, magari vengono fatte circolare per impressionare il comandante supremo Xi e fermare la sua falce. Ma la Xinhua , in un lunghissimo profilo della Nuova Era di Xi Jinping ha scritto esattamente queste parole: «Dal 2012, sotto la guida del compagno Xi oltre 100 alti ufficiali a livello di comandante di corpo o superiore sono stati puniti: un numero superiore a quello dei generali caduti sul campo di battaglia durante le guerre rivoluzionarie».
Più che il piombo fuso del nemico, secondo le cronache di questi anni, i generali cinesi cercano il denaro. Anche l’oro se possibile: come dimenticare il caso del generale Gu, vicecapo dei servizi logistici dell’Esercito al quale nel 2013 furono travati in casa tra l’altro una statua di Mao in oro puro, lavandini d’oro, un modellino di nave dello stesso metallo, casse di lingotti?
Senza ufficiali fidati e competenti un esercito è una tigre di carta. Ecco perché il 3 gennaio Xi Jinping, in mimetica da combattimento, ha arringato le truppe in videoconferenza con 4 mila guarnigioni dell’impero. Con la crisi nordcoreana alle porte, Xi ha fretta di stringere la catena di comando.

Corriere 23.1.18
«Ambasciata Usa a Gerusalemme per la fine del 2019»
Pence in Israele. Proteste dei palestinesi
di Davide Frattini


GERUSALEMME I riferimenti biblici nel discorso parlano la lingua di un paio di millenni fa. La data più importante citata da Mike Pence è molto più vicina: davanti ai deputati israeliani riuniti alla Knesset per ascoltarlo il vicepresidente americano promette che l’ambasciata a Gerusalemme aprirà entro la fine del prossimo anno.
Dall’aula vengono espulsi i deputati arabi che poco prima hanno esibito tra le urla i cartelli con la scritta «Gerusalemme capitale della Palestina» come a dire: il riconoscimento garantito da Donald Trump agli israeliani — con il forte sostengo di Pence — non ci riguarda. Come non sembra riguardare Abu Mazen che non ha voluto incontrarlo e anzi ha lasciato il palazzo della Muqata a Ramallah per andarsene a Bruxelles, dove ha visto i ministri degli Esteri europei e l’Alto rappresentante Federica Mogherini.
A tutti il presidente palestinese ha chiesto di riconoscere subito la Palestina come Stato, in risposta per ora ha ottenuto la promessa che per l’Unione Europea i quartieri arabi di Gerusalemme andranno a formare la capitale di una futura eventuale nazione.
I palestinesi restano convinti — lo ripete Saeb Erekat, per decenni ne è stato il capo negoziatore — che gli inquilini della Casa Bianca «siano ormai parte del problema più che la soluzione. Quello di Pence è un discorso messianico che servirà come regalo agli estremisti nella regione».
E a tutto il Medio Oriente il vicepresidente americano si rivolge quando assicura «l’Iran non otterrà mai la bomba atomica, l’accordo sul nucleare è un disastro e gli Stati Uniti si ritireranno da questa intesa mal concepita». Parole che si rivolgono anche ai Paesi del Golfo preoccupati dall’espansionismo sciita ordinato dagli ayatollah di Teheran.
L’alleanza con le nazioni sunnite rischia di essere un’opportunità mancata — scrive Shabtai Shavit, ex capo del Mossad, sul quotidiano Haaretz — perché Trump per ora «ha solo offerto una serie di decisioni incoerenti»: «Per mobilitare i sunniti e cacciare la minoranza sciita con i complici russi il presidente deve costringere il governo israeliano a tornare alle trattative» e arrivare alla soluzione dei due Stati. Che Pence dal podio alla Knesset garantisce di voler ancora sostenere.
Il viaggio del vicepresidente americano — che ha fatto tappa anche in Egitto e Giordania — era previsto per la fine di dicembre, con la moglie Karen sarebbe dovuto arrivare nei giorni attorno al Natale per dimostrare la sua vicinanza, da devoto evangelico, alla minoranza cristiana in Medio Oriente. Rinviato per il voto sulla riforma fiscale a Washington, si è trasformato in Israele in una sosta univoca: anche i leader cristiani arabi si sono rifiutati di incontrarlo, il passaggio a Betlemme con la preghiera alla basilica della Natività è stato cancellato.

La Stampa 23.1.18
Abu Mazen guarda all’Europa: “Riconosceteci subito come Stato”
La visita del leader dell’Anp a Bruxelles. L’Ue frena e studia una cooperazione economica
di Marco Bresolin


Abu Mazen è arrivato ieri a Bruxelles con una richiesta ben precisa: «Facciamo appello all’Unione europea affinché riconosca lo Stato di Palestina». E ha usato un avverbio netto: «Rapidamente». Ma dall’altra parte del tavolo la risposta dei 28 ministri non poteva essere positiva: l’Ue ha infatti deciso di lasciare il riconoscimento ai singoli Stati, anche perché non tutti sono sulla stessa linea. Una presa di posizione collettiva, dunque, non ci poteva essere. Ma a Bruxelles il presidente dell’Autorità palestinese ha trovato porte tutt’altro che chiuse.
Tra i 28 ministri degli Esteri Ue - su spinta della Francia -, si sta facendo sempre più strada l’ipotesi di avviare i negoziati per un accordo di associazione tra l’Europa e la Palestina. Il che consentirebbe di evitare il sigillo del riconoscimento ufficiale, ma di fatto - attraverso una forma di cooperazione economica e commerciale - l’Europa tratterebbe la controparte come un vero e proprio Stato. «È una questione di cui non abbiamo parlato oggi - dice Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la Politica Estera Ue -, ma ci sono state discussioni tra Stati membri nelle scorse settimane sulla possibilità di lanciare i negoziati». Se ne riparlerà nelle prossime riunioni. 
Abu Mazen ha motivato la richiesta di pieno riconoscimento, dicendo che «non sarebbe in contraddizione con la ripresa dei negoziati» e che «incoraggerebbe i palestinesi, aiutandoli ad avere speranza nella pace». Ci sono «troppe risoluzioni dell’Onu e del Consiglio di Sicurezza su questo tema - ha aggiunto - che non possono restare solo pezzi di carta».
La missione del leader palestinese a Bruxelles, comunque, aveva un obiettivo molto chiaro: «L’Ue è il nostro più importante partner internazionale e deve giocare un ruolo politico per trovare la giusta soluzione». Da parte europea non c’è alcuna volontà di tirarsi indietro, anzi. Mogherini ribadisce che la posizione sul Medio Oriente è «ferma». Nel senso che è decisa («Questo non è tempo per il disimpegno»), ma anche che non è cambiata: Bruxelles continua a dire che servono due Stati con Gerusalemme capitale condivisa da entrambi.
Proprio dalla Mogherini erano arrivate critiche nette nei confronti dell’amministrazione Trump, dopo l’annuncio legato allo spostamento a Gerusalemme dell’ambasciata Usa in Israele. «Noi non lo seguiremo», aveva ripetuto a dicembre davanti al premier israeliano Benjamin Netanyahu nel corso di una sua visita a Bruxelles. Su questo, a parte il tentennamento di alcuni Stati (Repubblica Ceca in testa), il fronte è rimasto sostanzialmente compatto. Quel che è certo, però, è che un punto di incontro con Trump andrà trovato per risolvere la questione in Medio Oriente: «Gli Usa da soli non ce la possono fare, ma senza gli Usa non ce la possiamo fare nemmeno noi», ammette Mogherini.

Corriere 23.1.18
Kausalya, la vedova dai capelli corti sfida l’India dei delitti d’onore
Amava un intoccabile, la sua famiglia l’ha ucciso. Ha vinto in tribunale: è un’eroina
di Marta Serafini


La storia di Shankar e Kausalya potrebbe tranquillamente essere uscita dalle pagine del primo romanzo di Arundhati Roy, «Il dio delle piccole Cose». Ma, come spesso accade quando si tratta del dolore più grande, quello generato dall’ingiustizia, la realtà è capace di superare la narrativa. Tutto ha inizio nel 2014. Kausalya è figlia di un 38enne imprenditore della casta Thevar, predominante nella regione del Tamil Nadu. Quando lei comunica ai genitori la decisione di diventare una hostess la risposta è secca. «Non se ne parla. Dovresti indossare gonne troppo corte», le dicono. Dopo aver tentato invano di combinarle un matrimonio, mamma e papà costringono la ragazza a iscriversi al college per studiare informatica.
Come racconta la Bbc , Kausalya si annoia. Finché un giorno le si avvicina Shankar, anche lui studente di ingegneria. «Credo di essermi innamorato di te», le dice. Per qualche tempo lei cerca di respingerlo. Sa bene che avere una storia con un intoccabile è impensabile. Shankar è un Dalit, figlio di un contadino, che vive in una capanna in un villaggio della regione. In India la divisione in caste è stata abolita dalla Costituzione nel 1950 ma la discriminazione nei confronti degli intoccabili è ancora radicata. Per oltre un anno, i due si scambiano messaggi su WhatsApp. Poi iniziano a incontrarsi sull’autobus. Non fanno niente, se non parlare dei loro sogni. Nel luglio 2015 il conducente li denuncia alla famiglia di lei. Risultato, Kausalya viene ritirata dal college e a Shankar viene intimato di tenersi alla larga.
Kausalya scappa di casa e il 12 luglio 2015 si sposa con Shankar. I due vanno alla polizia per chiedere protezione dato che gli attacchi nei confronti dei Dalit sono all’ordine del giorno nella regione del Tamil Nadu (solo nel 2016 sono stati 1.291). «Da oggi se ti dovesse succedere qualcosa non considerarci responsabili», dicono i genitori alla figlia. Nel marzo 2016 il padre assolda cinque sicari, per 50 mila rupie. Kausalya e Shan-kar devono morire. «Volevo mandare un messaggio al mondo», confesserà poi alla polizia. Così in una domenica di sole i due ragazzi vengono accoltellati sotto l’occhio di una telecamera a circuito chiuso di un negozio di Udumalpet. Shankar muore, a causa di 34 ferite. Kausalya si salva ma deve subire numerosi interventi.
«Sono stati i miei genitori». Kausalya trova subito la forza di denunciare mamma e papà e al processo testimonia contro di loro. Fino al verdetto, quando nel dicembre 2017 il giudice, con una sentenza esemplare contro i delitti d’onore, condanna a morte i cinque sicari e il padre. Placare il dolore è difficile, quando le consegnano il telefono di Shankar, Kausalya ritrova le chat degli inizi. «Non so cosa dire, se non che mi manchi». «Anche tu». Kausalya tenta il suicidio. Poi reagisce: si taglia i capelli corti, impara a suonare il tamburo «parai», simbolo dei Dalit, partecipa agli incontri organizzati dai gruppi che combattono contro le persecuzioni nei confronti degli intoccabili. È una battaglia che riguarda 200 milioni di per-sone in tutta l’India.
Kausalya non è più sola. Con i soldi del risarcimento ha costruito una casa per la famiglia di Shankar e aperto un centro per gli studenti poveri del villaggio. Da vittima si è trasformata in attivista. «L’amore è come l’acqua non lo puoi fermare», dice oggi agli incontri che organizza. E anche se l’ingiustizia rimane, il dolore è un po’ meno forte.

Corriere 23.1.18
Freud
Il dottore lotta con noi
Debutta stasera la nuova produzione del Piccolo Teatro di Milano
Il regista spiega la chiave per rappresentare antichi e nuovi dolori, successi e fallimenti
Tiezzi porta in scena l’inconscio i suoi sogni e quelli dei pazienti
di Maurizio Porro


La vita è fatta della materia di cui son fatti i sogni, diceva Shakespeare senza smentite. Ma i sogni sono fatti della materia di cui è fatto il teatro, soprattutto quelli offerti dall’inconscio di Freud. Così il cerchio si chiude. Federico Tiezzi è il regista di «Freud o l’interpretazione dei sogni» di Stefano Massini, grande produzione del Piccolo Teatro, gioco di illusioni al quadrato che passa attraverso antichi e nuovi dolori, successi e fallimenti. «Quest’estate mi sono recato alla casa-museo Freud al 19 della Bergasse a Vienna, piena di pezzi d’arte africana. Suonando il campanello un giorno, solo, ho sentito a caldo il dolore e la ferita di chi andava a consultare il professore, passava il cortile col grande albero, saliva la scala al primo piano e si trovava davanti la targa “Dottor Sigmund Freud”. Ma la nostra non è la biografia di un dr. Freud riappacificato e realizzato, ma di uno che pensa e lotta: i rapporti con i pazienti sono come su un ring».
Tiezzi pensa a uno spettacolo molto cinematografico («credo sia il mio primo film»), con tanti setting e del resto, mentre i Lumière esordivano il 28 dicembre 1895, Freud analizzava il primo sogno.
Ma l’arte del cinema, a lungo disprezzata dal professore che rifiutò lauti guadagni, è coeva a quella dell’interpretazione dei sogni. Già nel 1933 un magnifico incubo cartoon, «Topolino e il dottore matto», contiene Hitchcock, Fellini, Lynch e Buñuel. «A questi registi e ad altri ho molto pensato. Il nostro lavoro — dice Tiezzi — è come si svolgesse nella testa di Freud: Massini usa i sogni citati dei pazienti nei libri, ma anche quelli del professore, assai turbato dai rapporti col padre, di cui metto in scena il funerale. Quando lessi Freud da liceale imparai che esiste sempre una scrittura manifesta e una latente, una tesi confermata da Pirandello. La verità è che Freud, amico di Schnitzler e del filosofo Ludwig Biswanger, smascherò i desideri e gli impulsi inconfessabili, mentre Vienna viveva il suo grande Rinascimento».
Si apre il vaso di Pandora. Quando apparve «L’interpretazione dei sogni», il 4 novembre 1899, ecco, in quel momento si spense l’eco dell’ultimo valzer ed iniziava il dolore straziante lancinante del Novecento che doveva per forza trovare rifugio in metafora onirica. «Stop Strauss: Schoenberg compone a soli 25 anni la “Notte trasfigurata” di cui sentiremo alcune note in sala. La Vienna della Belle époque getta la maschera, così si capirà che molti dolori sono allevati in famiglia, perché non sempre l’uomo riesce a stare al passo con le richieste della società». Il prof. Freud rivoluzionario o reazionario? Rimandiamo il tema alla prossima puntata, ma vediamo il poster culturale che ha in testa il regista per uno spettacolo che, forse, sarà esso stesso un sogno vagante, acchiappato in platea come nel Nolan di «Inception». Allora, calendario alla mano: nel 1899 Schnitzler e Klimt hanno 37 anni, Richard Strauss 35, Von Hofmannsthal e Kraus 25, Musil 19; aggiungerei, altre latitudini, che Poe era morto da 50 anni, Joyce aveva 17 anni e Proust, amatissimo dalla «setta» Tiezzi-Lombardi, ne aveva 28 e solo nel ’13 apparirà la «Recherche», anche quello un immenso sogno.
«Lo spettacolo sarà la scoperta del linguaggio che ha rivoluzionato la vita e l’arte fornendo la chiave dell’interpretazione del mondo; ma anche un romanzo di formazione e la conferma che cinema e teatro vivono di una drammaturgia onirica, tanto che Freud studiò Ibsen e “Rosmersholm”. I sogni sono di Sigmund, citati da Freud, ma anche di Stefano Massini, egittologo consapevole che l’onirocritica è antica quando il mondo: i sogni sono nostri, è un patrimonio comune». Tra questi, quelli doc, del prof., riguardano la moglie Martha e il padre, suoi nervi scoperti. In uno poi c’è un uomo che si trova al gelo con alcune lucertole (i suoi pazienti?) e le sfama coi frutti di un albero di cui conosce chissà come il nome latino... ma a tutto c’è spiegazione. Lo sapeva Hitchcock che, nella «Donna che visse due volte», conta sul tronco gli anni della vecchia quercia. Lo sapeva Huston, che incaricò Sartre di scrivere la sceneggiatura del film sul professore: lo scrittore visse in empatia con Freud, si battè a lungo contro se stesso, però alla fine non se ne fece nulla, ma «I sequestrati di Altona» saranno poi il vero risultato freudiano.
«Così gli attori-pazienti, in analisi allo Strehler fino all’11 marzo anche nei week end, lottano con Freud, si riflettono in lui in una polifonia di allucinazioni, voci, tormenti, estasi di uomini senza qualità e senza maschera. Il teatro è sollievo, cura e non guarigione». Tutti in costume storico, ma attaccati all’àncora della contemporaneità: Fabrizio Gifuni, seduto sul titolo, è Freud, lui che sa accendere campi magnetici in platea, ma c’è un cast formidabile, 14 attori con Elena Ghiaurov, Marco Foschi, la Toffolatti, Maccagno, Ceriani e Giovanni Franzoni che, reduce dall’en plein nevrotico di Oscar Wilde, vive un atroce complesso di colpa per la morte dei fratelli.
Ma chi sarà il Freud di Tiezzi, di cui è uscito un volume Ubu con tutti i pezzi di Franco Quadri, che ha cominciato con lo spettacolo «Crollo nervoso» e voleva laurearsi con tesi su Bosch? «Sarà uno di noi che interpreta, riflette, pensa, trascrive sul taccuino, fa sdraiare sul lettino; ma anche un cercatore, un pellegrino sempre in dubbio sugli esiti della ricerca che boxa con i suoi pazienti».

Corriere 23.1.18
Freud
La sua ricerca ideale per il cinema
Lo psicanalista Lingiardi: «I film oggi sono complementi didattici»
Ma il prof disse no a Hollywood
di Giuseppina Manindi


Sapeva che sarebbe stato un viaggio «pericoloso». Si trincerava dietro la paura delle malattie, del clima, ma in realtà Roma lo angosciava per ben altro, qualcosa che riguardava il profondo. E difatti Roma, in quei miti giorni di fine settembre del 1907, aveva in serbo per Sigmund Freud due incontri fatali: con il bassorilievo di Gradiva, che lo spinse a indagare nuovi baratri della psiche, e con quella nuova arte chiamata cinema. In piazza Colonna, su uno schermo all’aperto Freud vide i primi filmini, comiche del muto che lo lasciano «ammaliato».
Non a caso, cinema e psicoanalisi sono fratelli gemelli. Nati lo stesso anno, il 1895, quando a Vienna Freud pubblica i primi studi sull’isteria e a Parigi i fratelli Lumière mostrano in pubblico il primo film, 45 secondi in bianco e nero tremolante sull’uscita delle operaie dalle officine Lumière. Un doppio sogno costruito su evidenti affinità — immagini in movimento, oscurità, voyeurismo — destinato a infiniti intrecci futuri. La rassegna di psico-film curata da Maurizio Porro, dal 5 febbraio al 12 marzo all’Anteo, offrirà occasioni per meditarci su.
Ma se Freud restò incantato alla sua prima visione romana, non altrettanto accadde quando Hollywood lo interpellò. Nel 1924, pur trovandosi in ristrettezze economiche, rifiutò i 100mila dollari offerti dalla MGM per collaborare alla stesura di copioni su storie d’amore tra personaggi famosi, a partire da Antonio e Cleopatra. Due anni dopo altro invito, altro rifiuto. Sebbene stavolta la richiesta fosse più sensata, supervisionare la sceneggiatura de I misteri dell’anima di Pabst , primo film sulla psicanalisi, Freud si ritrasse indignato. «Non voglio aver nulla a che spartire con storie del genere» scrisse a Karl Abrahm, presidente della Società Psicanalitica, che prima tentò di convincerlo e poi accettò di collaborare lui stesso al film. E questo provocò la rottura tra i due.
«Freud non odiava il cinema, la sua diffidenza era verso un cinema che voleva raccontare la psicoanalisi — assicura Vittorio Lingiardi, psicanalista appassionato del grande schermo —. Ma detta con il senno di poi, aveva torto. Vera “fabbrica dei sogni”, il cinema tra tutte le arti visive ha dimostrato di essere la più adatta a raccontare la vita psichica».
Tanto che oggi alcuni film vengono adottati come complemento didattico nelle università. «Se una volta si portavano gli studenti a vedere le isteriche alla Salpêtrière, oggi si mostrano i meccanismi della psiche attraverso i paesaggi del cinema». Per esempio? «Se voglio parlare della fragilità analitica proietto Blue Jasmine di Woody Allen, mentre Natural Born Killer è un trattato sulla personalità antisociale. E niente come l’ Inquilino del terzo piano di Polanski spiega, complice Topor, come nasce il delirio psicotico».
E poi viene Hitchcock. « Psyco per me è il primo vero film psicanalitico. Hitch semplifica molto, ma sa trattenere i tre elementi chiave della psicanalisi: il trauma, la rimozione, la catarsi. Capisce che la psicanalisi al cinema è un successo, la usa per costruire il plot». Altro discorso per Woody Allen: «Maestro nel raccontare le nevrosi quotidiane, meglio le sue, con quel tocco di ironia necessaria per trasformare il dramma in commedia». Ma se Hitch piega la psicologia al cinema e Allen stende il cinema sul lettino, che fa Cronenberg? «La affronta dal punto di vista del paziente, dentro i più oscuri pertugi della mente». Impossibile scordarsi di Bergman e Buñuel. «Il primo usa la psicanalisi per sfiorare la metafisica, il secondo ne recupera la forza eversiva originaria». Ma il più psy di tutti resta Fellini. «Il più visionario. Jung, “lo scienziato veggente”, è il suo compagno di viaggi onirici». Ne resta ancora uno, Lars von Trier. « Melancholia è il poema della depressione, Nymphomaniac il film impossibile sulla sessualità femminile. Due buchi neri della psiche illuminati dalla forza emotiva del cinema».

Corriere 23.1.18
Schnitzler, Klimt, Loos Così Sigmund irruppe nel biennio della svolta
di Claudia Provvedini


Lo spostamento della data di uscita dell’«Interpretazione dei sogni» dal 1899 al 1900 fu un desiderio del suo autore, Sigmund Freud. Quella, per così dire, rimozione era però in lui tutt’altro che inconscia: volle che il suo nome aprisse il ‘900. «È impressionante la consapevolezza che Freud aveva del valore epocale di quel libro», rileva Mara Fazio, docente di Teatro e Spettacolo moderno e contemporaneo alla Sapienza di Roma, che con «La Vienna di Freud» ha aperto gli incontri attorno alla nuova produzione del Piccolo Teatro. «E in quel punto di svolta tra i due secoli, si addensarono ingegni e opere tali da rendere la capitale dell’impero austro-ungarico rivale di Parigi e Londra. Non mi pare si possa dire altrettanto dell’Europa nel passaggio tra XX e XXI secolo, se non per la tecnologia». Fu a Vienna, il ‘99-00 un prodigioso biennio. «Nello stesso anno scelto da Freud, il 1900, un altro ebreo viennese, Schnitzler, che aveva studiato alla Scuola di medicina ed era stato medico prima che scrittore, nel racconto I l Sottotenente Gustl introduce nella letteratura di lingua tedesca il monologo interiore, poi ripreso nella Signorina Else , ragazza nevrotica e forse isterica». Tra i due ci fu rivalità? «Piuttosto si trattò di sintonia intellettuale e condivisione di uno stesso clima culturale che stimolava la curiosità scientifica nei confronti della mente e delle emozioni. L’anno 1900 vide anche completate da Otto Wagner le stazioni ferroviarie». Quelle che i viennesi, non amandole per la struttura nuda, chiamavano «le gabbiette». «E un altro architetto, Adolf Loos, scrisse Ins Leere gesprochen , Parole nel vuoto, in cui attaccava la Neue Secession, corrispettivo dell’Art Nouveau». Se invece Freud avesse lasciato come data il 1899… «Si sarebbe trovato a condividerla con il quadro Nuda Veritas di Klimt, nudo femminile con chioma rossa trapunta di margherite. E con la IV Sinfonia in Sol maggiore di Mahler che a Vienna aveva appena diretto la II. E ancora con Verklaerte Nacht , Notte trasfigurata di Arnold». In quell’anno però si manifestarono anche attacchi alla psicoanalisi. «Quelli di Karl Kraus sulla sua rivista satirica Die Facke l». E già nel 1901, contro la «grande scienza dei segni» si rivoltò Hofmannsthal: nella «Lettera di Lord Chandos» dubita della possibilità della parola di trascrivere il preverbale, oggetto del lavoro analitico. Forse il desiderio di Freud di scegliere l’anno 1900 scaturì da un sogno premonitore .