il manifesto 23.1.18
La grande diseguaglianza della società servile
Povertà
globale. Il Rapporto Oxfam fotografa non solo le vette, straordinarie
nel 2017, della ricchezza ma guarda il mondo anche dalle profondità
globali degli abissi sociali
di Marco Revelli
L’ultimo
rapporto Oxfam sullo stato sociale del pianeta è piombato come un pugno
sul tavolo dei signori di Davos. Dice che l’1% della popolazione
mondiale controlla una ricchezza pari a quella del restante 99%. E
questo lo riportano tutti i media. Ma dice anche di più. Dice, per
esempio, che tra il marzo del 2016 e il marzo 2017 quell’infinitesimo
gruppo di super-privilegiati (un paio di migliaia di maschi alfa, meno
di 1 su 10 sono donne) si è accaparrato l’86% della nuova ricchezza
prodotta, mentre ai 3 miliardi e 700 milioni di donne, uomini e bambini
che costituiscono il 50% degli abitanti della terra non è andato nemmeno
un penny (alla faccia della famigerata teoria del trickle down, cioè
dello “sgocciolamento” dei soldi dall’alto verso il basso). Dice anche
che lo scorso anno ha visto la più grande crescita del numero dei
miliardari nel mondo (all’incirca uno in più ogni due giorni). E
dell’ammontare della loro ricchezza: 762 miliardi, una cifra che da
sola, se redistribuita, permetterebbe di porre fine alla povertà estrema
globale non una ma sette volte!
E poi dice, soprattutto, che
quella mostruosa accumulazione di ricchezza poggia sul lavoro povero,
svalorizzato, umiliato di miliardi di uomini e soprattutto di donne, e
anche bambini. E’, biblicamente, sterco del diavolo.
Anzi, non si
limita a dirlo con l’aridità delle statistiche, confronta anche le vite
dei protagonisti: quella, per esempio, di Amancio Ortega (il quarto
nella classifica dei più ricchi), padrone di Zara, i cui profitti sono
stati pari a un miliardo e 300 milioni di dollari, e quella di Anju che
in Bangladesh cuce vestiti per lui, 12 ore al giorno, per 900 dollari
all’anno (quasi 1 milione e mezzo di volte in meno) e che spesso deve
saltare il pasto.
È QUESTA LA FORZA del rapporto Oxfam di
quest’anno: che non si limita a guardare il mondo sul suo lato “in alto”
– a descriverne il luminoso polo della ricchezza -, ma di misurarlo
anche “in basso”. Di rivelarci la condizione miserabile e oscura del
mondo del lavoro, dove uno su tre è un working poor, un lavoratore
povero, in particolar modo una lavoratrice povera. E dove in 40 milioni
lavorano in “condizione di schiavitù” o di “lavoro forzato” (secondo
l’ILO “i lavoratori forzati hanno prodotto alcuni dei cibi che mangiamo e
gli abiti che indossiamo, e hanno pulito gli edifici in cui molti di
noi vivono o lavorano”).
IL SISTEMA ECONOMICO globale, plasmato
sui dogmi del neo-liberismo – l’unico dogma ideologico sopravvissuto –
si conferma così come quella maga-macchina globale (descritta a suo
tempo perfettamente da Luciano Gallino) che mentre accumula a un polo
una concentrazione disumana di ricchezza produce al polo opposto
disgregazione sociale e devastazione politica (consumo di vita e consumo
di democrazia). Allungando all’estremo le società, espandendo
all’infinito i privilegi dei pochi, anzi pochissimi, e depauperando gli
altri, erode alla radice le condizioni stesse della democrazia. La
svuota alla base, cancellando il meccanismo della cittadinanza stessa:
da società “democratiche” che eravamo diventati (di una democrazia
incompiuta, parziale, manchevole, ma almeno fondata su un simulacro di
eguaglianza) regrediamo a società servili, dove tra Signore e Servo
passa una distanza assoluta, e dove al libero rapporto di partecipazione
si sostituisce quello di fedeltà e di protezione. O, al contrario, di
estraneità, di rabbia e di vendetta: è, appunto, il contesto in cui la
variante populista e quella astensionista si intrecciano e si potenziano
a vicenda, come forme attuali della politica nell’epoca
dell’asocialità.
IN REALTÀ NESSUNO dei suggerimenti che il
Rapporto avanza figura nell’agenda (quella vera, non gli specchietti per
le allodole) dei governi di ogni colore e continente: non la tassazione
massiccia delle super-ricchezze così da ridurre il gap (anzi, le flat
tax che vanno di moda stanno agli antipodi), né la riduzione degli
stipendi dei “top executives”, per ridurli almeno a un rapporto di 1 a
20 rispetto al resto dei dipendenti; men che meno la promozione delle
rappresentanze collettive dei lavoratori, o la riduzione del precariato.
Figurano, certo, nel démi-monde della politica governante,
preoccupazioni formali, dichiarazioni d’intenti o di consapevolezza,
promesse e moine, puntualmente e platealmente smentite dalla pratica
(Oxfam porta gli esempi della Banca mondiale e del Fondo monetario
internazionale, che mentre denunciano i pericoli del dumping salariale o
dell’evasione appoggiano evasori e tagliatori di buste paga e di teste,
e naturalmente di Donald Trump, che mentre lisciava il pelo ai blue
collar riempiva la propria amministrazione di multimiliardari e di
uomini delle banche).
COME DIRE CHE L’IPOCRISIA è diventata la
forma attuale della post-democrazia. E che con questo qualunque sinistra
che voglia rifondarsi non può non fare i conti.