Repubblica 22.1.18
Reza Pahlavi:
“L’Iran sarà la miccia per il cambiamento in tutta la regione”
di Francesca Caferri
ROMA
«Al mondo dico di non dimenticare l’Iran e quello che è accaduto e sta
accadendo ancora. Le rivolte a cui abbiamo assistito a dicembre
dimostrano che il genio è uscito dalla bottiglia: che la gente non si
sta più chiedendo qual è il candidato meno peggiore fra quelli a cui il
regime ha consentito di correre. Ma quando e come può far cadere il
regime. Sarà un elemento che avrà effetti in tutta la regione e anche in
Europa. Faccio un esempio: l’Iran sta vivendo una serissima crisi
idrica e se non ci saranno risposte migliaia di persone saranno
costrette a fuggire. E andranno in Europa.
Ma il regime non ha
risposte. Per questo l’attenzione va tenuta alta». Con la visita del
vicepresidente americano Mike Pence in Medio Oriente, lo sguardo del
mondo torna a posarsi su Gerusalemme, la città contesa da palestinesi e
israeliani il cui destino, solo qualche settimana fa, sembrava essere
decisivo per le sorti della regione. Ma dopo qualche tensione, la crisi
sulla Città Santa si è placata e ad accendersi è stato invece l’Iran.
Del
fatto che sarà proprio dall’antica Persia che si leverà la scintilla
che cambierà gli equilibri del Medio Oriente Reza Pahlavi, figlio dello
Scià costretto alla fuga dalla rivoluzione khomeinista del 1979, erede
di una monarchia con una storia lunghissima, è più che certo.
Signor
Pahlavi, la rivolta in Iran si è placata. Di più: dopo la prima fase,
contenere le proteste è stato per il regime relativamente semplice. Come
fa a dire che quello che è accaduto è centrale?
«Lo dico perché
per la prima volta in Iran la gente ha chiesto in modo chiaro la fine
del regime. E il fatto che la protesta sia stata repressa non cambierà
questo elemento. C’è un doppio fattore alla base di quello che è
accaduto: l’insostenibile situazione economica, che non lascia speranze
ai giovani, e la mancanza di ogni speranza nella politica. La situazione
non tornerà normale, questa crisi non sparirà».
Perché?
«Perché
non c’è stata una parte del Paese che non sia stata interessata dalle
proteste. Perché per la prima volta alcuni membri dei basiji hanno
scelto di stare dalla parte della gente. Perché c’è corruzione e
mancanza di speranza e nessuna risposta possibile da parte di questo
regime».
Il presidente Trump ha scelto di appoggiare le proteste
ma di non fare un ulteriore passo indietro dall’accordo sul nucleare:
Lei è d’accordo?
«Io credo che alcune delle politiche che questa
Amministrazione ha ereditato non debbano necessariamente essere stabili.
Credo che alcune cose possano essere cambiate.
Che delle sanzioni
più forti, mirate su determinati settori o determinati personaggi
possano funzionare. Il regime non si sarebbe neanche seduto al tavolo
delle trattative sul nucleare se non ci fossero state le sanzioni».
Ma anche la gente pagherebbe un prezzo...
«Gli
iraniani sono pronti a stringere la cinghia se questo può portare alla
fine del regime. Ma dobbiamo essere certi che ci sia un impegno in
questa direzione, e non solo in quella del dialogo con il regime».
Lei
è in esilio da decenni e molti iraniani non hanno un buon ricordo di
suo padre: fu accusato di corruzione, di aver dimenticato i bisogni
della gente. Crede che i Pahlavi possano ancora avere un ruolo, possano
parlare per gli iraniani?
«Sono in costante contatto con l’Iran.
Tanti giovani mi considerano un punto di riferimento, qualcuno che non
ha mai collaborato con questo regime e di cui ci si può fidare. Ma non è
sul mio ruolo che mi concentro ora, ma sul Paese».
Che contributo potrà dare la diaspora a questo futuro?
«Dovremo
avere pronti dei piani per la transizione per quando il regime cadrà.
Dovremo capire come e dove indirizzare i soldi, occuparci delle
questioni più urgenti e cercare di attrarre investimenti stranieri. La
diaspora ha le risorse per rispondere su questi temi».