venerdì 19 gennaio 2018

Repubblica 19.1.18
Scalfari
Di che cosa stiamo parlando
“La mia non è vanità e De Benedetti non ha fondato questo giornale”
intervista di Francesco Merlo


In una intervista a Otto e mezzo, Carlo De Benedetti, presidente onorario del gruppo che edita questo giornale, ha attaccato il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari («ha problemi di vanità, è molto anziano e ingrato nei miei confronti») e il quotidiano stesso: «Ha perduto l’identità». Tra Scalfari e De Benedetti c’era già stato un primo scambio di battute quando il giornalista, rispondendo a una domanda in tv, aveva spiegato di preferire Berlusconi a Di Maio
In tv disse: «Me ne fotto». Ora mi dice: «Non è vero che me ne fotto». Quella è stata l’espressione goliardica che Eugenio Scalfari ha consapevolmente usato, non per evadere ma per alleggerire «una situazione molto spiacevole». La vaga parolaccia, che ammiccava al suo contrario, gli era insomma servita per far sapere che la fine dei rapporti con Carlo De Benedetti gli dispiaceva, ma che era saggezza non compiacere gli sciacalli. E invece l’altro ieri Carlo De Benedetti ha detto in tv da Lilli Gruber di essere stato cofondatore di Repubblica e dunque Scalfari «è un ingrato che con me dovrebbe star zitto perché gli ho dato un pacco di miliardi». Ha aggiunto che Scalfari «parla per vanità» e che «è un signore molto anziano non più in grado di sostenere domande e risposte».
Caro Eugenio, sei rimbambito?
«Sono arrivato a un’età, tra i novanta e i cento, che non è più quella dei vecchi né dei molto vecchi, ma quella dei vegliardi.
Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli».
E quanto sei vanitoso? De Benedetti ha detto che quella tua battuta su Berlusconi che, come alleato della sinistra sarebbe meglio di Di Maio, è dovuta alla tua vanità.
«È un giudizio politico che si può non condividere. Ma il vanitoso è chi si gloria di qualcosa che ha fatto o peggio non ha fatto; chi si attribuisce meriti che non ha. Che cosa c’entra la vanità con la scelta tra Berlusconi e Di Maio? Mi spiace dirlo, ma è invece da vanitoso definirsi fondatore di un giornale che non hai né fondato né cofondato».
Davvero non c’è De Benedetti tra i fondatori di Repubblica?
«No. I soldi che diede non legittimano la parola fondatore. E aggiungo che è la prima volta che glielo sento dire. Repubblica è figlia dell’Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri».
Quanti soldi mise?
«Per far nascere Repubblica io e Caracciolo avevamo bisogno di cinque miliardi di lire. La Mondadori ne mise la metà.
L’altra metà toccava a noi, ma non ce l’avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l’altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: “Non lo racconti mai a nessuno” (allora ci davamo del lei). E infine: “Non lo racconti, ma non lo dimentichi”. E io non l’ho dimenticato”.
Vuoi dire che gli sei stato grato?
«Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine.
Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica ».
Dice che il gruppo senza di lui sarebbe tecnicamente fallito.
«C’è stato un momento in cui avevamo fatto supplementi belli e costosi, tra cui “Mercurio” diretto da Nello Ajello. Ci eravamo indebitati e avevamo l’acqua alla gola. Ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie.
Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu».
È questo il pacco di miliardi che dice di averti dato?
«Fu un affare per lui che divenne il proprietario di Repubblica».
Ne divenne l’editore.
«Quello dell’editore è un mestiere che non ha mai fatto. È stato l’amministratore dei suoi beni.
Oltre a Repubblica aveva un patrimonio personale molto ragguardevole».
Dice di avere avuto da Repubblica solo uno status di grande prestigio, ma di averci perso danaro.
« Repubblica è stato, nel lungo periodo in cui la parola scritta su carta non era in crisi né in edicola né in libreria, un giornale che vendeva quanto e in certi momenti più del Corriere. E quando il Corriere fu conquistato dalla P2 guidata dal presidente del Banco Ambrosiano, la nostra superiorità divenne schiacciante.
Piero Ottone, che aveva diretto per 5 anni il Corriere, se ne andò e venne alla Mondadori che era per metà proprietaria di Repubblica.
Poco dopo passarono con noi giornalisti del valore di Bernardo Valli e di Enzo Biagi. Insomma, Repubblica era il meglio della stampa italiana. E quando dunque De Benedetti ne divenne il proprietario esclusivo non prese certamente un baraccone che perdeva soldi. Repubblica ha fatto attivi economici molto significativi. Ed è sicuro che De Benedetti non ci rimise. Aprimmo redazioni di cronaca nelle principali città d’Italia, acquisimmo e fondammo giornali locali. E devo aggiungere che l’espansione del gruppo prova che De Benedetti reinvestiva nel giornale quei suoi profitti, almeno in parte».
Non ci ha perso, ma non si è arricchito con Repubblica.
«La sua abilità di finanziere gli ha consentito di vivere da ricchissimo. E bastino a dimostrarlo la strepitosa villa che ha in Andalusia e il grande yacht con cui fa le crociere in giro per il mondo. Il suo fiuto in Borsa è noto a tutti. E infatti, adesso che ha regalato le sue azioni ai figli, gli sono rimaste tutte le grandi ricchezze personali».
Non ha più neanche un’azione, ma è il presidente onorario del gruppo.
«Una carica più che giustificata, visto che è stato proprietario di questo giornale senza mai tentare di piegarne la linea politica ai suoi interessi. Non l’ha fatto. Io so che non ci sarebbe riuscito perché l’indipendenza di Repubblica è stata sempre garantita dalla forza della direzione, dalla libertà e dal prestigio delle sue firme e di tutti i suoi giornalisti, e dal successo in edicola. De Benedetti è stato rispettoso di questa libertà.
Diciamo che l’ha onorata. E però non so se quel che adesso va dicendo in tv e sui giornali sia compatibile con la carica di presidente onorario, non so se la onori».
Dice che Repubblica ha perso la sua identità perché è stato sempre un giornale politico che anticipava e imponeva la politica all’Italia, e adesso invece la subisce.
« Repubblica non è stato solo un giornale politico. È stato un giornale diverso da tutti gli altri perché ha mostrato che in un giornale tutto è cultura, ha cambiato il linguaggio della cronaca e dello sport, ha fatto scorrere in ogni riga il sangue di un’Italia che sia per me e sia per Ezio Mauro è riassumibile in uno slogan di due parole: Giustizia e libertà. Oggi Repubblica vive la crisi dei giornali di carta, e cerca con coraggio nuove strade, sperimenta, si rinnova, scommette sul futuro ma non è vero che ha perduto l’identità e che non aggredisce la politica.
Non solo io ne sono la prova e la garanzia. Ci sono i suoi giornalisti e c’è il direttore che, lo ricordo con un sorriso, è stato scelto da Carlo De Benedetti. Lui sì, sta aggredendo l’identità del giornale di cui, come ho già detto, era stato a lungo il rispettoso proprietario».
Perché lo fa?
«Credo che quell’accusa di avere speculato grazie alle informazioni riservate ottenute da Renzi abbia avuto un ruolo importante nel suo cattivo umore».
Prima ancora che venisse diffuso il testo di quell’intercettazione con il suo broker, De Benedetti aveva già rilasciato un’intervista al Corriere criticando sia te e sia la direzione di Repubblica.
«Dopo la mia battuta su Berlusconi e Di Maio mi aveva mandato un biglietto per farmi sapere che non condivideva nulla di quel che avevo detto perché lui non avrebbe mai scelto né Berlusconi né Di Maio. Io non gli ho risposto».
Crisi di astinenza?
«Quando morì Caracciolo col quale ci sentivamo ogni domenica, De Benedetti mi propose di sostituirlo in quella telefonata settimanale. All’inizio telefonava molto presto, alle 6. Ma io la domenica mattina amo dormire un po’ di più. E dunque gli chiesi di sentirci alle dieci».
Di che parlavate?
«Mai del giornale. Parlavamo di politica e mai mi ha detto o mi ha fatto capire di avere speculato grazie a informazioni riservate che gli passavano gli uomini politici. Ricordo che gli piaceva Renzi e che, poi, quando cambiò idea, mi disse che non lo frequentava più. Qualche volta dissentivamo e alla fine immancabilmente mi diceva: “ma noi restiamo fratelli lo stesso”. Io ovviamente consentivo.
Evidentemente non era così».
Lui parla di matrimonio monogamico. Spiega che quello con Repubblica è indissolubile, dice che ama ancora Repubblica e che l’amerà per sempre.
«La ama, ma vuole liberarsene. La ama come quegli ex che provano a sfregiare la donna che hanno amato male e che non amano più».