Il Fatto 19.1.18
Ingegnere, si sbaglia: i politici oggi se ne fregano dei giornali
di Antonio Padellaro
Può
essere declinata in diverse forme teatrali la strepitosa intervista
dell’Ing. Carlo De Benedetti a Lilli Gruber, mercoledì sera a Otto e
mezzo. Tragedia shakespeariana, a proposito del trattamento subìto dai
figli irriconoscenti e dell’“assenza” di rapporti con gli odierni
possessori dell’amatissima Repubblica (“Quanto è più crudele del morso
di un serpente l’ingratitudine di un figlio”. Re Lear). Fosco
melodramma, a proposito del “salvataggio dal fallimento” dell’adorato
giornale, ricompensato con le insolenze dei comunicati aziendali e del
cdr (“Questa donna pagata io l’ho”. Alfredo nella Traviata di Giuseppe
Verdi).
Spassoso vaudeville, a proposito degli scazzi con l’altro
grande vecchio Eugenio Scalfari, “un ingrato che deve solo stare zitto,
non in grado di sostenere domande e risposte” (Walter Matthau furioso
con George Burns, nell’interpretazione di una coppia un tempo celebre a
Broadway: “Mi sputava addosso saliva approfittando di parole come
spavento, spremuta, spigolatura senza contare le ditate con cui mi
percuoteva il petto”. I ragazzi irresistibili di Herbert Ross). Questo
diario, tuttavia, si occupa di campagna elettorale e dunque da quel
fiammeggiante confronto ci limiteremo a cogliere gli aspetti più
pertinenti con l’attualità politica. Per esempio, la critica verso chi
oggi è al timone del quotidiano prediletto (“Repubblica sta cambiando la
sua identità e non fa più politica: d’altronde se uno il coraggio non
ce l’ha…”). Per esempio, la totale disistima nei confronti del candidato
premier 5Stelle, Luigi Di Maio (“un disastro, l’incompetenza al potere,
un poveraccio”). Due affermazioni che in qualche modo si completano.
De
Benedetti evidentemente prova nostalgia per i bei tempi andati, di
quando non solo Repubblica “faceva politica” ma si parlava apertamente
di un “partito di Repubblica” che faceva e disfaceva governi. Eppure
alla guida suprema di un giornale così temuto c’era quel medesimo
Scalfari che ora egli così apertamente disistima, non cordialmente
ricambiato. Le riunioni di redazione nelle quali il Fondatore metteva in
viva voce le telefonate dei leader del tempo, da Ciriaco De Mita a
Giovanni Spadolini, bramanti l’autorevole copertura di una corazzata che
allora navigava in un mare di copie, sono diventate leggenda. Erano gli
anni 80 e 90, quando ancora la grande stampa aveva l’ambizione di
informare e formare la pubblica opinione. Testate temute dalle varie
articolazioni del potere, e consapevoli del danno che avrebbe loro
procurato presso i lettori l’apparirne invece i caudatari. Oggi la crisi
galoppante dell’editoria è insieme la causa e l’effetto della crisi di
credibilità e di “identità”. Soprattutto quando si scrive di politica e
di politici nella (ex) grande stampa in genere si preferiscono le tinte
sfumate, sfocate ai titoli forti magari faziosi ma decisi. Un po’ come
quel personaggio di un film di Woody Allen che il regista inquadra ma
non riesce mai a mettere a fuoco nell’obiettivo. Dunque, caro Ingegnere,
conseguenza della perdita di identità (e di copie) è che il Di Maio
(incompetente o meno) può, mi perdoni, riccamente fregarsene di ciò che
dicono di lui i giornali.
Poiché oggi il consenso elettorale segue
altri invisibili percorsi, solo minimamente influenzati da un commento
in prima pagina di un direttore (o di un editore). Non si spiegherebbe
altrimenti la crescita tumultuosa del M5S che fino al boom del 2013 era
oggetto di cronaca giornalistica quasi esclusivamente per i Vaffa di
Beppe Grillo. Del resto, come si poteva dare credito a un comico? Oggi
il “coraggio” semmai consisterebbe nello spiegare come mai un giovanotto
digiuno di congiuntivi e forse anche di economia (ma dalla fedina
penale pulita) raccolga il favore di alcuni milioni di cittadini
italiani. Che non possono essere tutti degli ignoranti o degli
sprovveduti o dei poveracci (anche se non leggono Repubblica).