Il Fatto 19.1.19
Tutti contro tutti, ma a fianco di B. Così crolla il mondo “Repubblica”
Dalla tregua con il Cavaliere nel 2011 alle faide personali tra De Benedetti e Scalfari
di Stefano Feltri
Carlo
De Benedetti contro Eugenio Scalfari e la loro Repubblica, Repubblica
contro Carlo De Benedetti, Scalfari che “se ne fotte”, Matteo Renzi che
ha discusso del decreto di riforma delle banche popolari con
l’Ingegnere-finanziere prima dell’approvazione e prima di una
plusvalenza da 600.000 euro si trova a essere solo un comprimario di
questa “patetica fine di un regno”. La definizione arriva dal sito
Blitzquotidiano fondato da Marco Benedetto, amministratore delegato del
Gruppo Espresso fino al 2008. Si può cercare di dare a questo dramma una
dimensione economica: dal 9 gennaio, quando sono uscite le trascrizioni
di De Benedetti che parla con il suo broker e ordina di comprare titoli
di banche popolari perché passerà un decreto (“ho parlato con Renzi”),
il titolo di Gedi, nuovo nome del Gruppo Espresso, è sceso del 6 per
cento mentre l’indice Ftse Mib della Borsa saliva del 2. Ed è già
svanito ogni beneficio di vendite che Repubblica aveva ottenuto dalla
nuova grafica, lanciata il 22 novembre scorso, secondo l’analisi dei
dati sulla diffusione pubblicata sempre da Blitzquotidiano: 163.238
copie vendute in ottobre, 165.004 in novembre, una differenza di sole 2
mila copie nonostante il primo giorno della nuova grafica, meno urlata e
più elegante, le vendite siano salite di 100.000 copie.
Ma in
questa “fine di un regno” si intrecciano vari piani: rancori personali,
faide finanziarie, ma anche la crisi politica e culturale di un’area che
si è sempre specchiata in Repubblica. Le dinamiche personali sono le
più semplici. Nel 2009 Carlo De Benedetti, che è del 1934, lascia tutte
le cariche operative del gruppo che controlla tramite la holding Cir.
Una frizione coi creditori sul riassetto proprio di Cir diventa
l’occasione per avviare un passaggio generazionale. La proprietà va alla
società che oggi si chiama Fratelli De Benedetti, cioè Rodolfo
(all’epoca impegnato a preparare il disastro della società energetica
Sorgenia) e Marco, manager con una carriera autonoma (poi c’è Edoardo,
che fa il medico in Svizzera). De Benedetti tiene soltanto la presidenza
del Gruppo Espresso per poter nominare il direttore di Repubblica. Fila
tutto liscio finché non deve esercitare questo potere, nel 2016. Dopo
vent’anni Ezio Mauro lascia. Ma l’assetto del gruppo è cambiato: è
iniziata la fusione con Itedi, la società editoriale degli Agnelli (La
Stampa e Il Secolo XIX). Alla fine De Benedetti acconsente al direttore
caldeggiato da John Elkann, nuovo socio del gruppo col 4,63 per cento:
Mario Calabresi, all’epoca direttore de La Stampa e con un passato a
Repubblica. L’Ingegnere se ne pente presto, per scelte editoriali e
risultati di vendite, un anno e mezzo dopo si arriva all’ultimatum: “O
lui o io”. Vince Calabresi e nel giugno del 2017 De Benedetti lascia in
modo poco sereno la presidenza della Gedi. A quel punto inizia a
degenerare tutto.
De Benedetti si allontana sempre più dal
giornale e dal gruppo, ora presieduto dal figlio Marco e guidato dall’ad
Monica Mondardini. Poi arriva l’intervista a Eugenio Scalfari, il
fondatore di Repubblica, a Di Martedì il 22 novembre: tra Di Maio e
Berlusconi l’ex campione dell’anti-berlusconismo sceglie Berlusconi. De
Benedetti scrive a Scalfari una lunga email spiegando che non condivide
quella presa di posizione, che danneggia il giornale. Scalfari non
risponde, l’Ingegnere si offende e il 2 dicembre consegna al Corriere
una lunga intervista contro Scalfari e contro Repubblica. Seguono varie
puntate fino all’intervista di De Benedetti a Lilli Gruber, a Otto e
Mezzo, mercoledì. Dietro queste dinamiche industriali e personali c’è,
però, una crisi culturale. De Benedetti non ha espresso una posizione
molto diversa da Scalfari: voterà Pd, perché “se penso che Di Maio
potrebbe essere premier di questo Paese, ha ragione mille volte
Berlusconi che da questo Paese bisognerebbe scappare”. Ma tra l’ex
Cavaliere e il leader M5S non sceglie (Berlusconi lo ha anche chiamato
dopo l’endorsement di Scalfari, pensando che fosse stato ispirato
dall’Ingegnere). In questi anni Repubblica ha sempre sposato questa
linea. Basta scorrere gli editoriali di Ezio Mauro, direttore per un
ventennio (era uno dei nomi per la presidenza dopo De Benedetti). Nel
2011 saluta l’arrivo dei tecnici di Mario Monti, un esecutivo appoggiato
da Berlusconi: “Nasce il governo del riscatto e dell’equità”. Nel 2013
avalla prima la rielezione di Giorgio Napolitano e poi il suo progetto
di un governo di larghe intese con Enrico Letta in nome del principio
“prima il Paese”. Intervista l’ad della Fiat Sergio Marchionne per farlo
rispondere agli attacchi sul disimpegno dall’Italia. Poi nel 2014
saluta l’arrivo di Matteo Renzi al potere commentando che “Palazzo Chigi
per Renzi non è un punto di arrivo, ma una partenza. E il cambiamento
non è un’opzione politica ma una magnifica condanna”. Repubblica non si
schiera esplicitamente durante la campagna per il referendum, ma gli
editorialisti più ostili alla riforma costituzionale voluta da Renzi
scrivono sempre meno, tipo Gustavo Zagrebelsky. Mentre il nuovo
direttore Mario Calabresi attacca spesso il Movimento 5 Stelle e
intervista personalmente un consulente di Renzi come Diego Piacentini
(ex Amazon). Soltanto all’indomani della sconfitta, Ezio Mauro parla di
“populismo del potere” (renziano) e spiega che Renzi ha perso perché “ha
pensato di proporsi come l’unico attore del rinnovamento, denunciando
come conservatori o parrucconi tutti coloro che avanzavano obiezioni”.
Questo
approccio – “prima il Paese” anche, se necessario, a fianco di
Berlusconi – allontana editorialisti e lettori. I risultati stavano per
costare il posto a Calabresi, in autunno, che è rimasto – almeno fino
alle elezioni – con la scusa del rilancio grafico, ma affiancato da un
condirettore, Tommaso Cerno. Il voto del 4 marzo, con il Pd avviato
verso il 20 per cento e Repubblica verso le 160.000 copie, con Scalfari e
De Benedetti che si insultano dai talk di La7, rischia di segnare
davvero la sconfitta di una stagione che è stata editoriale, politica e
culturale.